CAPITOLO PRIMO

Niccolò di Giovanni Ventura, Salimbene Salimbeni porta a san Cristoforo un carro pieno di monete, particolare. BCS, ms.A.IV.5, c. 3r.

LA PIETÀ DEL COMUNE
(1472-1623)

1. Il peccato dell'"abominevole usura"

Con 196 voti a favore e solo 14 contrari, il Consiglio della Campana di Siena approvò, il 4 marzo 1472, l'istituzione di un Monte di Pietà."Considerato quanto onore et laude - esordisce la delibera - si attribuisca a ogni republica ad provedere che le povere o miserabili o bisognose persone ne' loro bisogni et necessità siano adiutate et subvenute, et quanto questo sia accepto a Dio, desiderando sopra questo fare qualche utile provisione, providero et ordinaro che per lo advenire ne la città di Siena sia di continuo il Monte de la pietà" 1

ASS, Consiglio generale 234, c. 93.

.
La parola Monte, pur assumendo vari significati, aveva sempre nel medioevo un'implicita idea di unione e di accumulazione. A Siena le consorterie ereditarie che costituivano la fonte per l'esercizio del potere erano chiamate Monti: dei Gentiluomini, dei Nove, dei Riformatori e del Popolo. Monti erano anche le raccolte di denaro per l'esecuzione di un traffico, oppure gli organismi che erogavano denaro offerto o depositato, come i Monti frumentari, i Monti delle Doti o i Monti di Pietà.
Già alla fine del XII secolo una casa di prestito su pegno era nata in Baviera e centocinquant'anni più tardi altre sorsero nella Franca Contea e a Londra, tutte col fine di combattere l'usura, offrendo prestiti a un saggio moderato. Non ostante ciò, ovunque - e anche a Siena - i prestiti di denaro erano spesso causa di estorsioni e abusi. Non solo: per i cristiani l'usura era condannata in base alla massima "mutuum date nihil inde sperantes" del Vangelo di Luca (6,35) e l'unica maniera di sfuggire alle sanzioni religiose e alle preoccupazioni d'ordine morale per l'usuraio era quella di offrire in elemosina alla Chiesa e ai poveri le cosiddette "male tolte", cioè il denaro guadagnato speculando sugli interessi dei prestiti. Di queste offerte sono pieni i testamenti di nobili e mercanti medievali, a riprova del fatto che il prestito più remunerativo con l'investimento capitalistico dei depositi era esercitato soprattutto da loro, rappresentanti di quell'abile e spregiudicata aristocrazia del denaro, capace di sostituire a poco a poco, nelle città dell'Italia centro-settentrionale, l'antica aristocrazia del sangue.
Mezzo scudo d'oro senese, 1548-55.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Anche Dante, nella Commedia, conferma questo fatto: i grandi usurai per lui sono i Gianfigliazzi, gli Scrovegni, i Del Dente: tutti nobili e tutti cristiani. Non c'è mai condanna per un ebreo; anzi, l'ebreo giusto può sperare in un premio nell'aldilà. A riprova di questa posizione del sommo poeta favorevole agli ebrei c'è l'inserimento di molti passi della Commedia nel Talmud, "cosa - ha osservato PetrarcaGiorgio Petrocchi2

Giorgio Petrocchi, Gli ebrei, Dante e Boccaccio, in Aspetti e problemi della presenza ebraica nell'Italia centro-settentrionale (secoli XIV e XV), Roma, Quaderni dell'Istituto di scienze storiche dell'Universitá di Roma, 1983, p. 354.

- che non si era mai verificata per alcun testo cristiano". La stessa osservazione si può fare per Boccaccio, nelle cui novelle i "giudei" sono sempre figure positive, come Abraam o Melchisedec. Perché allora - si è chiesto Petrocchi - da questa benevola comprensione nei confronti degli ebrei si passa, nella metà del Trecento, a una rappresentazione sempre negativa (per esempio nel Pecorone o nelle Novelle del Sercambi), base di una tradizione che porterà poi all'Ebreo di Malta di Marlowe e al Mercante di Venezia di Shakespeare? La risposta gioca tutta sulle conseguenze della grande peste nera del 1348: anche gli ebrei subirono grandi perdite umane nelle loro comunità e divennero sempre più facili vittime di persecuzioni; per sopravvivere molti di loro furono costretti a praticare con maggiore rapacità di prima la piccola usura, cosa che accentuò l'atteggiamento antisemitico negli strati più bassi della popolazione. Poi, tassi d'interesse sempre più alti, accumulo del denaro liquido e rapide fortune provocarono violente reazioni di rigetto verso gli ebrei da parte della comunità cristiana che li circondava, fino a giungere alla condanna pronunciata da fra Bernardino Albizzeschi nel 1425 sul Campo di Siena: "A tenere il giudeo a casa vostra, due cose ne seguita: primo, elli è guastamento de la vostra città; e secondo c'è la scomunicazione del papa, che non ti puoi salvare con essa" 3

San Bernardino da Sienaa, Le prediche volgari, III, Firenze, Rinaldi, 1958, p. 149.

.
Uno degli obiettivi contro i quali fra Bernardino lottava con maggiore determinazione era "il maledetto peccato de l'abominevole usura" e il suo pensiero influenzò certo gli uomini di governo del suo tempo. Anche a Siena, pochi giorni dopo una sua predica "ad usuram voraginem extirpandam", il Consiglio generale ribadì un'aspra condanna degli usurai, che però avevano già subìto tante limitazioni e minacce fin dalla metà del Trecento, in una singolare alternanza di proibizioni e di concessioni, secondo l'andamento più o meno favorevole delle finanze comunali. I prestatori, e soprattutto i prestatori ebrei, furono a Siena "elemento funzionale al mantenimento o all'affermazione di nuovi assetti socio-economici e politici" 4

Sofia Boesch Gajano, Presentazione, in Aspetti e problemi cit., p. 11.

e spesso fu loro riconosciuta, da parte delle autorità cittadine, una funzione pubblica, sia per il sostegno dato in particolari frangenti finanze comunali, sia per l'aiuto ai ceti meno abbienti, ai quali il Comune cercò poi di venire incontro organizzando autonomamente il Monte Pio.
Nell'arco dei secoli XIV e XV - secondo Sofia Boesch Gajano 5

Eadem, Il Comune di Siena e il prestito ebraico nei secoli XIV e XV, in Aspetti e problemi cit., pp. 177-225.

