CAPITOLO QUARTO

Chiavi di antichi forzieri. AMPaschi, Mostra.

LA NOBILE DEPUTAZIONE
(1815-1858)

1. Le partite decotte

Caduto Napoleone, la sorella granduchessa Elisa aveva dovuto lasciare la Toscana, ormai occupata dagli inglesi, dagli austriaci e dai napoletani di Gioacchino Murat. A questi ultimi, che a Firenze avevano costituito un governo provvisorio, si rivolse subito la Deputazione del Monte con una memoria, dove si chiedeva che il Comune di Siena pagasse i suoi arretrati e che si rispettassero gli antichi statuti della banca 1

AMPaschi 512 (2 mar. 1814).

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Le richieste rimasero senza risposta: dopo il trattato di Parma, infatti, i napoletani avevano lasciato il campo e in rappresentanza del restaurato granduca Ferdinando III di Lorena era giunto a Firenze - insieme con i soldati austriaci - il principe Giuseppe Rospigliosi. A Siena il maire Bianchi era diventato prefetto provvisorio e Flavio Chigi aveva riassunto la carica di gonfaloniere, coadiuvato da cinque consiglieri e da un Consiglio municipale composto da venticinque membri.
Una nuova Deputazione, eletta secondo le regole antiche, riprese a governare Monte dei Paschi e Monte Pio dal 1° gennaio 1815, conservando saggiamente il sistema ipotecario francese, che consentì maggiore sicurezza e celerità alla concessione dei prestiti.
Al restaurato granduca la Deputazione chiese il ripristino della "giurisdizione privativa" per i debitori del Monte, che l'aveva esercitata fino al 1784; oppure, in alternativa, l'assegnazione di un giudice, "cui privatamente competesse su tutti i debitori di esso Monte, sottoposti a qualsivoglia altro tribunale" 2

Ivi,670,n.76.

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Il 25 giugno 1815 il senese Antonio Francesco Bandini scrive nel suo diario: "Da Zurigo giunge la notizia officiale della disfatta della grande armata e della vittoria conseguita dal duca di Wellington a Waterloo" e il 21 luglio continua: "Si può dire terminato il passaggio delle truppe tedesche, provenienti da Napoli; meno delle strascicate dei restati negli spedali, malati o per altra cagione. Ma sono finiti anche i denari, giacché la Cassa di Dogana va avanti a giornata; quella dell'Uffizio Generale delle Comunità ha fermati i pagamenti delle provvisioni del corrente luglio; quella della Comunità civica è vuota affatto; siccome le casse delle Comunità di Radicofani, San Quirico, San Casciano de' Bagni, Piancastagnaio, Montalcino, sono finite e tutte le sopranominate sono colme di debiti" 3

BCS,ms.D.III.7: A. F. Bandini, Diario senese, ad annum.

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In questa critica situazione si trovava anche il Monte Pio, come dimostra una lunga lettera, che i deputati dei Monti Riuniti inviarono al Comune il 6 luglio 1816 e che esordiva con queste parole: "Le infelici circostanze di questo Monte di Pietà, che ne presagiscono fra breve tempo la distruzione, se non gli si appresti sollecito ed efficace riparo, ci obbligano, in adempimento dei nostri doveri, a rappresentare alle Signorie Loro che, dopo i grandiosi scapiti che soffrì il Monte predetto, [...] fra gli altri mezzi che crederanno opportuni di proporre al Regio Trono per renderlo attivo a pubblico sollievo, potessero comprendervi anche l'aumento sull'attuale interesse del 4 per cento, fino al 5 [...], aumento che, nelle attuali circostanze, non sembra ingiusto; e l'obbligo ai Benefiziati Ecclesiastici, alle Comunità e Luoghi pii laicali, non esclusa la Compagnia della Madonna sotto lo Spedale di questa città, per tutte le sue amministrazioni, di investire i loro capitali col frutto al 4 per cento, sui quali capitali lucrerebbe il Monte un uno per cento" 4

AMPio 2, n. 53.

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Circa un anno dopo, un altro documento della Deputazione cercò di dimostrare che anche il Monte dei Paschi era "un vero Monte Pio, colla sola differenza - si legge nella nota - che il Monte Pio impresta sull'ipoteca dei mobili, ed il Monte dei Paschi su quella degli immobili, essendo comune, tanto al debitore dell'uno come a quello dell'altro, la facoltà di pagare il proprio debito in tutti i giorni ed in qualunque somma che gli piacesse. Ma quello che, ad ogni evidenza, oltre gl'imprestiti suddetti, prova la qualità di vero Monte Pio nel Monte dei Paschi si è la erogazione delle sue entrate per annui scudi 2190 in sussidio del Monte Pio [e] delle Scuole regie di S. Niccolò in Sasso; le quali senza i suoi soccorsi non sussisterebbero" 5

AMPaschi 11, n. 58 (23 ag. 1817).

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Per continuare ad elargire queste ed altre sovvenzioni, il Monte dei Paschi aveva però bisogno di contare sull'osservanza dei doveri dei suoi debitori e il 17 settembre 1817 fu costretto a diramare a tutti i tribunali del granducato un avviso a stampa dove "si faceva pubblicamente noto a tutti i debitori morosi che, dentro il perentorio termine del prossimo futuro mese di novembre, pagassero alla cassa del Monte gli interessi già maturati e le rate delle sorti scadute, altrimenti sarebbesi contro di loro proceduto giudicialmente, non solo per il pagamento degli interessi arretrati e delle rate delle sorti scadute, ma anche dell'intero capitale da loro dovuto" 6

Ivi, n. 60.

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Un riscontro delle "partite inesigibili e perdute" redatto quasi un anno dopo evidenziò una cifra di 5200 scudi, 6 lire, 13 soldi e 4 denari, oltre quella degli interessi sulle stesse di 12.967 scudi, 6 lire e un soldo. Riferendo questi dati al governo, che li aveva richiesti, la Deputazione chiese il permesso di riportare tali partite "al bilancio delle decotte, colle stesse dichiarazioni ed avvertenze prescritte dagli Otto Deputati sopra gli ordini di questo Monte all'occasione dei precedenti quattro spurghi di partite decotte, eseguiti negli anni 1694, 1714, 1725 e 1737. Con questo mezzo - concludeva - verrà a rettificarsi la dimostrazione dello stato attivo, né faranno capitale somme che sono inesigibili" 7

Ivi,671 (22 lu. 1818).

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Giuseppe Marsiani, Ferdinando III di Lorena, 1818. Siena,Archivio dell'Università 214 degli Studi di Siena.
Nove giorni dopo, il 31 luglio 1818, il governo ordinò l'aumento degli interessi per i creditori del Monte dei Paschi al 5 per cento e per i debitori al 5 e due terzi; concesse anche al Collegio Tolomei di prendere un prestito dal Monte di diecimila scudi per i lavori necessari alla nuova sede del Collegio nel soppresso convento di Sant'Agostino; la somma doveva essere restituita entro dieci anni, in misura non minore a mille scudi all'anno.
Fu anche ordinato che Monte dei Paschi e Monte Pio presentassero annualmente i loro bilanci all'Ufficio delle revisioni e sindacati, che era stato istituito nel 1759 riunendo l'ufficio mediceo dei Sindaci - incaricato delle revisioni ordinarie su tutti i contabili dello Stato - e quello dei Soprassindaci, cui spettavano le revisioni straordinarie. Retto da cinque magistrati controllori della gestione delle pubbliche aziende, l'Ufficio poteva chiedere la giustificazione di qualsiasi partita ed ebbe vita fino alle riforme costituzionali del 1848 8

Firenze (secolo XII-1808), a cura di G. Prunai, Milano, Giuffré, 1967, pp. 97 e 122.

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Oltre che presentare i bilanci, il rescritto del 10 settembre 1819 ordinava "che tutti i debitori arretrati dovessero essere consegnati al camarlingo per esigersi a schiena, accordandogli le partecipazioni solite darsi ai camarlinghi comunitativi" 9

AMPaschi 11, n. 101.

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Si chiamava esazione a schiena l'obbligo assunto dagli esattori di tributi di pagare allo Stato anche le somme non riscosse o inesigibili e la Deputazione dei Monti Riuniti contestò sia l'ordine di presentare i bilanci, sia questa procedura di esazione. La questione fu risolta dal provveditore della Camera delle Comunità di Siena, che convinse il governo a ritirare i citati ordini con queste parole: "Siccome è incontrastabile che le sovrane disposizioni, contenute nell'ultimo citato rescritto dei 10 settembre 1819, miravano a promuovere il maggior bene dei prelodati stabilimenti, così, resultando manifesto che recherebbe non poco sconcerto al regolare quotidiano loro servizio l'allontanamento dei libri e scritture; e che di un reale nocumento all'attuale florida negoziazione del Monte dei Paschi si renderebbe l'attuazione dell'esazione a schiena del camarlingo; mi sembra che, avuto riguardo alla tanto interessante conservazione dei medesimi e dei loro statuti, potesse Vostra Altezza Imperiale e Reale degnarsi ordinare che, tenuto fermo il metodo di revisione, fin qui praticato, spetti al soprintendente dell'Uffizio delle revisioni e sindacati, di valersi della facoltà accordatagli dal motuproprio del 2 aprile 1785 per visitare i detti stabilimenti e proporre ciò che reputasse utile a regolarne la scrittura dei conti; e che sospesa la consegna dei debitori al camarlingo del Monte dei Paschi per esigersi a schiena, fosse accordata a quella Deputazione la facoltà di convenire esclusivamente nel tribunale di prima istanza di Siena, quei debitori soltanto, i di cui contratti hanno un'epoca anteriore al 1815" 10

Ivi.

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Un precedente ordine sovrano aveva stabilito che ogni prestito fatto dal Monte doveva essere registrato in un atto privato firmato dal debitore, dal fideiussore, da tre testimoni, dal provveditore e dal cancelliere del Monte, a garanzia dei Conservatori delle ipoteche 11

Ivi,n.86 (14 mag. 1819).

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La Segreteria di Finanze tornò poi a occuparsi dei debitori del Monte, che dovevano essere esaminati da una Commissione appositamente nominata e formata dal governatore di Siena, dal provveditore dell'Ufficio generale delle Comunità e dal provveditore dello stesso Monte. Di quei debitori la Commissione doveva "esaminare lo stato, trattare composizioni ove occorresse, fare escutere coi mezzi ordinari quelli che, essendo nella possibilità di pagare, non si prestassero a un amichevole accordo, per rendere poi conto al Regio Trono delle transazioni che venissero stipulate fra le parti, egualmente che dei beni dei debitori non riconosciuti per insolventi, come falliti o decotti, onde rendere insoluti tutti i casi consimili ed ottenere l'appuramento nelle forme migliori del patrimonio" 12

Ivi,n.107 (18 dic. 1820).