- si possono individuare almeno tre fasi, in cui il ruolo del prestito fu variamente considerato. Fino alla metà del Trecento le troppo scarse testimonianze sulla presenza degli ebrei in Siena non consentono di formulare giudizi articolati sulla loro attività, ma dal 1355, che è l'anno della caduta del governo mercantesco dei Nove, si apre una prima fase con il riconoscimento pubblico di un'attività di prestito ebraico. La politica finanziaria attuata dal nuovo governo dei Dodici, che inasprirono le gabelle e intensificarono i prestiti volontari e forzosi, favorì evidentemente la concessione all'ebreo Vitale di Daniele, che ne aveva fatto richiesta nel dicembre 1355, di prestare denaro in Siena, in deroga ad alcune precedenti deliberazioni comunali. La conferma di questo favorevole atteggiamento del Comune si ha tre anni più tardi, con un'altra autorizzazione al prestito fatta a Consiglio di Dattaro, ribadita nel 1375 e nel 1387.
Questi ultimi decenni del XIV secolo furono assai critici per l'economia della repubblica senese, che dovette affrontare lunghe lotte con Perugia e con Firenze e che venne continuamente sottoposta a duri salassi dalle Compagnie di ventura che infestavano il suo territorio. Ma negli ultimi anni del Trecento si accentuano anche i toni di condanna verso l'usura ebraica, che, secondo una delibera del Consiglio generale del 21 dicembre 1393, ha "consumato la città"; si prendono, perciò, alcuni provvedimenti, come quello di allontanare gli ebrei dalle strade del centro e si cerca di stabilire il tasso d'interesse intorno al 30% annuo. Consiglio di Dattaro, tuttavia, essendo uno dei prestatori su cui può contare lo stesso Comune, mantenne la sua ricca abitazione vicino alla chiesa di San Pellegrino, a due passi dal Campo.
L'antica porta della Rocca Salimbeni.
Sotto la signoria di Giangaleazzo Visconti, accettata dai senesi con la speranza che il duca milanese riuscisse a sottomettere l'odiata Firenze, un altro grande prestatore ebreo, Gaio di Angelo, rinnova i patti col Comune, al quale egli versa bimestralmente una somma e rende anche altri servizi come canale privilegiato del regime visconteo. La morte di Giangaleazzo il 3 settembre 1402 e la riconquista della libertà da parte dei senesi sembrano, però, arrestare questo processo di istituzionalizzazione dei rapporti fra prestatori e Comune, mentre sempre più forti si levano le voci di condanna contro "el presto el quale se tiene per li giuderi". Esso - si dice in Consiglio generale nella seduta del 7 giugno 1420 - "disfaci la città e el contado di Siena [...] e a poveri huomini sono mangiate l'ossa con la grande usura et sono male tractati. E però sia da provedere utilmente a la ditta materia et aiuto buono e sano consiglio che e patti e contracti facti coi giuderi non vagliano e non tengano di ragione, però che sono facti contra buoni costumi e contra la legge di Dio [...] È conosciuto che sia pure necessario che per lo Comune di Siena si proveggha che povari huomini possano avere qualche ricorso et rifugio ne' loro bisogni, ma questo non si debbi fare con animo d'utilità, la quale d'usura possa adivenire, ma per conservare le povare persone [...] E facendo a questo modo e povari huomini avranno il loro bisogno e non saranno disfatti come sono al presente per le mani de' giuderi. E denari e le buone robbe rimarranno nella città e non anderanno di fuore e continuamente per questo si manterrà divitia e abundantia nella città e contado di Siena e sarà accepto a messer Domene Deo a fare così che ingrassare e dicti giuderi del sangue de le povere persone, le quali lo' vengono a le mani. E di questo s'è avuto sano e buono consiglio da valenti maestri in teologia" 6

ASS,Consiglio generale 209, cc. 44v-45v.

.
Siamo già nella seconda fase dei rapporti fra Comune e prestatori ebrei, nella quale si assiste a un "tentativo di organizzazione del prestito su pegno da parte del Comune stesso" 7

Sofia Boesch Gajano, Il Comune cit., p.196.

: tre onesti cittadini dovevano essere eletti per un anno col permesso di prestare a un interesse del 19% annuo e tutta l'attività doveva essere controllata dai Regolatori, magistrati paragonabili a quelli della nostra Corte dei conti. Non sappiamo se questa specie di Monte Pio ante litteram fu realizzato oppure no; è certo, tuttavia, che dopo una quindicina d'anni le impellenti necessità finanziarie costrinsero il Comune a rivolgersi nuovamente a un ebreo, Isaac di Consiglio, per avere un prestito di 500 fiorini, a garanzia del quale fu offerta la gabella del mosto.
Da questo periodo (1437-1440) si può, dunque, far cominciare una terza e ultima fase, nella quale progressivamente si riafferma il ruolo dei prestatori ebrei nell'economia senese, ruolo che non sarà più messo in crisi neppure dopo l'istituzione del Monte Pio.
Nuovi accordi stipulati con gli ebrei nel 1441 e 1447 costrinsero i governanti senesi a chiedere speciali assoluzioni al papa, giustificando il loro agire con le enormi spese belliche sostenute "per multos annos". Nel testo degli accordi si leggono, tuttavia, anche altre cause, come le gravi conseguenze che improvvise cessazioni del prestito pubblico avevano prodotto sugli scolari dello Studio e sui poveri, i quali avevano già fatto sentire "varias murmurationes" 8

ASS, Balìa 4, c. 29, delib. del 25 maggio 1457 (vedi S. Boesch Gajano, Il Comune cit., p. 209, nt. 89).

.
Gli accordi stipulati nel 1457 permettono a Jacob di Consiglio e ai suoi soci di aprire a Siena uno o più banchi di prestito, con un capitale di 15.000 fiorini, somma assai rilevante, se si mette a confronto con quella stabilita come capitale iniziale del Monte Pio nel 1472. I prestatori erano tenuti "ad accettare in pegno qualsiasi oggetto mobile, ad eccezione di legname, aratri, armature", che potevano rifiutare, mentre era loro proibito "prendere in pegno oggetti sacri o appartenenti al Comune e provvisti dello stemma". Avevano inoltre libertà "di praticare forme di prestito diverse da quelle su pegno [...] e ad accettare in garanzia proprietà immobiliari, purché non costituenti bene dotale". Il tasso d'interesse non doveva essere superiore ai quattro denari per lira al mese (20% annuo) e "quanto alle modalità di vendita, il pegno non ritirato entro quindici mesi poteva essere venduto all'asta con pubblico bando fatto dai Regolatori su richiesta dei prestatori, all'inizio del loro mandato (a gennaio o a luglio) e ripetuto per tre giorni consecutivi dinanzi alla sede dell'ufficio di Biccherna. Le aste si tenevano in piazza del Campo [...] Gli oggetti di provenienza illecita dovevano essere restituiti, se reclamati, al legittimo proprietario o a chi avesse su di essi ypoteca tacita o espressa, dietro autorizzazione dei Regolatori e dopo rimborso della somma prestata e degli interessi maturati. Veniva inoltre garantita la segretezza del pegno: nessun ufficiale del Comune era autorizzato a richiedere il nome dell'impegnante, ma poteva solo prendere visione dei libri contabili, a cui doveva essere data piena e indubitata fede" 9

Ivi, pp. 210-212.

.
Naturalmente Jacob di Consiglio e i suoi soci, che avevano quasi il monopolio del prestito, erano a Siena dei privilegiati: non portavano il segno distintivo, erano esenti da imposte e tasse, potevano vendere generi alimentari ai loro correligionari "che stessero o albergassero nella casa del presto" e non potevano essere sottoposti a giudizio senza l'autorizzazione del Concistoro.
Non sempre, però, tali patti vennero rispettati; a volte, infatti, il latente spirito antisemita prese il sopravvento sulla regolare applicazione della normativa giuridica elaborata nei confronti degli ebrei prestatori. A Lucignano Val di Chiana, per esempio, l'ebreo Angelo, che aveva ottenuto licenza di prestare e i relativi privilegi, fu imprigionato e poi ucciso a furor di popolo nel maggio 1466 per aver organizzato una parodia della passione di Cristo con una donna cristiana messa in croce e fustigata. Per questo "abominevole et execrabile excesso" 10

Cfr. Narciso Mengozzi, Il pontefice Paolo II e i Senesi, Siena, Stabilimento Arti Grafiche Lazzeri, 1918, pp. 234-238.

, il podestà di Lucignano, dopo averlo messo in carcere, propose di torturare l'ebreo con la fune, cioè di tirare in alto il condannato con le mani legate a tergo, in modo che le braccia si slogassero. Mentre il podestà aspettava la risposta sul da farsi dal Concistoro, il vicario dell'arcivescovo di Siena, Domenico di Montepeloso, chiese di processare lui stesso l'ebreo, considerata la natura del reato. Nel frattempo, però, un gruppo di lucignanesi, forse col tacito consenso del podestà, prelevarono Angelo dal carcere e lo uccisero. Il vicario iniziò allora un procedimento contro lo stesso podestà, che fu scomunicato, mentre tredici cittadini di Lucignano, ritenuti colpevoli dell'assassinio dell'ebreo, furono multati ed esiliati.
A Perugia intanto già funzionava un Monte di Pietà dal 1462, sollecitato dalla predicazione dei francescani, e anche a Siena era da tempo iniziata una discussione sul problema del compenso per il mutuo in seno al Consiglio del popolo; lo testimonia Giovan Battista Caccialupi in una sua Repetitio, stampata nel 1488 11

Cfr. Mario Ascheri, Giovan Battista Caccialupi (1420 ca. - 1496) fautore dei Monti di pietà, in Grundlagen des Rechts- Festschrift für Peter Landau zum 65. Geburtstag, a cura di Richard H. Helmholtz, Paul Mikat, Jörg Müller, Michael Stolleis, Schoningh, Paderborn 2009, pp. 643-653.

, dove il grande giurista, docente nello Studio senese, riferisce di una predicazione quaresimale del frate perugino Fortunato Coppoli a Siena nel 1472 e di una "magna controversia inter doctores tam theologos quam iuristas" sul peccato commesso da qualsiasi governo, individuale o collegiale, se avesse consentito l'usura. Avviando la discussione dalle parole del Coppoli - definito non solo "doctissimus in iure", ma addirittura "buccinator", ovvero divulgatore, "Jesu Christi" - Caccialupi osserva che, se per assicurare il soddisfacimento di un interesse pubblico l'esercizio del mutuo era consentito agli ebrei, eliminando la "spes lucri", prestando cioè denaro senza interesse del mutuante, era possibile, osservando precise regole procedurali, accettare senz'altro l'istituzione dei Monti di Pietà.
Giovan Battista Caccialupi difende quindi i Monti, rafforzando "anche con argomentazioni proprie la posizione francescana e di tanti colleghi giuristi" 12

Ivi,p.653.

.