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2. "Non l'impiego più lucroso, ma più cauto"

L'11 ottobre 1821 Carlo Alberto, duca di Savoia Carignano, e la sua consorte Maria Teresa, figlia del granduca Ferdinando III, giunsero in visita a Siena. Il duca era stato spedito via da Torino perché coinvolto in compromettenti amicizie con liberali e carbonari.
In Toscana era ospite del suocero, che - rimasto vedovo nel 1802 - nel maggio del '21 si era risposato, lui cinquantaduenne, con la venticinquenne Maria Ferdinanda di Sassonia, sorella maggiore di Maria Anna Carolina, moglie di suo figlio Leopoldo e quindi diventata suocera della sorella minore nonché cognata di colei, che insieme con Carlo Alberto di Savoia aveva generato il futuro re d'Italia Vittorio Emanuele, cioè colui che avrebbe decretato la fine del Granducato di Toscana.
Qui intanto proseguiva l'opera di bonifica della Maremma, della Valdinievole e della Valdichiana e proprio dopo un viaggio nel Grossetano Ferdinando III, ammalatosi di malaria, prematuramente morì il 18 giugno 1824.
Il "dolce sovrano" fu sinceramente compianto e la maggior parte dei toscani si augurò che l'opera di lui fosse proseguita dal figlio Leopoldo II. Il governo di questi esordì a Siena con l'emanazione di un regolamento disciplinare per i "regi impiegati", fra cui c'erano anche quelli dei Monti Riuniti.
"Tutti gl'impiegati - recita l'art. 1° del regolamento - dovranno intervenire all'Uffizio, in tutti i giorni, alle ore nove della mattina e trattenersi senza interruzione fino alle ore quattro; in tutte le stagioni dell'anno, esclusa per sistema la sera. Restano eccettuate le feste di intero precetto, e quei giorni in fra l'anno, nei quali, per consuetudine, ciascuno Uffizio suole star chiuso, o aprirsi solamente per il tempo necessario al disbrigo degli affari più urgenti. Art. 2°: I custodi dovranno aprire l'Uffizio alle ore otto, onde aver tempo di ripulire i locali e preparare l'occorrente per il servizio. Art. 3°: Non sarà permesso ad alcuno impiegato, durante le predette sette ore, di assentarsi dall'Uffizio, senza licenza del Capo del Dipartimento, o di altro impiegato superiore che ne faccia le veci. S.A.I. e R. non dubita che lo zelo dei Capi di Dipartimento farà loro conoscere la necessità di non moltiplicare queste licenze e di limitarle al più breve spazio possibile di tempo, penetrandosi della massima, che il governo non può permettere né tollerare che, con ammirazione del pubblico, i regi impiegati si veggano vagare per la città nelle ore destinate al servizio nei rispettivi Uffizi. Art. 4°: Qualora le circostanze straordinarie di servizio, cognite ai Capi di Dipartimento, esigessero un maggior trattenimento, gli impiegati tutti saranno obbligati di prestarvisi in qualunque giorno ed ora; ed occorrendo anco la sera" 13

AMPaschi 12, n. 20 (14 dic. 1824).

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Un anno prima era stato ripristinato al Monte l'ufficio del Procuratore, abolito nel 1747. La scelta di un esperto legale, che doveva assistere nella trattativa dei mutui e nell'escussione dei debitori morosi, era compito della Deputazione e questa, fin quando non fu abolito il privilegio di nobiltà per la nomina dei suoi membri, fu monopolio di un ristretto gruppo di famiglie nobili senesi, i cui cognomi ricorrono continuamente negli elenchi dei Monti Riuniti: Piccolomini, Sergardi, Tolomei, Spannocchi, Cinughi, Sansedoni, Bichi Ruspoli, Ottieri della Ciaia, Petrucci e così via. Era il gruppo dell'aristocrazia fondiaria cittadina, che esercitava il suo predominio economico e politico sui territori dell'antico Stato senese e che si rafforzò nei primi decenni dell'Ottocento, al punto che nel 1836 cinquanta sole famiglie risultano padrone di quasi il 22 per cento della terra del compartimento, col 19 per cento della rendita imponibile globale 14

Carlo Pazzagli,La terra delle città. Le campagne toscane dell'Ottocento, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, p. 183.

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Questi grandi patrimoni erano distribuiti in varie comunità del Senese e ciò significava anche la possibilità di un controllo delle stesse attraverso l'ufficio del gonfaloniere, che almeno in un terzo dei Comuni era appannaggio del ceto nobiliare cittadino.
Così, nella piccola capitale di una Toscana "diversa", poco popolata e posta fra il latifondo maremmano e le terre della mezzadria classica, tendeva a perpetuarsi una realtà economica fondata sui non brillanti ma automatici profitti di un'agricoltura arcaica, che non implicava rischi né investimenti di capitali. D'altra parte le ricchezze monetarie dell'aristocrazia avevano a Siena un collaudato custode: il Monte dei Paschi, l'antica banca di deposito di capitali "per cercare - come scrisse Leonida Landucci - non l'impiego più lucroso, ma più cauto" 15

Leonida Landucci, Istoria del Monte dei Paschi di Siena, in "La Patria", 23 luglio 1847. Cfr. anche G. Catoni, Siena nell'Ottocento: un limbo come valore, in La cultura artistica a Siena nell'Ottocento, a cura di C. Sisi e E. Spalletti, Siena, Monte dei Paschi, 1994, pp. 30-31.

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Leonida Landucci, che diventò ministro delle finanze e poi dell'interno nel governo Baldasseroni, nel 1826 aveva chiesto e ottenuto il titolo di 'apprendista' nei Monti Riuniti; da giovane fu un seguace di Giuseppe Mazzini e prima di diventare - da ministro - un feroce persecutore di liberali e democratici, aveva collaborato al "Giornale agrario toscano", ribadendo le critiche all'eccessivo ristagno del denaro nella cassa del Monte 16

Michele Lupo Gentile, Le disgrazie di un ministro granducale. Leonida Landucci, in "Rassegna storica del Risorgimento", XXV (1938), pp. 988-996.

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Invito rivolto alla Deputazione del Monte a partecipare a una funzione religiosa per i caduti di Milano e Pavia, 20 gennaio 1848.AMPaschi, Mostra.
L'esigenza di una più attiva negoziazione della banca senese fu sentita anche dalla sua Deputazione, che nel novembre 1824, per "facilitare il movimento delle operazioni del Monte dei Paschi", propose al governo alcune misure, fra cui quella di permettere alla Deputazione stessa "di fare in ogni seduta imprestiti fino alla somma di scudi mille per ciascuno; e di non far pagare i frutti, se non un mese dopo la data della deliberazione, quando per giuste cause non si fosse potuto stipulare antecedentemente il relativo contratto" 17

AMPaschi 12, n. 30.

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Tali proposte non furono accolte, ma fu avviato il progetto per un nuovo regolamento, il cui testo, approvato con rescritto del 9 settembre 1826, è il seguente: "I°: Che dal primo gennaio 1827 in poi l'amministrazione del Monte dei Paschi ritiri dai suoi debitori il frutto del cinque per cento. II°: Che ai sovventori del denaro, o già impiegato o che verrà impiegato da questa civica Banca, sia corrisposto il frutto del quattro e mezzo per cento, a contare dal primo gennaio 1827 prossimo avvenire. III°: Che, per garanzia degli impieghi che il Monte farà ai suoi ricorrenti, debba contentarsi di ricevere una speciale ipoteca in beni stabili, che eccedano peraltro il valore del capitale ottenuto, con un aumento della metà del medesimo; con facoltà però al Monte di esigere un fidejussore, tutte le volte che il richiedente non presentasse garanzie corrispondenti al capitale domandato. IV°: Che sia autorizzata la Deputazione del Monte a fare impieghi di denaro fino alla somma di scudi mille per ogni seduta.
Contemporaneamente è stato partecipato dal governo predetto, essere stato incaricato il soprintendente della Camera comunitativa di Siena, per mezzo di lettera della Segreteria di finanze dei 9 corrente, di invitare la Deputazione del Monte predetto a darsi ogni premura per rendere più modiche le spese occorrenti alla stipulazione dei relativi contratti di mutuo" 18

Ivi,n.44.

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Nel 1827 si aggiunsero a quelle già 'capitolate' col Monte alcune altre Comunità del compartimento senese, che s'impegnarono a coprire le eventuali perdite dell'istituto e a rifondere la garanzia di prima linea concessa dal granduca. Questa operazione, che facilitava il risanamento patrimoniale e il consolidamento della proprietà fondiaria, era stata sollecitata due anni prima da Giuseppe Giuli in una Memoria, pubblicata negli "Atti dell'Accademia dei Georgofili" 19

G. Giuli, Memoria riguardante l'istituzione del così detto Monte dei Paschi della città di Siena, in "Atti dell'Accademia dei Georgofili", IV (1825), pp. 202-210.

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Invito rivolto al provveditore dei Monti Riuniti a partecipare al Te Deum per la concessione dello Statuto, 19 febbraio 1848.AMPaschi, Mostra.
L'ordinamento operativo del Monte permetteva, infatti, come ha notato Giuseppe Conti, "una buona agilità di manovra nell'offerta di credito in relazione alle riserve ritenute adeguate, senza dover intervenire in scelte delicate e di emergenza, come erano considerate le variazioni del tasso di interesse, almeno in caso di rialzo" 20

G.Conti, Il ruolo delle banche nell'economia del Granducato diToscana nella prima metà dell'800. Strategie e tecniche tra tradizione e innovazione, in Banchi pubblici, banchi privati e Monti di pietà nell'Europa preindustriale, Atti del Convegno, Genova, Società Ligure di storia patria, 1991, p. 415.

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Il 24 marzo 1831 dall'Uffizio delle revisioni e sindacati giunsero le Istruzioni per un nuovo sistema computistico distribuite in ben 68 articoli; il primo di questi stabiliva che l'annata economica del Monte dei Paschi fosse quella dell'anno naturale, da gennaio a dicembre, e il secondo elencava le necessarie 'scritture' nel seguente ordine: "Un libro di entrata e uscita a contanti; un registro di mandati; un giornale per le partite non riguardanti la cassa; un libro maestro; diversi libri subalterni, secondo le varie masse di debitori e creditori" 21

AMPaschi 12, n. 130.

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Le scritture dovevano essere impostate a lire, soldi e denari e il bilancio generale doveva essere presentato entro il mese di marzo alla Comunità civica. Questa, "dietro le consuete verificazioni", doveva renderne conto entro aprile all'Ufficio di Soprintendenza comunitativa del Compartimento senese, affinché dal provveditore della Camera se ne potesse presentare "nel mese di maggio la relativa rappresentanza all'I. e R. Governo".
Alla fine di ogni trimestre poi il provveditore, con l'aiuto dei bilancieri, doveva presentare alla Deputazione lo stato dei debitori arretrati e le somme riscosse in conto ai medesimi nel trimestre passato, "affinché sia attivata - recita l'art. LIX della riforma - con una maggiore sollecitudine possibile l'esazione verso quei debitori, i quali, attesa la loro morosità, non hanno ancora saldato il debito dell'annata precedente. Inoltre sarà necessario, prima che i debitori giungano a due annate arretrate, che il provveditore si procuri l'estratto di tali debitori, per quindi trasmetterlo ai respettivi giusdicenti locali, affinché sieno escussi col privilegio del Braccio regio; e qualora riescissero inutili o di poca efficacia, questi atti esecutorii, si passerà la nota al Procuratore, il quale procederà immantinente per le vie ordinarie, per intimare al debitore la restituzione della sorte, od in caso diverso devenire alla vendita dei beni stabili ipotecati. Dal canto suo la Deputazione procurerà che siano rigorosamente adempiuti tali ordini, senza permettere alcuna dilazione sopra questo particolare" 22

Ivi.