2. Le risorse del Monte Pio

Goro Lolli, Sante di Bartolomeo, Giovan Battista di Marco, Francesco Andrea Marretta, Francesco Luti e Leonardo Benvoglienti furono i cinque cittadini incaricati dal Concistoro di stilare le "provvisioni" del Monte di Pietà, che cominciò a funzionare nel mese di maggio del 1472, guidato da tre Conservatori e un Depositario. Costoro dovevano essere scelti dal Concistoro in una lista composta da rappresentanti dei tre Monti allora al governo e cioè le consorterie dei Noveschi, dei Riformatori e del Popolo; dovevano stare in carica per un anno, dispensati dall'assumere altre cariche pubbliche in città o fuori di essa ed esonerati dallo stesso ufficio per i successivi cinque anni.
Obbligati a presentare "buone et sufficienti ricolte", ovvero sicure garanzie, dovevano giurare di esercitare l'incarico ricevuto "con fedeltà, diligentia et amore, et conservare decto Monte e sue ragioni come si richiede a buone, fedeli et diligenti persone" 13

ASS, Consiglio generale 234, c. 93.

. Non osservando tale condotta o rifiutando l'incarico ricevuto, i Conservatori e il Depositario sarebbero incorsi in gravi pene pecuniarie, mentre avrebbero ottenuto un compenso di 50 fiorini dopo il controllo da parte di tre Riveditori, effettuato sulla loro gestione. Questa consisteva per i Conservatori nel ricevere, valutare, custodire e restituire i pegni e per il Depositario fungere da cassiere.
Non potevano essere prestati più di otto fiorini all'anno e chi voleva "accattare dal decto Monte" doveva giurare che non lo faceva "per giocare o per fare mercantia, cioè comprare o rivendare, o altra superflua o dannosa spesa". Non rispettare tale giuramento comportava la perdita del pegno.
Il prestito poteva esser fatto solo a cittadini senesi o a "doctori o studenti o soldati del Comune di Siena" e doveva essere inferiore di almeno un terzo del valore del pegno; nel caso di scapito alla vendita del pegno, i Conservatori dovevano rifondere il danno al Monte. Dopo un anno e quindici giorni i pegni non riscattati, come fino ad allora si era fatto con i "pegni del giudeio", dovevano essere venduti all'asta sulla pubblica piazza e con la "buona diligentia" dei Conservatori, "acciò che el denajo ritornasse al servitio de' poveri huomini".
La via del Monte sacratissimo della pietà, in Marco del Monte, Libro della divina lege et comandamenti de esso omnipotente Dio da legerse per le schole, boteche, parrochie et per qualunche altro loco a li piccoli e grandi, Siena, per Rigo de Hearlem, 1494. BCS, Miscellanea del XV sec., 34 IV M, c. 2v.
L'avanzo dei pegni venduti all'asta doveva esser dato, al netto delle spese, al proprietario o ai suoi eredi; "non trovandosi tale padrone - stabilivano le Provisioni - si debbi dare allo Spedale di Sancta Maria per l'anima sua". I pegni non erano sequestrabili, a meno che non fossero oggetti rubati; questi potevano essere recuperati dal legittimo proprietario, previo rimborso della somma prestata e degli interessi decorsi. Non poteva essere ricevuto "alcuno pegno di cose sacre o deputato al divino culto" senza il consenso del vicario dell'arcivescovo di Siena. Infine, nella casa del Monte era proibito suonare, cantare e giuocare "di dì o vero di nocte"; vi si poteva abitare solo "honestamente" e doveva esservi garantita ogni giorno, salvo per le feste comandate, la presenza di almeno uno dei Conservatori; doveva sempre risiedervi, invece, di giorno e di notte, uno dei due o tre garzoni incaricati di "prestare, assettare et guardare li pegni et altre cose di decto Monte" e che ricevevano un salario annuo di 25 fiorini.
A questi salari e alle altre spese di gestione si suppliva col frutto mensile di sei denari per fiorino, cioè con un tasso d'interesse del sette e mezzo per cento annuo, considerato "legale" e valutato anche come "forma di risarcimento del rischio corso dal prestatore di perdere il bene prestato o dall'impossibilità per lui di usufruire dei possibili frutti del denaro dato in prestito" 14

Luciano Palermo, La banca e il credito nel Medioevo, Milano, Bruno Monda

.
Tuttavia, due giorni dopo l'approvazione della delibera con le Provisioni sul Monte di Pietà, il Consiglio generale tornò sull'argomento "per provedere al capitale d'esso Monte" 15

ASS, Consiglio generale 234, c. 97v.

in modo da assicurarne la solida stabilità. Fu deciso perciò di assegnare al Monte di Pietà risorse provenienti da varie fonti. Prima di tutto si stornarono 2000 fiorini dai 9000 che la repubblica di Siena aveva destinato alla costruzione di un grande lago artificiale in Maremma e che dovevano essere ricavati in un triennio dalla riscossione della gabella del vino e dei "terratici", cioè dagli affitti di terre demaniali. Quel lago doveva nascere imbrigliando le acque del fiume Bruna, tra Montemassi e Massa Marittima, con una grande diga. Lo scopo era quello di poter avere abbondanza di pesce, ma l'obbiettivo - a causa delle violente piene del fiume, che a partire dal 1492 distrussero in parte la diga - non fu raggiunto.
Altri 2000 fiorini per il Monte Pio furono trovati tramite la riscossione di crediti arretrati da parte dell'amministrazione del Monte del Sale 16

I debitori del Monte del sale avrebbero dovuto pagare entro due mesi, sotto pena dell'aumento del quarto dell'importo e dell'iscrizione nello "specchio" del Comune, ovvero nel registro dei debitori morosi verso lo Stato. Da quel tipo di penale deriva la locuzione "cascare nel quarto" a indicare una simulata urgenza (vedi Narciso Mengozzi, Il Monte dei Paschi di Siena e le aziende in esso riunite, I, Siena, Tip. Sordo-Muti di L. Lazzeri, 1891, p. 186, nt. 1).