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Anche al Monte Pio furono applicate nuove regole, tutte tese a un'integrale sottomissione al controllo governativo: l'istituto doveva essere diviso in due sezioni, di cui una - il Monte Bianco - doveva servire all'impegno, e l'altra - il Monte Nero - alla restituzione. Ognuna delle due sezioni doveva avere un massaro e uno stimatore. Tutti gl'impiegati del Monte Pio, sotto pena dell'immediata perdita dell'impiego, non dovevano "immischiarsi direttamente o indirettamente nell'acquisto dei pegni. Ad eccezione - avverte l'art. 39 del nuovo regolamento - dello stimatore, il quale, se per qualche pegno non venisse fatta, nel calore dell'incanto, una offerta da cuoprire la sorte e i meriti, poteva, per una sola volta, domandare al massaro che fosse tentato un nuovo esperimento in altro giorno; purché fosse eseguito avanti di cominciare la vendita di un altro numero" 23

AMPaschi 12, n. 130.

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In altri articoli si stabiliva che "al termine delle vendite mensuali lo stimatore doveva rimborsare l'amministrazione degli scapiti, che si fossero verificati sopra i pegni della sua condotta". Inoltre lo stimatore "non poteva imprestare, sopra ciascun pegno, una somma maggiore di lire 100, essendo per altro in facoltà del provveditore di accordare imprestiti fino alla concorrente somma di lire 350; al di sopra della quale era necessaria la deliberazione della Deputazione". Era infine "vietato espressamente l'ingresso alla masseria di persone estranee, qualunque esse fossero, come pure al massaro di restare solo nel locale del Monte, o ritornarvi in ore fuori di uffizio" 24

Ivi, artt. 53, 54 e 58.

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Pochi mesi dopo un'altra ordinanza granducale stabilì che "dovesse ammettersi a concorrere agli impieghi del Monte Pio qualsiasi senese di onesti natali e che avesse poi i requisiti di idoneità e moralità necessari; ciò non togliendo che, in parità di titoli, il Magistrato civico potesse preferire quei soggetti che, per agiata fortuna, e per migliore educazione ricevuta, dovessero far presumere di più compiutamente riuscire nel buon servizio del pubblico e del luogo pio" 25

Ivi,nn.118-120 (7 dic. 1831).

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Intanto la rivolta parigina del luglio 1830 e la conseguente soluzione orleanista avevano diffuso la "pericolosa moda - come si legge in una relazione della polizia 26

ASS, Governo di Siena 375 (6 genn. 1831).

- dei cosiddetti manichini ai polsi delle mani", con il tricolore francese, che aveva sostituito la bianca bandiera dei Borboni. Chi portava quel simbolo doveva essere tenuto d'occhio, soprattutto se frequentava il Caffè dei Quattro Cantoni, noto ritrovo di liberali.
Le indagini su costoro portarono alla scoperta di un'associazione segreta - la Congrega dei Fratelli di Bruto - che aveva sede nell'ex convento di Santa Chiara e che evocava nel nome un simbolo della lotta per la libertà. Nel 1832 furono eseguiti alcuni arresti e fu posto sotto severo controllo l'ambiente universitario, giacché la maggior parte degli scolari - secondo il presidente del Buon Governo - era imbevuta "delle moderne massime". In generale, però, notava lo stesso funzionario di polizia, "lo spirito pubblico non può essere migliore, e son persuaso che il popolo sia piuttosto in favore che contro il governo" 27

Vedi Ida Grassi, Il primo periodo della Giovine Italia nel Granducato diToscana (1831-1834), in "Rivista storica del Risorgimento italiano", II (1897), pp. 956-957.

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Scheda Tematica
La borsa dei viaggatori stranieri

Attenti ai trabocchetti

"Se è vero che chi è di animo probo può vivere con poco denaro a Siena, chi non lo è, e tende a spendere oltre le proprie entrate, finisce per rovinarsi qui come altrove": così scrive l'inglese Peter Beckford nelle sue Familiar Letters from Italy (1805). L'approvvigionamento di denaro è uno degli aspetti meno noti, ma non meno interessanti, nella letteratura del Grand Tour.
Può sorprendere che nella letteratura odeporica siano molto rari i riferimenti a questioni di denaro o, ancor più, a rapporti con banche e con banchieri. Il Grand Tour era un'esperienza tutta spirituale? E chi si avventurava per collaudati itinerari, da turista attrezzato ma senza seguire dettagliati canoni d'istruzione, come se la cavava con le necessità che lo accompagnavano tappa dopo tappa?
Di norma, si sa, il fabbisogno di denaro era assicurato in partenza. Il viaggiatore inglese tipo, ad esempio, depositava una somma di denaro a Londra, presso una banca che disponesse di uffici corrispondenti in Italia. Si faceva quindi consegnare una certificazione di avvenuto pagamento da esibire nelle città che aveva in programma di visitare e così poteva via via disporre delle somme indispensabili. Agli inizi del Settecento il sistema si raffinò con la diffusione delle lettere di credito. Bastava allora che il turista si facesse dare una lettera di credito, da mostrare all'occorrenza alle banche continentali che avessero definito specifici accordi con la banca britannica. Doveva comunque avere corrette informazioni sui cambi ed era un bel grattacapo. "Non è un caso - nota Attilio Brilli - se le guide più diffuse recano, sino al momento dell'unità d'Italia, una serie di tabelle pieghevoli in cui vengono raffigurate le principali monete del singolo stato italiano, in modo che il viaggiatore sappia orientarsi tra 'soldi', zecchini, ducati, paoli, testoni, scudi, grosse e pistole".
Benjamin West, Ritratto di Peter Beckford. Fonthill Abbey,Wiltshire.
Da una ricerca a tappeto sul problema degli approvvigionamenti di denaro da parte dei viaggiatori e sui modi, non solo in Siena, di risolverlo, i risultati sono stati pressoché nulli e per due ragioni: o i viaggiatori non ne parlano perché la reputano materia di nessun interesse o sorvolano perché ritengono di non dover chiarire traffici e trucchi che è preferibile tralasciare. In qualche carteggio si trova qualcosa, ma non abbastanza circostanziato. Talora si fa riferimento a banchieri, ma per ragioni non inerenti a loro funzioni professionali: lo scozzese Tobias Smollett cita un certo banchiere Barazzi a Roma - era un banchiere in proprio? - solo per dire che gli ha consigliato la via di Arezzo piuttosto che quella di Siena. Una via piuttosto impervia e paurosa: un pessimo consiglio del quale non avrà che da lamentarsi. All'indirizzo delle persone che incontra non ha complimenti: "di tutte le popolazioni che ho mai incontrato gli italiani sono i più scelleratamente avidi". L'avidità contraddice la decantata dolcezza dell'Italia.
Siena, Palazzo Pubblico, sala del Mappamondo col tribunale, 1904.
L'unico vago cenno senese da citare è quello di Jessie E. Westropp in Summer experiences in Rome, Perugia, and Siena in 1854, dove si rammenta di sfuggita ma con animo grato un factotum, tale Signor Nencini, ciabattino con bottega nella centralissima piazza Tolomei: costui è in contatto con l'azienda Packenham e Hooker che aveva sede a Roma e a Firenze e forniva presumibilmente servizi di tipo bancario. In sostanza i viaggiatori stranieri dovevano far riferimento a Firenze e a Roma per lettere di credito e altre transazioni di denaro.
Una nota cospicua in tema di denaro si pesca in una lettera di Peter Beckford che fu soprattutto un fanatico esperto di caccia alla volpe e dedicò al tema opere divenute classiche. Ben più conosciuto di lui è il cugino William Beckford. Peter viaggiò per l'Italia a due riprese, nel 1785 e nel 1787, e dal secondo viaggio nacquero le Familiar Letters from Italy to a Friend in England. Piene di pratiche indicazioni e informazioni utili, le lettere registrano usanze quotidiane, non disdegnando problemi spiccioli e mettendo in guardia da rischi e trabocchetti. È il caso della Lettera XLVIII, che dipinge un quadro da antologia.
"Se è vero - vi sta scritto - che chi è di animo probo può vivere con poco denaro a Siena, chi non lo è, e tende a spendere oltre le proprie entrate, finisce per rovinarsi qui come altrove. Un senese che sia a corto di soldi, evento questo più che probabile per un giovanetto a cui il padre non conceda più di un centinaio di corone all'anno, si rivolge a un giudeo e prende a prestito cento zecchini. Poniamo che ne riceva venti in contanti e il resto in stoffa; questa ultima viene portata al Monte e impegnata per cinquanta: al termine di diciotto mesi viene messa in vendita nella Piazza. Se dovesse fruttare sessanta, cosa che non credo, costui potrebbe ricavare gli altri dieci. A questa maniera riceve soltanto ottanta per i suoi cento, e oltretutto gli resta da pagare al Monte il tre e mezzo per cento, e il cinque per cento al giudeo. Per altro si tratta di un giudeo onesto che presta denaro con buone garanzie".
Il prestito ordinario della banca veniva rafforzato con una più onerosa operazione a usura, proseguendo un'abitudine diffusa - e tollerata - da secoli. Coloro che non erano in grado di offrire le richieste garanzie se la passavano assai peggio: "Senti ora come si comportano - precisa Beckford al suo interessato interlocutore - coloro che buone garanzie non hanno. Conosco una signora che prese a prestito del denaro. Il relativo calcolo in tutta la sua straordinaria portata, mi venne fatto da un confratello usuraio a cui talora ricorrevo per altre faccende. La somma presa a prestito era di quattrocento corone, per la quale un dieci per cento al mese venne pagato al giudeo che aveva fornito i gioielli corrispondenti a tale somma. La persona che li ricevette in pegno, li tenne al tasso dell'otto per cento annuo, oltre a dieci zecchini ogni due mesi, vale a dire mezzo paolo per ogni corona. La comune durata di questo tipo di prestito è di due mesi, così che, se si contrae il prestito per la durata di un anno, si sborsano seicentotrentadue corone per l'uso di quattrocento. C'è inoltre da osservare che il prestatore è spesso anche proprietario dei beni da impegnare, e che questi ultimi hanno sovente un'esistenza puramente nominale e mai reale".
Ritratto di Henry James, 1906. Collezione privata.
Il panorama si arricchisce - si fa per dire - di situazioni che sembrano proseguire infamanti procedure di ascendenza medievale. "Quando c'è un gentiluomo - indugia con malcelato sadismo il viaggiatore disincantato - che non è in grado di far fronte ai propri debiti, si suona la tromba che ingiunge alla gente di non fargli più credito; mi chiedo qual concerto di chiarine si avrebbe in Inghilterra, se seguissimo quest'uso! I possedimenti di costui vengono immediatamente posti sotto tutela ed è nominato un curatore. Le mogli continuano ad avere l'amministrazione dei propri beni, a meno che non la trasmettano con volontaria delega ai rispettivi consorti".
I senesi abitualmente erano scialacquatori, fedeli al cliché dantesco e accoglienti, di maniere garbate: "Finché se lo possono permettere, i Senesi amano essere spendaccioni. Son di cuore aperto e di maniere cortesi". Il che valeva per chi stava in alto nella piramide sociale di un centro che non poteva contare da un pezzo su una borghesia intraprendente e dotata di un industrioso spirito di iniziativa. Henry James capì lucidamente, da par suo, la strutturazione bipolare della società senese di fine Ottocento: una potente aristocrazia agraria sovrastava la povera gente davvero povera. L'accumulo finanziario delle rendite era la via principale di formazione della ricchezza e il sigillo del potere reale. La storica banca ne era la cassaforte. Lontani i secoli che avevano registrato l'affermarsi di un'aggressiva rivoluzione mercantile. Se ne percepiva una pallida memoria nei gesti, in quel gusto del ringhioso contrattare che dava l'illusione di una resistente vitalità. Nell'attraversare il Campo James ha, a momenti, l'impressione che l'eredità del passato non sia scomparsa del tutto: "Qui si tiene il mercato e dovunque gli italiani comprino o vendano, dovunque facciano i conti o mercanteggino, - e mentre ci passo in mezzo non senti far altro, ad ogni ora, sia a destra che a manca, - il pulsare della vita accelera i propri battiti". Nella grande sala del Palazzo Pubblico dove si trattavano gli affari della Repubblica "si tengono le sessioni di un moderno tribunale e vengono sbrigate altre prosaiche incombenze".
Anonimo, Veduta di Siena da San Domenico, 1933. Collezione privata.
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3. La Cassa di risparmio: un "salvadanaio del povero"

A questo popolo docile e ubbidiente si cercò di offrire il modo di conservare e accrescere i propri risparmi, custodendoli e rendendoli produttivi. Per attuare questo obbiettivo fu realizzato il progetto di una Cassa di risparmio, stilato da Antonio Tommasi, sotto-provveditore dei Monti Riuniti. Se il Monte dei Paschi, secondo Tommasi, poteva esser considerato "quasi un salvadanaio del ricco", la Cassa di risparmio doveva diventare "il salvadanaio del povero, a favore del quale - scriveva - è ben giusto che siano anche stabilite più vantaggiose e privilegiate disposizioni, onde vieppiù allettarlo ad una regolare domestica economia, nonché per vantaggiare quanto sia possibile la sua situazione sociale" 28

AMPio 3, cc. 217 e sgg. (24 mag. 1833).

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La Cassa, secondo Tommasi, doveva essere annessa al Monte Pio, che avrebbe provveduto "al più utile e cauto rinvestimento delle somme" depositate presso di lei. I depositi potevano variare da un decimo di fiorino (pari a dieci quattrini) fino a venti fiorini. Il frutto per il depositante era calcolato in ragione del 4 per cento annuo. Se il credito del depositante avesse poi raggiunto la somma di 105 fiorini, questa sarebbe passata in deposito al Monte dei Paschi "per acquistare a favore del proprietario della somma stessa un quarto di Luogo di detto Monte, tostoché, secondo lo stile e consuetudini di esso, potrà fargliene la vendita".
Al prezzo di nove quattrini i depositanti avrebbero ricevuto un libretto, "munito dell'apposito sigillo del Monte, con le registrazioni delle somme versate e i pagamenti dei frutti effettuati. Gli interessi non ritirati sarebbero stati capitalizzati.
Il progetto fu approvato il 23 agosto 1833 e la Cassa di risparmio cominciò a operare il 4 gennaio 1834 con qualche ulteriore norma, come - per esempio - la seguente: "Che i parrochi tanto della città che della campagna dovessero essere tenuti fuori da qualunque incarico relativo alla proposta istituzione della Cassa di risparmio".
Antonio Tommasi era stato nominato sotto-provveditore dei Monti Riuniti nel 1829 per aiutare l'anziano provveditore Lorenzo Forteguerri; morto questi il 17 maggio 1834, ne prese il posto, avviando subito un'aspra polemica con la Deputazione per ottenerne la soprintendenza con voto deliberante. Accusato di "soverchio amor proprio" e di una "immodica tendenza al potere", Tommasi "si abbandonò ad un riscaldamento tale che la Deputazione - si legge in una Memoria della stessa - per salvare il proprio decoro e quello dello Stabilimento, credé bene di immediatamente allontanarsi dalla stanza di sua residenza" 29

AMPaschi 13, n. 29 (23 ag. 1834).

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La Memoria prosegue osservando che ai deputati erano stati sempre subordinati "tutti i ministri, non escluso lo stesso provveditore" e che "fra i pregi delle Costituzioni del Monte, il più grande consiste nella breve durata dell'impiego di deputato, che è di un solo triennio; e nel rinnovare ogni anno la metà dei deputati. Questa sagace misura tende molto meno a distribuire in qualunque eligibile il peso e l'onore di dirigere l'amministrazione del Monte, che a prevenire gli abusi, che non di rado derivano dal potere prolungato, presso coloro che, giudicando col voto segreto, per la necessità di evitare spessissimo l'odio, non rendono conto della propria opinione. Noi vorremmo poter persuaderci che tutti i provveditori del Monte fossero esenti dagli umani difetti, ma non permettendo la nostra natura di accogliere questo concetto, un gravissimo inconveniente nell'ammettere il provveditore a deliberare in segreto, sarebbe dimostrato dal solo fatto di concedere a esso il voto perpetuo senza renderne conto; ed esso, che, sedendo sempre fra i nuovi Deputati, diverrebbe per una serie di inevitabili circostanze, l'arbitro supremo delle deliberazioni della Deputazione, la quale, a poco a poco, si convertirebbe in una ridicola ed inutile rappresentanza. Le Costituzioni del Monte, ben lungi dallo aver voluto nei Deputati un corpo morale o sottoposto all'influsso imperioso del provveditore, o di mera apparenza, hanno anzi loro accordato un esteso potere, che sta di fronte alle obbligazioni severe alle quali furono esposti. Da queste obbligazioni, che rimarrebbero senza equilibrio, diminuendo il potere, è nato quel credito immenso che ha fatto crescere la negoziazione del Monte nell'ultimo quinquennio, a tutto il 31 dicembre 1833, fino alla somma di L. 2.169.408, 9,3; perché la fiducia dei creditori del Monte non pensa nell'avere il Monte un provveditore più o meno zelante, ma ha il suo validissimo appoggio; non tanto nell'essere convinti che nel cambiamento annuale della metà dei Deputati si fugga lo scoglio di qualunque prevenzione; quanto nell'andare persuasi che i Deputati, col proprio danno, e spendendo il voto con pienissima libertà, non faranno cosa che ponga in pericolo la finanza del Monte ed i capitali privati. [...] In un secolo, in cui la pubblica economia è situata fra le scienze più utili, dovremmo gloriarci di possedere uno stabilimento, che il senno squisito dei nostri maggiori seppe inventare nel principio del secolo decimo settimo; quando, per il corso di due secoli e più, questa felice produzione dei nostri antenati ha conseguito non solo il suo fine, ma ha prosperato al disopra della più larga speranza; dobbiamo guardarci di toccare, per qualsiasi ragione, un edifizio tanto bene costruito e di proporre delle innovazioni che, ancora nel dubbio, lo potrebbero far crollare a sommo pregiudizio del pubblico".
A questa Memoria il provveditore della Camera di Soprintendenza Comunitativa, incaricato di risolvere la questione, rispose che non fossero variate le attribuzioni del Tommasi, che poco dopo fu rimosso dal Monte per essere nominato - guarda caso - nuovo provveditore della Camera di Soprintendenza Comunitativa.
Nel 1836 furono attuate alcune modifiche nella Cassa di risparmio: il frutto dei depositi scese al tre e mezzo per cento e fu tolta ogni limitazione all'importo degli stessi, rilasciando agli interessati "la cura di effettuare, volendo, il passaggio dei loro capitali al Monte dei Paschi" 30

AMPio 3, pp. 274 e 285.

. Questo aveva un nuovo provveditore, Alfonso Mignanelli, già soprintendente dei Regi Ospizi, ed era stato sollecitato a sovvenzionare l'Istituto senese per i sordomuti, creato dal padre scolopio Tommaso Pendola fin dal 1828, e poi il Collegio Tolomei. Considerando il deficit di tale istituto, la Deputazione del Monte chiese di essere dispensata dal nuovo prestito di oltre 63mila lire, che si aggiungeva a una sovvenzione straordinaria di tremila lire. La richiesta era giustificata in una lunga lettera al governatore, nella quale sono enunciati alcuni concetti-guida dell'azione del Monte: "Il primario e più saldo fondamento di questo interessantissimo Istituto è il credito. Il medesimo credito, poi, ha la sua base nella libertà degli amministratori di accordare o denegare gli imprestiti, non che sulla buona loro amministrazione. Che se il credito del Monte si estingue, perché presta coi denari dei privati, a uno notoriamente incapace di garantirli, i singoli creditori del Monte saranno solleciti a provvedere al proprio interesse. Ove poi la diffidenza andasse crescendo, le richieste dei capitali supererebbero tosto le ordinarie risorse del Monte; ed esso, per supplirvi, non avrebbe altro scampo, se non quello di disdire le sue sorti attive.
L'esistenza allora di questo interessante Stabilimento, unico forse nel suo genere, il quale rimase illeso nei politici sconvolgimenti del 1799 e 1800, e nel periodo di tempo che abbraccia l'epoca dal 1808 al 1814, sarebbe irreparabilmente terminata.
Senza arrestarci in questa affliggente prospettiva, facciamo soltanto avvertire che, ove il credito del Monte vacillasse, la primaria conseguenza e immancabile, sarebbe di vederne esausta momentaneamente la cassa. In questa ipotesi non è dato di conoscere come supplirà il Monte ai pagamenti, senza un pingue deposito di contante in mano al suo camarlingo. Sul qual proposito, è necessario altresì aver presente una circostanza sfavorevole al Monte, quella cioè che esso ha sempre pagato a vista i suoi creditori; ma che d'altronde, per ritirare i frutti sopra le sue partite attive, e per realizzarne le sorti, deve seguire le tracce della ordinaria procedura e dei tribunali civili. Quindi nel preavvertito caso che il Monte richieder dovesse ai suoi debitori le sorti imprestate, si troverebbe per necessità impegnato ad un numero quasi infinito di cause, esposto ad ingenti scapiti e spese non refettibili, a ricevere in fine in aggiudicazione compensativa estesi possedimenti. Divenuto il Monte padrone di stabili non potrà pagare chi avanza da esso; meno che retrocedendo i beni stessi ad esso aggiudicati. E qui è facile ad ognuno immaginarsi gli effetti funesti e terribili di una grande crisi, che, ripercuotendo disastra vari pubblici stabilimenti e promuove molteplici fallimenti privati.
Alla incolumità del Monte sono oggi strettamente interessate non solamente le particolari famiglie, non solamente i pubblici stabilimenti della nostra provincia, ma ancora le Comunità del Senese e del Grossetano compartimento, e tutte le altre dependenti dalle Camere di Firenze e di Arezzo, le quali si sono capitolate al nostro Stabilimento. È oggi questo una banca tanto vasta, che merita il nome di Provinciale, la cui esistenza, ove pericolasse, produrrebbe una scossa assai fatale ai privati, ai pubblici stabilimenti e al gran numero di Comunità del Granducato.
Non è esagerato il quadro da noi presentato, ed ognuno conosce che una folla di impensate richieste di capitali, sebbene eccitata da un timor panico, ha sovente portato il fallimento dei più probi e ricchi banchieri. [...] Per lo che, in forza degli ordini e regolamenti attualmente in vigore nel Monte, è assolutamente inconciliabile l'imprestito del quale si tratta, a meno che sia sussidiato dal concorso di un idoneo e solidale mallevadore. Né dalla necessità, nel presente caso, di un solvente mallevadore, dispensa la circostanza che il Monte subentrerà nelle ragioni dei creditori del Collegio, che debbono essere pagati con la nuova imprestanza, perché i citati ordini letteralmente prescrivono che il richiedente debba esibire nel proprio patrimonio, valutato secondo le stime catastali, tanti fondi liberi che pareggiano la somma imprestata, aumentata della metà, ossia, in più chiari termini, per la somma di 100, si ricerca un fondo libero eguale a 150.
Che il Collegio, con un deficit di lire 77.408, somma superiore a quella che ora nuovamente si ricerca, non è nel caso di garantire l'interesse del Monte nel modo prescritto dagli ordini, non pare che abbisogni di essere dimostrato" 31

AMPaschi 672, n. 7.