, l'ufficio che garantiva le rendite della Dogana del Sale, un genere sottoposto a monopolio statale con obbligo di acquisto annuale di un quarto di staio per ogni abitante.
Anche dalla gabella della carne e del pesce si trassero un migliaio di fiorini e si impose un prestito, restituibile dopo quattro anni, all'Opera della cattedrale e alla Casa della Sapienza per trecento fiorini ciascuna. Il testo della delibera giustifica poi un'altrta imposizione all'Ospedale Santa Maria della Scala per duemila fiorini a fondo perduto, affermando che, essendo questo ordinato "per provedere et sovenire a le povare persone, et essendo per la Dio gratia habundante di roba, et considerato quanto sia utile al provedere a le povare persone o bisognose per la via di decto Monte de la pietà", appare "condecente ch'el decto Spedale debbi concorrare et conferire ad tale subventione di poveri o bisognosi" 17

ASS, Consiglio generale 234, c. 98v. Cfr. Statuti del "Monte" del 1472, present. di Armando Sapori, Siena, Monte dei Paschi, 1972, con la trascrizione della copia notarile delle norme statutarie.

.
Ordinationi e statuti del Monte della pietà,4 marzo 1472. ASS, Consiglio generale 234, c. 93.
Il rettore e i savi dell'Ospedale risposero però di avere molti impegni di spesa e di essere "in un grandissimo affanno", tanto che lo stesso rettore aveva prestato di tasca sua circa 5000 lire "per li bisogni d'essa casa" 18

ASS, Concistoro 2158 (24 sett. 1472).

; chiedevano perciò al governo di imporre a tutti i debitori dell'Ospedale, "che erano in buona somma", di saldare il debito entro un mese, pena l'iscrizione nello Specchio del Comune, una sorta di "libro nero" che indicava i nomi dei morosi, cui erano sospesi alcuni diritti civici.
ASS, Monte di pietà 1, c. 1r.
La domanda fu accolta, confermando così la tradizionale sintonia fra Comune e Ospedale "nell'uso pubblico del denaro privato e nella gestione del denaro pubblico" 19

Gabriella Piccinni, L'Ospedale e il mondo del denaro: le copertine dipinte come specchio dell'impresa, in Arte e assistenza a Siena. Le copertine dipinte dell'Ospedale di S. Maria della Scala, a cura di G. Piccinni e Carla Zarrilli, Pisa, Pacini, 2003, p. 23.Vedi anche Eadem, Il Banco dell'Ospedale di Santa Maria della Scala e il mercato del denaro nella Siena del Trecento, Pisa, Pacini, 2012.

, messa in luce da Gabriella Piccinni attraverso l'accurato esame di molti documenti dell'archivio del Santa Maria della Scala. La vera e propria attività bancaria svolta dall'Ospedale, sia con l'accettazione di depositi in denaro dei pellegrini di passaggio, sia con prestiti di denaro, in varie forme, "tanto a singoli cittadini quanto - in maniera più consistente soprattutto dopo il consolidamento del debito pubblico - allo Stato", si era sviluppata fin dalla metà del XIV secolo.
Le professionalità del denaro - scrive ancora Piccinni - "che si erano sviluppate nel privato e poi ritirate dal mercato internazionale, si riciclarono anche nel pubblico in un processo che ha una prima tappa nell'attività bancaria di Santa Maria della Scala, che alla metà del Trecento accolse in deposito anche parte dei capitali ritirati dall'esercizio privato; e una seconda, anch'essa importante e riconosciuta, nel 1472, con la nascita del primo Monte dei pegni laico e pubblico, con il quale si provò per qualche decennio a disciplinare il mondo del prestito su pegno, cioè le piccole usure sui prestiti al consumo".
Raggiunto un fondo di 8000 fiorini, anche con il concorso dell'Ospedale, il Monte Pio iniziò a funzionare il 1° maggio 1472, non prima che un'ultima preghiera fosse rivolta al papa affinché desse "licentia di potere gravare et costregnare tucti e' preti et altri religiosi de la iurisditione benefitiati, e' quali debbino conferire ad tanto bene et opera pia di decto Monte de la piatà, per quelle somme et modo parrà a la reverendissima signoria del cardinale et arcivescovo di Siena, e quali si debbino pagare al depositario di decto Monte, et mettare a capitale di quello sì come è ordinato si facci delli altri denari" 20

ASS, Consiglio generale 234, c. 97v.

.
Tutti insieme, tali denari dovevano esser custoditi "in uno cassone bene ferrato e forte", chiuso con tre serrature, le cui chiavi - una per ciascuno - erano in mano del Depositario, di uno dei Conservatori e del Camarlengo del Concistoro 21

Ivi, 239 (20 marzo 1472).

. A sua volta il cassone era conservato nella Rocca dei Salimbeni. Il Consiglio generale aveva infatti stabilito che i Conservatori del Monte di Pietà avessero "in prestanzia [...] o tucta o parte" la dimora senese di quel casato, che per oltre un secolo era stato una spina nel fianco del libero Comune e che solo nel febbraio del 1418 era stato definitivamente sconfitto 22

Alessandra Carniani, I Salimbeni quasi una Signoria. Tentativi di affermazione politica nella Siena del '300, prefazione di G. Piccinni, Siena, Protagon Ed.Toscani, 1995.