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4. Sovvenzioni concesse e negate

Non si verificarono le stesse resistenze per le sovvenzioni ordinate dal governo ed elargite all'Opera Metropolitana di Siena per i restauri della facciata del duomo cittadino, per i restauri della facciata del duomo di Grosseto e per l'Ateneo senese, al quale fu assegnata la somma fissa annuale di settemila lire sugli 'avanzi' del Monte. Questo, nell'ottobre 1842, su richiesta del provveditore della Camera di Soprintendenza Comunitativa, presentò una "dimostrazione degli aggravi", che in totale ammontavano a 56.012 lire, oltre le annue spese di amministrazione di circa cinquemila lire.
Nel contempo il governatore di Siena denunciava il "vistoso ristagno dei capitali depositati nel Monte dei Paschi, con danno evidente delle industrie di ogni genere", sollecitando provvedimenti diretti ad ottenere che i capitali circolanti fossero rivolti a beneficio delle predette industrie 32

Ivi, 14, nn. 38 e 45.

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Fu deciso perciò di abbassare il frutto dei capitali attivi al 4 e un quarto e quello dei passivi e depositi al 3 e tre quarti per cento. Inoltre il governo, "con la veduta di moltiplicare le occasioni di impiego ai capitali del Monte dei Paschi", consigliò le comunità dei Compartimenti di Firenze, Pisa e Arezzo di 'capitolarsi' col Monte, "ponendo loro sott'occhio i vantaggi che potevano risultare non tanto alle comunità stesse, quanto ai singoli possidenti delle medesime".
Alla Cassa di Risparmio era intanto affluito un contante abbondantissimo e la Deputazione dei Monti Riuniti cominciò a preoccuparsi del fatto che ciò potesse danneggiare il Monte dei Paschi. Per mantenere a questo la sua liquidità, con l'intesa che il risparmio era solo un fondo di garanzia da cui ricavare una rendita, senza l'impegno d'investirlo per ricavare un interesse, furono presi provvedimenti tesi a deprimere le attività creditizie della Cassa stessa, che si limitò ai soli prestiti sopra sicurezza ipotecaria, finendo per giovare - e solo parzialmente - al settore agricolo.
A questa troppo prudente gestione finanziaria dei Monti Riuniti, un gruppo di borghesi illuminati, le cui idee liberaleggianti si accompagnavano alla passione per le realizzazioni tecniche e per le imprese economiche, reagì cercando di sviluppare il credito pubblico e di evitare che il denaro rimanesse infruttuoso nelle casse dei privati.
Tale gruppo si formò intorno a Luigi Serristori, dal 1840 governatore della città e sostenitore della costruzione di una linea ferroviaria tra Siena ed Empoli e di una banca "di giro", che, sulla scorta di modelli stranieri e soprattutto della Banca Laffitte, avviasse due operazioni passive non comuni in quell'epoca, almeno in Toscana: l'apertura di conti correnti, anche con frutto per i creditori, e i depositi a frutto composto 33

Cfr.L. Landucci, Sull'istituzione d'una Banca di circolazione in Siena. Discorso letto all'Accademia dei Fisiocritici di Siena nella tornata del dì 2 maggio, in "Giornale agrario toscano", XV (1841), pp. 187-196 e [Policarpo Bandini,] Sul sistema bancario più conveniente alla città di Siena, in ASS, Policarpo Bandini 10. Vedi anche Alessandro Volpi, Idee bancarie e capitali nella Toscana degli Anni Cinquanta. Influenze culturali e circuiti di mercato, in "Rassegna storica toscana", LVI (2010), pp. 251-270.

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La nuova Banca Senese, guidata da Leonida Landucci, Policarpo Bandini e Giulio Puccioni, ammise allo sconto dei fogli di credito non solo i senesi, ma anche gli abitanti delle zone limitrofe. Ai promotori, tuttavia, non fu facile vendere le 75 azioni di 2000 lire ciascuna, che formarono il limitato capitale iniziale, da accrescere poi con i depositi, sui quali la nuova Banca avrebbe corrisposto un frutto. Essi dovettero prima difendersi dall'accusa di non aver avuto "particolari riguardi alla classe dei possidenti terrieri" 34

Sopra alcune erronee opinioni divulgatesi in riguardo alla Banca Senese, Siena, Porri, 1841, p. 7.

e poi spiegare che il Monte dei Paschi non avrebbe potuto accollarsi operazioni di giro cambiario "senza subire una riforma profonda del suo personale e nei suoi sistemi amministrativi" 35

Ivi,p.4.

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Policarpo Bandini, deputato del Monte, 1871.
Una riforma, questa, insistentemente sollecitata dal Serristori attraverso la magistratura civica, che invitò la Deputazione del Monte a modificare i criteri di valutazione delle garanzie ipotecarie, a ridurre i saggi d'interesse, a snellire le operazioni di prestito e a scegliere infine i deputati abolendo il sorteggio dalla "borsa dei nobili". Nessuna di queste proposte fu accettata, preoccupato com'era il Monte di difendere il suo assetto creditizio, senz'altro criticabile riguardo all'impiego dei depositi, ma non sempre riguardo ai tassi di rendimento, che anzi ebbero fra il 1845 e il 1847 "un apprezzabile incremento in rapporto al patrimonio, all'attivo e ai ricavi" 36

G.Conti, La politica aziendale cit., p. 120.

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Il Serristori invitò il Monte ad acquistare alcune azioni del nuovo istituto bancario con una lettera del 14 dicembre 1841, nella quale scriveva: "L'utilità di una Banca di sconto in Siena non può essere revocata in dubbio da chi ha fior di senno. Come per tutto altrove, il suo ufficio deve esser quello di incoraggiare le languenti industrie di questa città e suo territorio; somministrando loro all'uopo i capitali di cui, in moltissimi casi, sono mancanti [...] Credo che, se codesto Monte dei Paschi (previa la debita superiore permissione) si facesse acquirente di alcune azioni in detta banca, ciò servirebbe non poco ad accrescere favore a questo nascente Istituto, favore che gli è necessario per rendersi utile al pubblico. L'antica reputazione del Monte dei Paschi, gli ingenti capitali che custodisce, quello di cui è proprietario in proprio, sono tutte circostanze favorevoli, che sembrami poterlo decidere a farsi acquirente di alcune azioni della nuova Banca di sconto. E tale provvedimento ha per sé degli esempi, perché è noto che, quando fu istituita la banca di sconto di Firenze, il governo acquistò delle azioni. Il Monte dei Paschi, che ha sempre contribuito e contribuisce a tutto ciò che di utile si fa in Siena, vorrà egli lasciarsi sfuggire quest'occasione e non vorrà associarsi con gli altri cittadini alla creazione di uno Stabilimento, che ben diretto può chiamare a nuova vita le industrie tutte di questa antica e celebre città?".
Il giorno dopo il Monte acquistò quattro azioni della Banca di sconto, ognuna del valore di 666 lire, 13 soldi e 4 denari, in nome e per interesse della Cassa di risparmio.
Fondata in accomandita e presto imitata da Arezzo, Pisa e Lucca, la nuova Banca Senese ottenne buoni risultati, che valsero ad accrescere il prestigio dei suoi fondatori. Uno di questi - Policarpo Bandini, col supporto tecnico dell'ingegnere Giuseppe Pianigiani - riuscì a realizzare anche l'altro progetto caro al Serristori: la costruzione di una strada ferrata senese, alla quale dette il decisivo avvio la notizia dell'apertura al pubblico della ferrovia Livorno-Pisa, prima sezione della linea Leopolda.
Nel volume pubblicato nel 1845 da Carlo Ilarione Petitti sulla "questione ferroviaria" dell'Italia prequarantottesca, circa l'iniziativa senese si legge che era una "impresa patriottica" meritevole delle "più sincere lodi", ma che si doveva lamentare il fatto che i promotori avevano dovuto dipendere "quasi interamente dai sensali e banchieri pel collocamento delle azioni della società", per cui "le azioni suddette [...] prima ancora che potessero ragionevolmente acquistar credito, furono materia di giuoco e fonte o soggetto d'aggiotaggio" 37

Carlo Ilarione Petitti di Roreto, Delle strade ferrate italiane e del migliore ordinamento di esse. Cinque discorsi [1845], in Idem, Opere scelte, II,Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1969, p. 1006.

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Naturalmente tali metodi non piacevano ai deputati del Monte, che solo dopo l'inaugurazione della linea per Empoli e il comprovato sviluppo dell'impresa - divenuta la più importante della città con i suoi 1700 operai impiegati nel cantiere e poi nelle officine meccaniche - concessero la loro fiducia alla Società denominata della "Strada Ferrata Centrale". Tesa al proseguimento della linea verso Roma, questa ottenne dal Monte dei Paschi un considerevole aiuto nel 1854 e poté in tal modo organizzare una cessione di obbligazioni o carati di rendita per la somma di tre milioni e 250 mila lire a qualsiasi offerente.
Appena tre anni dopo, però, il Monte rifiutò alla Società un prestito di un milione e mezzo, sollecitato con fervore dall'amministrazione comunale senese. Nell'esporre le ragioni del rifiuto, la Deputazione scrisse, fra l'altro: "Il nostro stabilimento è un istituto di credito: abbiamo superiormente avvisato al florido essere di questo credito. Possiamo aggiungere adesso che i depositi da un tempo in qua, continuamente crescenti, fanno ragionatamente argomentare che la fiducia di cui il nostro Monte va, di giorno in giorno, crescendo: abbiamo altresì toccato quanto importi confermare questo precipuo elemento del benessere di questo grandioso stabilimento. Esposti gli ostacoli intrinsechi e regolamentari, che incontra l'affare in questione, non vogliamo passare del tutto sotto silenzio l'ordinario ritornello, che si sente ripetere, per condannare le cautele che circondano la concessione degli imprestiti. Si fa un carico del denaro stagnante, quasi che la quantità del denaro giustificasse il meno prudente suo collocamento. L'accusa per altro non è giusta. Infatti mai l'impiego dei depositi è stato attivo come nell'anno che corre. Sono già fruttifere le somme depositate nel decorso febbraio: si son date fin qui ad imprestito L. 1.487.000; mancano domande per buoni e cauti impieghi futuri" 38

AMPaschi 675, n. 16.

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Questo atteggiamento della Deputazione, costantemente riproposto di fronte ad alcune richieste comunali e che portò ad accesi scontri fra Monte dei Paschi e Municipio, è da giudicare alla luce dei calcoli utilitaristici del capitale finanziario, non solo italiano ma europeo, in una fase di piena industrializzazione.
Con la stessa cautela usata dagli amministratori del Monte si muovevano, infatti, altri banchieri e capitalisti e i contrasti fra Deputazione e Comune, più che ricondotti a lotte fra fazioni della classe dirigente cittadina 39

Cfr., per es., G. Conti, La politica cit., p.189 e Giorgio Mori, Dall'unità alla guerra: aggregazione e disgregazione di un'area regionale,in La Toscana, a cura di Giorgio Mori,Torino, Einaudi, 1986, pp. 218-219, dove si legge: "Le animosità fra le due istituzioni [Monte e Comune di Siena] diventeranno una specie di leit-motiv della storia e della cronaca della città".

(i deputati del Monte erano pur sempre nominati dal Consiglio comunale!) potrebbero essere meglio giustificati dalla volontà, per ambedue le parti, di difendere tradizioni e benefici, divenuti quasi oggetto di culto in una città come Siena, dove il "municipalismo" degli abitanti - "spesso noioso a causa di sua eccedenza", come scrisse Bettino Ricasoli al Vieusseux - recava tuttavia "frutti inattesi e meravigliosi" 40

Carteggi di Bettino Ricasoli, a cura di M. Nobili e S. Camerani, II, Roma, Istituto per la storia moderna e contemoranea, 1940 (lettera del 26 genn. 1845).

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Oltre la realizzazione della ferrovia, fra questi frutti inattesi c'era anche il successo della Banca Senese che, aperta con un capitale di sole 150 mila lire, al suo secondo anno di vita l'aveva già triplicato. La nuova Banca aveva anche chiesto al Monte che accettasse i biglietti di sua emissione con certe garanzie, ma la risposta fu negativa e non mancarono le critiche per tale rifiuto; già il Luigi Serristori aveva parlato di "funesto ristagno di capitali" nelle casse del Monte e il gonfaloniere di Siena Mario Nerucci scrisse del Monte come di "una pianta parassita". Molte furono le pressioni per ottenere la revisione dei metodi di accesso alla Deputazione dei Monti Riuniti, al fine di "attenuare le forme di privilegio esistenti" 41

G.Conti,La politica aziendale cit., p.117.

, dato che la "borsa dei nobili", da cui venivano estratti i deputati, contava solo 172 nomi.
Anche tale richiesta fu respinta e per chiudere la questione il provveditore Mignanelli scrisse alla Camera di Soprintendenza comunitativa che se sotto il governo francese, non ammettendosi allora distinzioni di classe, si era interrotta l'antica prassi, "il savissimo Ferdinando III, di sempre grata e gloriosa memoria, appena tornato a reggere i destini della Toscana", aveva richiamato in pieno vigore gli antichi statuti del Monte, "e non curando il comodo e la facilità di un più vasto campo nella scelta dei Deputati, ebbe in mira altro ben più importante vantaggio: quello cioè che garantisce a questo importante stabilimento una rappresentanza confacente alla sua natura; per cui è ridotto al minimo possibile il caso che la residenza del Monte fornisca esca agli imbrogli, all'insaziabile sete del denaro, ad interessate speculazioni" 42

AMPaschi 672, n. 102.

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Un'azione della Società per la Strada Ferrata Centrale Toscana.AMPaschi, Mostra.
Un contributo del Monte dei Paschi e della Cassa di risparmio per complessive 1400 lire, concesso per l'armamento della Guardia Civica istituita nel dicembre 1847, apre la serie di testimonianze che - anche dall'archivio dell'antica banca senese - introducono alla storia del convulso periodo, in cui i toscani assistettero alla fuga del granduca, alla formazione di un governo "democratico" e al rientro a Firenze di Leopoldo II sotto la protezione dei soldati austriaci.
Pochi mesi prima di questo malinconico ritorno, il granduca aveva diffuso un proclama così concepito: "L'ora del completo risorgimento d'Italia è giunta improvvisa, né può, chi davvero ama questa Patria comune, ricusare il soccorso che reclama da lui". Era il 21 marzo 1848 e il 18 aprile Cosimo Ridolfi, capo del governo toscano, chiese anche al Monte di partecipare all'Imprestito Nazionale: "Forse il Monte dei Paschi potrebbe distinguersi in questa occasione e trovare sfogo ai suoi capitali, nel servire coi medesimi alla causa santa d'Italia".
Al patriottico invito i deputati del Monte "avrebbero voluto rispondere all'appello"; purtroppo, però, la situazione contabile dell'istituto non era come quella dell'anno precedente, quando - scrisse il priore dei Monti Riuniti Martinozzi - "poté sussidiare la Cassa di risparmio di Firenze, mutuandole la ingente somma di lire 200.000. Nella difficile posizione nella quale trovavasi allora quello stabilimento, trovansi adesso questi Monti Riuniti; per lo che non solo sono attualmente impossibilitati a figurare fra i sovventori delle finanze; ma necessitati ancora a ricorrere a quei mezzi che saranno creduti opportuni, per conservare loro quella buona opinione che hanno mai sempre goduta, e della quale abbisognano per la loro esistenza. Il Monte Pio, per causa delle aumentate impegnagioni, ha dovuto già, da qualche mese, sospendere gli sconti dei crediti con le Comunità per lavori in accollo. La Cassa di risparmio riceve ben pochi e piccoli depositi; ed ha al contrario molte e continue disdette per somme non tenui. Il numerario del Monte dei Paschi non passa oggi le lire 639.884" 43

N. MengozziIl Monte cit.,VIII,, p.341.

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A riprova di quanto scritto, poco dopo i debitori del Monte furono invitati alla restituzione dei rispettivi mutui e chi aveva depositato denari "per impiegarsi" era avvisato di non poter pretendere la restituzione a ogni richiesta.
Mentre la Cassa di Risparmio di Firenze si rifiutava di rendere la somma ricevuta in prestito, il Municipio senese chiedeva denaro per "attivare lavori a sollievo della classe indigente, che li reclamava anche con minaccia di turbare l'ordine pubblico" 44

Ivi,p.369.

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Un ordine pubblico messo a dura prova durante l'infelice parentesi del governo Guerrazzi, quando anche nella solitamente tranquilla Siena il provveditore dei Monti Riuniti dovette richiedere al prefetto "un picchetto di forza pubblica" per contenere la folla, che ogni venerdì si accalcava alla Cassa di risparmio per ritirare i propri depositi 45

AMPaschi 5, n. 1 (22 mar. 1849).

. Le restituzioni furono limitate a soli 20 fiorini per ciascun libretto, mentre al Monte, nell'arco di un anno e mezzo, la massa dei debitori arretrati salì alla somma di quasi 600mila lire.
Col ritorno del granduca a poco a poco il denaro riprese ad affluire sul mercato e in tal misura che il Monte ribassò il saggio d'interesse al 4 per cento per i depositi e al 4,50 per i mutui. Anche la Cassa di risparmio ridusse di mezzo punto i tassi d'interesse e la relativa tranquillità sociale, raggiunta dopo il tumultuoso biennio 1848-1849, incrementò la produzione agricola, la sperimentazione industriale e lo sviluppo commerciale.
"Nel florido decennio che va dal 1851 al 1861 il Monte vide più che raddoppiare i depositi affidatigli, che si portarono, infatti, da 11 a 21 milioni, mentre quelli della Cassa di risparmio da un milione e 45.000 arrivarono a un milione e 667.000 circa. Il Monte poté anche effettuare un prestito al Comune di Firenze con l'obbligo di restituzione in dodici anni" 46

[G. Prunai,] Monte dei Paschi di Siena cit., p. 53. Il prestito al Comune fiorentino fu di 1.231.686 lire.

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Anche il Comune di Siena ottenne prestiti dal Monte, ma non mancarono con esso frequenti tensioni. "D'altro canto - come ha rilevato Giuseppe Conti - tra Comune e Monte restava la spinosa questione del ruolo del Comune, che da soprintendente si presentava di fatto nella condizione di debitore dell'ente controllato con gli inevitabili contrasti e le lotte di potere che ne derivavano" 47

G.Conti, La politica aziendale cit., p. 170.

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Il 30 dicembre 1852 il governo autorizzò il Comune di Siena "a contrarre col Monte dei Paschi un nuovo imprestito, fino alla concorrenza di L. 284.700; delle quali L. 68.900 per erogarsi in ripiano del deficit del cadente anno, e L. 215800 da prendersi in quei tempi e per quelle rate, che sieno occorrenti alla estinzione del debito con altri creditori alle respettive scadenze" 48

AMPaschi 17, n. 1.

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Pochi giorni prima un consigliere comunale, il dottor Giuseppe Corsini, aveva presentato una Memoria, in cui proponeva la soppressione della Deputazione dei Monti Riuniti, definita "una irrazionalità", sostituendola col solo provveditore, assistito da due assessori legali. Tale Memoria non ebbe sviluppi e il Monte proseguì con i suoi 'avanzi' a elargire denari a varie istituzioni senesi, ottenendo anche un encomio dalla Corte dei Conti per i soddisfacenti risultati della sua gestione amministrativa nel quadriennio 1850-1853 49

Ivi,n.107 (20 apr. 1855).

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Proprio nel 1850 avvenne il ritrovamento del grande affresco della Crocifissione, che Pietro Lorenzetti aveva dipinto nella sala capitolare del convento di San Francesco, e delle altre due opere del fratello di Pietro, Ambrogio, col Martirio dei frati francescani e con San Ludovico e Bonifacio VIII. Grazie all'intervento di Pasquale Franci, che scoprì i dipinti sotto l'intonaco del locale da lui affittato, e al decisivo contributo del Monte dei Paschi, con una delicata operazione i tre affreschi furono staccati dalle pareti e trasferiti nell'adiacente chiesa di San Francesco, dove si possono ammirare dal 1855.
Nell'ottobre di quell'anno il gonfaloniere di Siena Celso Petrucci ricorse al granduca per costringere il Monte a soccorrere ancora una volta il municipio. Al rifiuto della Deputazione, che ribadì la necessità di formare, con gli avanzi d'amministrazione, un patrimonio capace di far fronte a qualunque sinistra eventualità e alle eventuali perdite nella negoziazione della banca, il gonfaloniere reagì scrivendo di ritenere "immorale ed utopistica" la formazione del detto patrimonio: "immorale, perché andrebbe facendosi con degli assegnamenti erogabili a pubblico vantaggio; utopistica, perché, a formare un patrimonio come quello che si vagheggia, occorrerebbe il lasso di più secoli; nel corso dei quali non sarebbe improbabile che questo patrimonio, per vicende imprevedute ed imprevedibili, servisse ad uso ben diverso da quello propostosi da coloro i quali si adoprano con tanta premura, non per costituirlo, ma per accrescerlo. Che in fine, passando dall'astratto al concreto, è un fatto: che l'amministrazione del Monte dei Paschi, indipendentemente dalla rendita prodotta dalla differenza fra il frutto percetto dai debitori e quello corrisposto ai creditori, ha già un patrimonio fruttifero di un milione e più lire" 50

Ivi,674,nn.59 e 60.