.
Scheda Tematica
Il Libro di Marco del Monte

Le vie della salvezza

L'empireo, Cristo e la Vergine; e poi i nove cori angelici, patriarchi, profeti, apostoli, santi e sante; e infine il popolo. Fitta di personaggi é la xilografia che, a sintetizzare il senso di un Monte di Pietá, orna due incunaboli di fine Quattrocento del minore osservante Marco del Monte: un percorso di salvezza che passa attraverso la caritá e la solidarietá.
Se c'è una rappresentazione allegorica che possa con immediatezza sintetizzare il senso di un Mons Pietatis è indubbiamente l'elaborata xilografia detta La figura della vita eterna, che ornava due incunaboli composti da Marco del Monte Santa Maria in Gallo e apparsi in prima edizione uno, La tabula della salute, a Venezia nel 1486, quindi, con notevoli ampliamenti, nel 1494 a Firenze, dove nello stesso anno uscì il Libro delli comandamenti di Dio del Testamento vecchio et nuovo e sacri canoni. Quest'ultimo fu ristampato anche a Siena, poco più tardi, quando, agli inizi del 1495, il famoso Minore osservante - nativo di Fonditore, nei pressi di Ascoli Piceno - vi svolse, settantenne, un corso di predicazione quaresimale che ottenne grande ascolto e spinse a predisporre un'ampia diffusione dell'opera. Anzi il colophon, che reca la data 24 marzo 1494 (in stile senese, dunque, 1495), dà modo di precisare con esattezza il periodo della presenza del frate, dal momento che vi si legge: "... per il predicto frate Marco in essa città di Sena novamente predicante et dati". Il fatto che si scriva "novamente" significa che il frate aveva soggiornato in Siena per tenervi un ciclo di prediche sul Decalogo. Ed evidenzia che l'incunabolo aveva già visto la luce. Era la prima fatica editoriale dedicata a un'opera in volgare dall'olandese Enrico da Haarlem, attivo a Ferrara e a Bologna, voglioso di cimentarsi nelle nuove modalità di comunicazione, perlopiù associato ad altri tipografi. A Siena si era trasferito verso la fine del 1488 e dopo una breve parentesi in lucchesia vi aveva fatto ritorno per lavorare a un titolo di grande rilievo, la Repetitio paragraphi quod si super positi di Mariano Sozzini, per poi impegnarsi in un certo numero di opere di natura giuridica.
La via del Monte sacratissimo della pietà , cit.
Con il Libro l'intraprendente stampatore, insieme al socio Giovanni Walbeck, inaugurava una nuova fase della sua attività. Riteneva che fosse l'ora di sfornare testi per un ampio pubblico allo scopo di promuovere la parola parlata nella lingua quotidiana. Proprio per il successo che arrideva alle sue performances omiletiche, era utile che esse fossero seguite da qualcosa che restasse in mano ai fedeli accorsi in gran numero e successivamente, attraverso parrocchie, scuole e botteghe, pervenisse alla gente che non aveva potuto apprezzare con calma numeri di oratoria giocati con spettacolare astuzia. Quanto era sfuggito porgendo l'orecchio a discorsi ricchi di rimandi e citazioni, faceva oggetto di una catechesi non effimera. Così si stabiliva un'alleanza non incidentale tra la nuova eccitante invenzione della stampa e le finalità pedagogiche del movimento dell'Osservanza, che aveva scelto di ricorrere ai nuovi strumenti, ponendosi all'avanguardia nell'uso delle miracolose tecniche dell'esordiente comunicazione di massa.
Circa i motivi della presenza del frate marchigiano a Siena siamo tuttora allo stadio delle congetture. Marco era stato chiamato anche per fornire appoggio al Monte costituito da una ventina d'anni e in una condizione non solida? Quali erano stati i rapporti tra gli stampatori senesi e la giovane istituzione? Perché lui si era assunto l'incarico di rilanciare il fortunato trattatello? E perché una riedizione a così breve distanza di tempo da quella fiorentina? Si sa che parenti stretti di Marco si rivolsero al pietoso Monte per disporre di prestiti di minima entità, ma è indizio labile per ricavarne ipotesi incisive. Semmai la cosa conferma che a Siena l'attività feneratizia aveva eccezionale risonanza, e ospitava alla luce del sole scambi intensi con operatori ebrei di lontana provenienza. Quando con la discesa di Carlo VIII - coincidente con l'uscita dai torchi del Libro - fu in tutta la Toscana proibito ai banchieri ebrei di proseguire nella concessione di prestiti, Siena fu esclusa dal provvedimento.
La via del Monte sacratissimo della pietà, cit., particolare.
Marco del Monte di Santa Maria in Gallo o Marco da Montegallo, assurto nella schiera dei beati di Santa Romana Chiesa, aveva cominciato a Camerino, nel 1458, la sua itinerante predicazione e aveva fatto della fondazione di Monti l'obiettivo principale di un programma che non intendeva limitarsi alle esortazioni. Il Monte fondato a Fabriano nel 1470 è il primo che si fa risalire direttamente alla sua volontà. Ma è una catena di Monti che via via si dispiega: tracce di un itinerario percorso col fervente desiderio di erigere permanenti strumenti di carità. "Il Monte - sottolinea Elide Mercatili Indelicato - doveva configurarsi secondo Marco essenzialmente come istituzionalizzazione della carità, ineludibile metro dei rapporti umani all'interno di una società cristiana devota, accanto al concetto di aequitas e rispondere alla necessità di credito, alla sua centralità per la vita sociale e per la pratica della vita cristiana nelle nuove condizioni economiche e sociali".
E veniamo all'eloquente e complessa xilografia richiamata all'inizio di questa digressione. Il legno, concepito a Firenze, fu inserito, come d'abitudine, in più d'un libro. Alcuni esperti hanno fatto notare che riprende con una certa libertà l'impianto di un'incisione in rame attribuita a Baccio Baldini, altri hanno suggerito il nome di Francesco Rosselli. Al di là di questioni attributive che esulano dal nostro precipuo interesse, qui val la pena notare i contenuti simbolici che danno alla scena la compiutezza di un'invenzione di singolare efficacia, tesa a compendiare in modi largamente intellegibili una dottrina, spiegata dall'autore con una puntigliosa didascalia. Marco aveva fatto propri l'incitamento di Bernardino alla chiarezza e il suo gusto per una grafica che fungesse quasi da attestato di riconoscibilità.
Dal Monte scaturisce il senso di un ascensionale riscatto. La complessa allegoria condensa come in fumetto per immagini le parole che il predicatore in basso a sinistra pronuncia dal pulpito. Conviene seguire la spiegazione che ne offre lo stesso Marco. In alto il cielo empireo ha per baricentro un "loco tondo et vacuo" che sta per l'ineffabile, la divina essenza. Alla sua destra siede il Cristo Gesù in guisa di giudice, alla sua sinistra la Madonna che intercede soccorrevole. Quindi sono disposti i nove cori angelici, patriarchi, profeti, apostoli e un fitto coro di santi e sante. Nella zona mediana si chiariscono i modi di guadagnarsi il Paradiso. Intorno al Monte sei gruppi di persone rappresentano le sei opere di misericordia codificate nel Vangelo di Matteo. Le vie da seguire scrupolosamente sono cinque: le disposizioni della regola dei raccomandati della Vergine Maria; il sostegno al Monte della Pietà, non a caso collocato a perno e ben in vista "per cassare tutti i mali torti incerti"; l'indulgenza attingibile venerando la Pietà (davanti alla quale papa san Gregorio Magno sta celebrando la messa); la recita del rosario come mostrano gli angeli; la recita, infine, di "alcune altre laude et oratione devote". Alla base "sta picto - fa notare Marco - el popolo, grandi, et piccoli, mascoli, et femine, avidi et desiderosi di pervenire ad esso paradiso et eterna vita". Sullo sfondo si nota una svelta raffigurazione cartografica della penisola italiana punteggiata di città con a sinistra il Monte Sinai, sulle cui pendici si scorge un minuscolo Mosè. Non dovrà sfuggire che la folla attenta in ascolto comprende le varie classi sociali, ben distinguibili dall'abbigliamento. Così i canoni della teologia s'intrecciano con una concezione della vita dell'uomo che conduce alla salvezza in quanto promuove carità e solidarietà. Non c'è, forse, documento che più icasticamente riassuma il valore che gli osservanti assegnavano alla loro predicazione da organizzare nelle piazze per favorire una coesione nutrita di valori spirituali non meno che economici: coloro che attingono al Mons Pietatis sperimentano un'istituzione che è frutto di un impegno religioso e torna al tempo stesso utile alla società intera. Dall'allegoria di Marco si sarebbe potuto ricavare un pedagogico, modernissimo manifesto. Che Bernardino avrebbe potuto mostrare ai devoti mattinieri per esortarli alla retta condotta con la persuasiva immediatezza delle immagini. L'istruttivo legno echeggia un'architettura dantesca, esalta un Monte purgatoriale di riscatto e purificazione. Soccorso per la povera gente e montagna benedetta da scalare per raggiungere la salvezza eterna. I Montes che fiorivano numerosi erano provvidenziale salute per le anime e balsamo per i terreni disagi.
La via del Monte sacratissimo della pietà, cit., particolare.
Scheda Tematica
Il movimento francescano