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La replica del provveditore Mignanelli non si fece attendere: in una lunga lettera scrisse che "per riparare ai mali ognora crescenti del Comune, e sostenerlo", non si poteva compromettere "la vita di un corpo sano", la cui esistenza interessava tutta la Toscana. Alla fine il granduca concesse solo una riduzione rateale più tollerabile per il Comune nei pagamenti da esso dovuti al Monte per prestiti avuti in precedenza.
Un'altra richiesta di aiuto giunse alla Deputazione il 17 luglio 1857 da parte del Consiglio d'amministrazione della Strada Ferrata Centrale Toscana, che chiedeva un prestito di un milione e mezzo di lire, con la fideiussione del Comune di Siena. Rivolgendosi ai colleghi, il provveditore rispose: "A tutti è manifesto con quanta alacrità e prontezza la Deputazione dei Monti Riuniti è venuta in soccorso della Società Anonima della Strada Ferrata Centrale. Non staremo qui a rammentare l'appoggio dato a quella interessantissima intrapresa, in un momento decisivo: quello cioè nel quale versava in estremo pericolo la questione della sua prosecuzione. A conferma di ciò citeremo le deliberazioni del 12 marzo e 22 ottobre 1853, del 29 luglio 1854, registrate agli atti del nostro Monte Pio; colla prima delle quali si sovvenne la Centrale con un imprestito di L. 200mila, e di altre L. 300mila colle altre due. Si ricordi in fine la deliberazione del 17 dicembre ultimo, colla quale fu ammesso il mutuo di L. 500mila, ora in via di esecuzione. Nessuno conseguentemente vorrà accusarci di essere stati sordi alla chiamata, per sostenere una impresa di tanto interesse, quale è quella dell'esecuzione della nostra Centrale [...] Il nostro stabilimento è un istituto di credito: abbiamo superiormente avvisato al florido essere di questo credito. Possiamo aggiungere adesso che i depositi da un tempo in qua, continuamente cresciuti, fanno ragionatamente argomentare che la fiducia di cui gode il nostro Monte va, di giorno in giorno, crescendo; abbiamo altresì toccato quanto importi confermare questo precipuo elemento del benessere di questo grandioso stabilimento. Esposti gli ostacoli intrinsechi e regolamentari, che incontra l'affare in questione, non vogliamo passare del tutto sotto silenzio l'ordinario ritornello che si sente ripetere per condannare le cautele che circondano la concessione degli imprestiti. Si fa un carico del denaro stagnante, quasi che la quantità del danaro giustificasse il meno prudente suo collocamento. L'accusa per altro non è giusta. Infatti, mai l'impiego dei depositi è stato attivo come nell'anno che corre. Sono già fruttifere le somme depositate nel decorso febbraio; si sono date fin qui ad imprestito L. 1.487.000; mancano domande per buoni e cauti impieghi futuri. [...] Si tratta oggi di fare un imprestito nella ingentissima somma di un milione e mezzo; si tratta di prescindere dalle sicurezze dai regolamenti prescritte; si tratta di sostituirvi garanzie non praticate in altre circostanze e mancanti di quella espedita azione, che può esercitarsi dirimpetto ai privati: si tratta finalmente di un imprestito che si vuol sussidiare con una rispettabilissima mallevadoria; ma, dopo gli impegni del mallevadore, non estesa proporzionalmente alla somma che si domanda" 51

AMPaschi 675, n. 16 (1 ag. 1857).

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Il Monte, dopo questo rifiuto, concesse altri prestiti alla Società della Strada Ferrata Centrale, ma con garanzie evidentemente più solide di quelle offerte dal Comune; furono infatti mallevadori con i loro patrimoni il conte Giovanni Pieri Pecci, deputato dello stesso Monte dal 1855 al 1856 e presidente della Società e l'altro conte senese Augursto de Gori, assessore della Centrale 52

Cfr.Léon-George Pelissier, La ville de Sienne en 1845, in "Bullettino senese di storia patria", V (1898), pp. 71-80 e F. Pallini, Elogio funebre del conte Augursto de Gori Pannilini senatore del Regno, Siena 1877.

; e proprio il conte Pieri, all'inizio dei lavori per la costruzione della linea fra Rapolano e Torrita, il 30 aprile 1858 ringraziò la banca con queste parole: "Siena possiede nelle sue mura lo Stabilimento finanziario appellato Monte dei Paschi (lo dico per gli azionisti lontani), che ha provvisto sempre e provvede tuttora alle imprese più nobili, più utili, anco fuori della patria. La nostra Società è al godimento adesso di cotale, splendida, rara Istituzione, così che capitali ingenti ne furono tratti in prestito e a tale lieve interesse, che simile non troverebbesi in luoghi di attivo ed esteso commercio. A questo Monte dei Paschi fluisce il danaro a dismisura, tanto che vi rimane, e non a breve tempo, stazionario. Lo che se è un male, è anco effetto di illimitata fiducia. Il nome ne è ben cognito per la Toscana e per altrove; onde è che il suo traffico, ai tempi presenti, in specie è fatto estesissimo [...] è col denaro di questa banca che noi andiamo a costruire il tratto da Rapolano a Torrita, a progredire poscia anco di più. Non è adunque tanto vana la speranza che possiamo noi giungere alla Frontiera" 53

Collezione di documenti riguardanti la Società anonima della Strada Ferrata Centrale Toscana da Siena alla Leopolda in Empoli ad uso dei suoi azionisti, II, Siena, Porri, 1865, p.287.

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La stazione di Siena, inaugurata nel 1850, in una foto della seconda metà del XIX secolo.
Siena,Archivio Chigi Saracini.
In effetti, ottenuta la sospirata concessione per il proseguimento della Centrale fino a Bettolle con decreto granducale del 13 aprile 1854, Policarpo Bandini impostò, sulle 170.000 lire annue che lo Stato si era obbligato a pagare alla Società in luogo della garanzia del tre per cento vigente per l'esercizio da Siena a Empoli, una cessione di obbligazioni o carati di rendita per la somma di tre milioni e 250mila lire a qualsiasi offerente; l'operazione andò a buon fine soprattutto per l'aiuto del Monte dei Paschi, che, come controllore della Cassa di Risparmio, consentì di aumentare lo sconto dei buoni di cassa della Centrale fino alla somma di mezzo milione al frutto del 4 per cento "a scaletta", offrendo così un congruo margine di tempo al Bandini per definire il prestito.
Alla fine di agosto 1857 era giunto a Siena Pio VIPio IX, che proseguì poi il viaggio verso Loreto. Il Comune preparò grandi accoglienze, come ricorda una targa in marmo nel palazzo comunale, dove si legge di "innumerevole popolo devoto", che "applaudisce esultando il papa". Non tutti, però, furono così entusiasti: la Deputazione del Monte, per esempio, fu accusata di "marcata irriverenza" dal gonfaloniere del Comune per non aver voluto contribuire con una congrua somma alle spese d'una degna accoglienza dell'augusto ospite. A quell'accusa il provveditore della Banca rispose piccato che, per dare un esempio di filantropia e beneficenza, nell'occasione il Monte avrebbe stanziato una somma per distribuire trentaquattro doti a fanciulle povere, ammettendo a concorrere al beneficio anche "le fanciulle israelite senesi" 54

AMPaschi 675, n. 17.

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Scheda Tematica
Un'Università da sostenere

Duecento scudi e più

La presenza del Monte dei Paschi dietro i vari progetti di difesa o di ampliamento dell'Università cittadina è, nel corso di una storia secolare, costante. Ed è la storia di un ateneo sentito come elemento imprescindibile di una cultura di comunità, come bene da preservare in mezzo a molteplici difficoltà.
Il granduca Pietro Leopoldo, che di persone se ne intendeva e sapeva coglierne al volo virtù e vizi, scrisse di lui che era "uomo di talento, accorto e lesto", ma anche una "testa calda", e si doveva quindi "servirsene di molto per stangare, ascoltarlo, ma non seguitare, né fidarsene". Insomma un consigliere prezioso, ma da non prendere alla lettera. Facendo tesoro di questo prudente criterio, non avallò il parere dato da Francesco Maria Gianni, il quale, nella sua veste di soprintendente generale, nel quadro di una direttiva che esigeva dal Monte una più severa cura nell'esazione dei crediti, elencava tra le situazioni critiche l'assegno annuo di 200 scudi dal 1761 versato nelle casse dello Studio. Prima di prendere una spiacevole decisione il provveditore Cerretani si rivolse al governo - con memoriale del 7 settembre 1770 - e il granduca in persona protrasse a nove anni la scadenza. Tale apertura non sorprende più di tanto se si tiene conto che la risoluzione reca la firma di Pompeo Neri, docente di diritto pubblico e leader energico del riformismo leopoldino, particolarmente attento alle questioni di Siena e ai problemi della sua Università. Che riscosse sempre dal Monte un sostegno che andava al di là dell'aiuto per coprire le croniche debolezze di bilancio. Se alcune rendite venivano meno, il rimedio non poteva essere che la sospensione di insegnamenti, anche di quelli fondamentali: nel 1771 erano rimaste scoperte le cattedre di storia sacra, metafisica, filosofia morale, pandette, diritto pubblico e umane lettere. Non le meno pesanti. E il numero degli studenti era in aumento, con una buona presenza dei fuori-sede: nel 1769 tra i 182 iscritti alle quattro Facoltà - Scienze Sacre, Giurisprudenza, Medicina, Filosofia e Geometria - una quarantina provenivano dallo Stato fiorentino e dall'estero.
L'Università senese soffrì di drastiche e riduttive ristrutturazioni, e della concorrenza con Firenze e Pisa, ma raggiunse punte di eccellenza nei settori delle scienze naturali e della medicina: sarà sufficiente citare Paolo Mascagni, che unì la ricerca a un combattivo impegno politico nelle file dei democratici di ispirazione giacobina. Le insidie avverse ai finanziamenti del Monte derivavano spesso dagli improcrastinabili bisogni dell'Ospedale e il governo aveva di che destreggiarsi per accontentare gli uni e gli altri. Il governatore Vincenzo Martini, appena entrato in carica - gennaio 1790 - ribadisce la validità del rescritto del 1761: quella erogazione "era diretta a sovvenire costantemente lo Studio, né poteva liberarsi il Monte da tal prestazione, anche provato il caso della sua non opulenza". Anzi quel munifico atto avrebbe dovuto assumere un carattere - non sempre, a dire il vero, pacificamente accettato - di provvida e ricorrente continuità.
Dopo la soppressione napoleonica del 1809, l'Università, riaperta alla fine del 1814, visse quietamente fino al 1840, quando un'infelice riforma mirò a privarla dell'ultimo anno di medicina e chirurgia. L'anno successivo, venne fatta ancora oggetto dell'attenzione indiretta del granduca che se la cava stabilendo "che il Monte dei Paschi di Siena - siamo nel luglio 1841 -, onde far fronte alle maggiori spese a cui anderà incontro per le ordinate riforme, dovrà annualmente corrispondersi all'Università, a titolo di prestazione fissa, la somma di lire settemila, da prelevarsi dagli avanzi di quella amministrazione". L'allineamento negli ordinamenti allo Studio pisano era compensato dall'assicurazione di un flusso finanziario più sostanzioso e sicuro. La linea adottata da Leopoldo III in ambito universitario puntò a un controllo sempre più stringente e ha un sapore nettamente repressivo il provvedimento assunto dopo l'eroico exploit patriottico di Curtatone e Montanara, allorché, col pretesto di dare uniformità al sistema di insegnamento, i due Atenei vennero unificati lasciando a Siena, fino al 1859, solo le due Facoltà di Teologia e Giurisprudenza.
Giuseppe Buccinelli, Ritratto di Paolo Mascagni. Collezione privata.
Quando, dopo il faticoso raggiungimento dell'unità nazionale, si dovette metter mano a un riordino ben più complicato e sistematico, il Comune, su iniziativa del sindaco Luciano Banchi, non esitò a investire il Monte - insieme al Comune stesso, a Provincia, Ospedali riuniti, Società esecutori di pie disposizioni - di una tempestiva azione, tesa non solo a riottenere il completamento della Facoltà di Medicina - che restò mutila dell'ultimo anno fino al 1882 -, ma a costruire proficue relazioni tra ricerca e domande del territorio. è la prima volta che un tema destinato ad acquisire una fortuna via via maggiore veniva impostato. E Niccolò Nerucci, in rappresentanza della Deputazione della banca, sottoscrisse il pamphlet che ne uscì con meditato consenso. Il Monte da avveduto finanziatore diventava uno degli organi portatori di una volontà riformatrice non esposta ai capricci della contingenza. La formazione - nel 1875 - del Consorzio universitario senese, dotato di una sua solida autonomia, è il culmine di un processo di convergenza istituzionalizzata del sostegno all'Ateneo nel quale il Monte è membro attivo e determinante.
Siena, certosa di Pontignano, chiostro.
Nonostante ciò, tra il 1892 e il 1893, il ministro della Pubblica Istruzione Ferdinando Martini preparò un progetto di legge finalizzato all'abolizione degli Atenei più piccoli, e quello di Siena rientrava in questa categoria. Le Contrade scesero allora letteralmente in campo: organizzarono nel Campo un "pubblico comizio" in difesa dello Studio cittadino. All'iniziativa aderirono tutte le associazioni senesi: dalla curia arcivescovile alla loggia massonica Socino, dalle associazioni artigiane ai reduci del Risorgimento, dalla Pubblica Assistenza alla Misericordia. Il progetto di Martini non ebbe seguito. Pressoché tutti gli Atenei minacciati di chiusura trovarono qualche protettore che li difese. La manifestazione senese fu unica: testimonianza dell'attaccamento con cui cittadini di ogni fascia sociale ci tenevano a difendere la principale istituzione culturale della città.
Questi vincoli si consolidano e riaffiorano tutte le volte che l'Università corre qualche pericolo, in nome di disegni imperiosamente razionalizzanti o per interne carenze e dissidi. è la storia di un Ateneo sentito come elemento imprescindibile di una cultura di comunità. Le riprove abbondano.
Siena, basilica di San Francesco, chiostro.
Ai primordi della fascistizzazione dello Stato e della conseguente riorganizzazione del sistema, l'Università corse seri pericoli. Il Consorzio elaborò nel febbraio 1923 un memoriale, da sottoporre al ministro della pubblica istruzione che fu un capolavoro di sottile duttilità diplomatica e serrata argomentazione. "L'Università - vi si legge - è il centro della vita senese ed è il solo grande istituto che eleva la città nostra sul livello delle altre piccole città di provincia". Si faceva notare quanto assidua e determinante fosse stata la mole delle risorse messe a disposizione negli anni dagli enti locali. Convinta era la difesa dell'Ospedale e del suo positivo radicamento territoriale, nonché degli sviluppi logistici registrati: "Un cospicuo miglioramento si è avuto nell'ultimo trentennio nell'assetto edilizio [...] e ciò, sia detto senza iattanza, per merito esclusivo degli enti locali, segnatamente del Monte dei Paschi". Anche l'edificio degli Istituti biologici era stato costruito grazie all'intervento diretto della banca: "Dopo un tentativo infruttuoso fatto col Ministero, il Rettore ha chiesto al Monte dei Paschi le duecentomila lire necessarie all'opera. E il Monte non solo ha votato, con l'abituale munificenza, la spesa, ma, nell'intento di condurre a termine i lavori in pochi mesi, in modo che nel prossimo anno scolastico i nuovi locali possano essere occupati, si è assunto il compito di eseguirli a suo conto, libero com'è da ogni impaccio burocratico". Era un ulteriore salto nella presenza dell'istituto nei programmi dell'Ateneo, un modo di intendere, e praticare, l'autonomia nell'accezione più fattiva e fruttuosa.
Di rincalzo Piero Calamandrei, che dal 1920 al 1924 insegnò Procedura civile e ordinamento giudiziario nell'Ateneo, stese un ordine del giorno, votato dal corpo accademico il 23 febbraio, che sottolineava proprio come la proposta introduzione dell'autonomia non avrebbe provocato un indebolimento delle premure delle forze locali, "le quali intendono che, diminuita l'Università, la Città stessa resterebbe diminuita". Calamandrei non si limitava a difendere l'esistente. Prospettava accanto alla Facoltà di Medicina la creazione di una Facoltà di Scienze incentrata sullo studio delle risorse minerarie della regione, e la Facoltà Giuridica avrebbe potuto trasformarsi in Facoltà Giuridico-commerciale, "unica in questa nostra Toscana ove da tempo si reclama la fondazione di un Istituto Superiore di Commercio". è il primo nucleo di una riflessione che avrebbe condotto molto più tardi a ideare la Facoltà di Scienze economiche e bancarie. Inoltre, a militare in favore del mantenimento e consolidamento di una sede così prestigiosa stava Siena stessa, dal momento che "gli studi fecondi - scriveva Calamandrei con una vena di autobiografica testimonianza - si maturano nel raccoglimento delle tranquille Città appartate, dove è possibile quella giornaliera consuetudine tra professori e studenti, senza la quale l'insegnamento universitario si riduce a vuota accademia". D'altro canto la Deputazione amministratrice del Monte non stette a guardare e si associò ai gridi di lamento, inserendo in un suo aulico ordine del giorno la non sgradita promessa di continuità negli "aiuti ma sempre e con volenteroso animo elargiti da questo Monte".
Siena, inaugurazione della Facoltà di Scienze economiche e bancarie, 3 aprile 1967: da sinistra, il rettore Giovanni Domini, l'on.Aldo Moro, il prefetto Cosimo Lorè e il presidente del Monte dei Paschi di Siena Danilo Verzili.
Il conseguimento di una dimensione dell'Ateneo più consona alle sue ambizioni e di un'articolazione della sua offerta in piena sintonia con il patrimonio ambientale e le sue vocazioni e potenzialità si è avuta soltanto tra la metà degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta del Novecento, quando nacquero prima la Facoltà di Scienze economiche e bancarie e successivamente quella di Lettere e Filosofia. Colmavano due vuoti inconcepibili in un centro che nella geografia culturale italiana si distingueva per la sua produzione artistica e per l'eccellenza linguistica (avvalorata in seguito della nascita dell'Università di Lingua e cultura italiana per stranieri, l'altra Università). Quanto alla Facoltà di Economia, le cui basi furono gettate negli anni infuocati che precedettero l'esplosione del Sessantotto, sarebbe lungo ripercorrere le tappe di un travagliato dibattito. Il Monte apparve a molti come spettro di un padre padrone, magari voglioso di asservire i saperi a suoi funzionali e contingenti obiettivi di banca. I timori erano del tutto infondati.
Piero Sadun, I monaci seppelliscono la campana, 1941.
Siena, certosa di Pontignano.
Il Monte sostenne il fine, ma non s'intromise nel confronto dipanatosi animatissimo in totale autonomia. Del resto per istituire la Facoltà senese furono avanzate in convergente strategia tre proposte di legge, la prima a firma di Luigi Gui fin dall'ottobre 1963 (n. 560) e, a seguire, una con primo firmatario Tristano Codignola (n. 1726 del 14 ottobre 1964) e infine quella di Adriano Seronii (16 ottobre 1964, n. 1741). Le tre iniziative confluirono nel 1966 in un testo unificato. Ci fu una manovra che rischiò di buttare tutto all'aria, perché il via libera per Siena fu subordinato al riconoscimento del Sociologico di Trento. "è un pasticcio. Sto tentando di legare invece Trento alla riforma generale delle Scienze politiche" scrisse Codignola a Mario Delle Piane, docente senese di appartenenza socialista. Di fatto, però, le due questioni furono legate da un do ut des che, tutto, sommato, portò a buoni risultati.
Siena, certosa di Pontignano, loggiato.
Sorse così una Facoltà innovativa nella struttura e del tutto autonoma da qualsiasi tentativo di subordinazione. Fin dal 1955 Mario Bracci, rettore e docente a Siena, giudice delle Corte costituzionale, si era battuto per dar sviluppo a una Scuola di specializzazione in Discipline bancarie considerata quale primo passo verso esiti ben più rilevanti. Nelle motivazioni enunciate da un voto della Facoltà non si mancava di far notare che il progetto aveva terreno fertile proprio perché Siena era "sede di un istituto bancario di importanza nazionale come è il Monte dei Paschi". L'istituto, tramite il presidente Danilo Verzili, si adoperò per favorire il progetto, ma evitando scrupolosamente di entrare nel merito della sua fisionomia. Ne fa fede il dibattito che si svolse in Deputazione nell'aprile 1962, allorché si mise a fuoco il testo della convenzione con la quale ci si impegnava a finanziare quattro posti di professore di ruolo, due di assistente, dieci incarichi. La via fu più lunga del previsto. L'azione martellante di lobbying vide in prima fila insieme a Delle Piane, Alessandro Raselli e Luca Buttaro. Luigi Berlinguer, allora deputato comunista, seguì l'affare dai banchi della Camera, mettendo in guardia contro un eccesso di professionalizzazione e attaccò un piano di insegnamenti "che avrebbero formato un fedele ragioniere, piuttosto che un economista". L'approvazione della legge n. 543 del 13 giugno 1966 fu salutata con unanime compiacimento.
Siena, Università degli Studi, Facoltà di Giurisprudenza, sala delle colonne.
All'apertura della nuova Facoltà - che sarebbe diventata nel 1994 Facoltà di Economia - si univa in sintomatica coincidenza la recente inaugurazione (1961) del Collegio Mario Bracci, con sede nella certosa di Pontignano, già residenza di Bracci e luogo simbolico di umanistici conversari e appassionati incontri dell'intellighenzia antifascista. Se ne voleva fare una sorta di Normale per studenti di Economia e di Giurisprudenza. Con gli anni le ambizioni sono state assai ridimensionate e la stessa idea portante è svanita. Non dimenticato è l'entusiasmo di stato nascente di una comunità orgogliosa ed eccitata da un gioioso senso d'appartenenza: "Si era creata - rammentano testimoni con la nostalgia che si riserva alle esperienze giovani - una coincidenza di personalità e generazioni: era una sorta di rinascimento. Adesso dicono Bocconi, allora dicevano Siena".
Siena, Università degli Studi, biblioteca e sala di studio della Facoltà di Economia nella cripta della basilica di San Francesco.
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