Contro il cumulo degli egoismi

"Non dobbiamo riporre né attribuire alla pecunia e al denaro maggiore utilità che ai sassi": la presa di posizione della Regola non bollata (1221) è perentoria. Il favore accordato ai Monti di Pietà non la contraddice. I francescani erano infatti ben consapevoli delle condizioni di miseria che affliggevano gran parte della popolazione.
Potrà sembrare paradossale che sia stato il movimento francescano a sostenere, con una predicazione martellante e geograficamente molto diffusa, la costituzione dei Monti di Pietà. Perché per un verso o per l'altro l'accumulo dei pegni e la complementare concessione di aiuti furono l'incubazione di pratiche che avrebbero avviato una gestione del denaro destinata gradualmente a sfociare in attività bancaria. I Montes, sollecitati a sollievo delle scandalose condizioni di miseria di vastissimi strati di popolazione, non erano pensati, in linea di principio, come organismi che dovessero assumere parametri e tecniche di tipo commerciale e ancor meno finanziario, e furono ben distinti da analoghe, similari iniziative. Non si può tuttavia negare che, con modalità specifiche e sulla base di una loro peculiare normativa statutaria, anche i Monti, certi Monti, abbiano avuto una fisionomia che finiva per non renderli estranei alle problematiche insorte con il vertiginoso accentuarsi della circolazione di moneta. Il Monte Pio nato a Siena nel 1472 fu voluto dall'autorità civile e quindi fu ancor più esposto a un'inevitabile contaminazione. L'interrogativo, sorto spontaneo in molti, sul paradosso di un francescanesimo ostile a qualsiasi forma di maneggio del denaro che però diventa culla di qualcosa che col denaro ha molto a che fare non è privo di fondamenti. Taluni passi del capitolo VIII della Regola non bollata hanno un'ineludibile perentorietà: "Perciò nessun frate, ovunque sia e dovunque vada, in nessun modo prenda o riceva o faccia ricevere pecunia o denaro, né con il pretesto di vestiti o di libri, né per compenso di alcun lavoro, insomma per nessuna ragione, se non per una manifesta necessità di frati infermi; poiché non dobbiamo riporre né attribuire alla pecunia e al denaro maggiore utilità che ai sassi".
Ambrogio Lorenzetti, Martirio di cinque frati francescani, 1335-40. Siena, basilica di San Francesco.
La più succinta e temperata Regola approvata da papa Onorio III nel 1223 conteneva disposizioni identiche e ammetteva eccezioni solo "per le necessità degli infermi" e per poter disporre di abiti in grado di proteggere da un freddo eccessivo. È suggestiva la ribadita coppia "denari o pecunia". Pecunia è qualsiasi cosa che sostituisca il denaro contante: gli appassionati di sottili etimologie o di apparentamenti semantici porranno il termine in relazione con pecus, il bestiame di pascoli come quelli che denomineranno il successivo Monte. (Aver dato i pascoli di Maremma a garanzia della non vacabilità della banca echeggiava un mondo agricolo, diffidente e ancorato a pratiche primordiali). I frati, dunque, non avrebbero dovuto occuparsi del disbrigo di affari che obbligassero a toccar moneta, ma non ignoravano i bisogni di chi non navigava nell'oro e non poteva permettersi di rivolgersi a banchieri e, tanto meno, di trattare con usurai. L'entusiasmo per i Monti tradiva o incrinava la purezza della Regola uscita dalla volontà di Francesco? La spiritualità dell'Osservanza annacquava il messaggio delle origini? Tutt'altro.
Ambrogio Lorenzetti, San Ludovico di Tolosa si congeda da papa Bonifacio VIII, 1335-40.
Siena, basilica di San Francesco.
Solo chi preferisce coltivare l'edulcorata versione di un francescanesimo idilliaco e giulivo, magari abbigliato di panni liberty, si meraviglia di un approdo coerente con il realismo che sostanzia la ribellione di Francesco. Il suo rifiuto del denaro nasce da una consapevolezza dei guasti che l'accumulo delle ricchezze stava producendo e avrebbe continuato a produrre. Il Monte della pietas avrebbe appunto contrastato il cumulo - il monte - degli egoismi e la fragile sicurezza che faceva immaginare. "Se Francesco - scrive André Vauchez - rifiutava il denaro con tanta virulenza, è perché, in conformità alle idee economiche contemporanee, era convinto che la quantità di denari disponibile nel mondo fosse costante e che, arricchendosi e soprattutto tesaurizzandone delle specie - ma altrettanto accumulando derrate, come facevano comunemente i mercanti, aspettando di venderle a prezzo elevato -, se ne deprivassero gli altri". Ogni oggetto era ridotto al suo valore di scambio. Il valore assegnato artificiosamente alla moneta sostituiva la funzione naturale che ogni cosa aveva nel Creato. E ogni cosa, essendo sottratta a Dio, invece che essere fattore di unione originava contrapposizioni rovinose, disparità insanabili, permanenti conflitti. D'altro canto i Minori sapevano che la regola era concepita per la loro comunità, non per il mondo. "In una società - dice Chiara Frugoni - in cui era il denaro che regolava l'accesso ai beni, i frati, bandendone l'uso, rifiutavano di accordargli una funzione nella loro vita". Era un trarsi fuori dal sistema, una garanzia di libertà e di indipendenza. Francesco conosceva bene gli ingranaggi di una società della quale aveva appreso la ferocia dalla cinica pedagogia di un padre ricco e usuraio. I Minori avrebbero dovuto rinunciare alla proprietà, a ogni modalità di possesso o di usufrutto e attenersi solo all'uso delle cose concesse in dono. La Regola configurava una forma di vita sottratta alle regole del diritto, una forma di vita diventata pura esperienza di sé, e di fraterni e solidali legami grazie alla negazione della proprietà e alla restituzione di ogni cosa all'uso. Giorgio Agamben sostiene che questa esaltazione dell'uso delle cose necessarie alla vita, è "la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell'Occidente sono giunte alla loro consumazione storica". Senza inoltrarsi in sentieri filosofici di difficoltosa percorribilità e tornando ai Monti voluti da un filone non secondario del ramificato movimento tenuto a battesimo da Francesco d'Assisi, non sarà fuori luogo notare che la loro effimera esistenza segnò in contrappunto la nascita del trionfo della moneta e del mercato. A Siena il primo Monte Pio sarebbe definitivamente crollato nel 1511, quando del tutto cessate erano le ostilità alle quali i domenicani avevano più di altri fornito le armi della teologia e i Monti stavano per essere legittimati dal Concilio Lateranense. Finiva - ancora un paradosso - quando se ne avvertiva di più il bisogno.
Maestro dell'Osservanza, Sant'Antonio distribuisce le sue ricchezze ai poveri.
Washington, National Gallery of Art.

3. Nel castellare dei Salimbeni

Padroni fin dal XIII secolo di un vasto castellare posto nel Terzo di Camollia, in un tratto cittadino della Via Francigena e all'interno di un'area dominante l'antica "valle Rozi", che da via Montanini scende alla Porta d'Ovile, i Salimbeni furono, secondo Girolamo Gigli, "fra le nostre famiglie de' Grandi [...] la più possente e la più ricca" 23

Girolamo Gigli, Diario senese, I, Lucca, Venturini, 1723, p.310.

. L'affermazione non sembra esagerata alla luce di quanto avvenne nell'agosto 1260, prima del decisivo scontro di Montaperti fra senesi e fiorentini, come racconta un vecchio cronista: "E veduto che 'l Comuno non aveva denari, misser Salimbene Salimbeni proferse cento miglia di fiorini al Comuno e alla difesa della città, e che si mandasse per essi. E subito andaro a chasa Salimbeni, e misono questi ciento miglia di fiorini su uno charro coperto di scharlatto e co' molti ulivi in mano. Quegli e quali ghuidavano el charro e venero su la piazza Talomei, e tutti questi denari misero nel mezzo della chiesa di sancto Cristofano. E misser Salimbene si levò suso e disse a suo compagni Vintiquattro, che si soldasse giente, e che non si mirasse a' denari, che quando quegli saranno logri ne prestarebbe altretanti" 24

Cronaca senese di anonimo, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti, Rerum Italicarum Scriptores, XV, parteVI, Bologna 1931-1939, pp. 57-58.

.
La ricchezza di Salimbene era dovuta alla sua attività mercantile-finanziaria, sviluppatasi poi con una società dei membri della famiglia, che acquistarono terre e castelli in Val d'Orcia, formando una vera e propria aristocrazia signorile, capace di arginare almeno in parte l'espansione di consorterie feudali come quella degli Aldobrandeschi, che continuamente minacciavano Siena. Anche i Salimbeni, però, si troveranno nelle condizioni di contendere al Comune senese - passato dal governo dei Ventiquattro a quello dei Trentasei e infine a quello dei Nove - prestigio e potere, tanto da scatenare violenti scontri con altre potenti casate cittadine e in particolare con i Tolomei. Ambedue le consorterie facevano prestiti al Comune con interessi fino al 30%, investivano sulla terra e ricoprivano con loro rappresentanti importanti cariche pubbliche, ma non ostante i continui tentativi d'accordo, la storia della loro rivalità, intessuta anche di episodi leggendari, copre buona parte dei secoli XIII e XIV.
Dopo la morte di Giovanni d'Agnolino Bottone Salimbeni, caduto da cavallo mentre si recava alla Rocca d'Orcia il 2 agosto 1368, tutto l'ordinamento costituzionale senese venne rimesso in discussione. Uomo di fiducia di Carlo IV di Lussemburgo, Giovanni nel marzo 1355 aveva ospitato in casa sua l'imperatore, giunto a Siena "con seco circa mille tra baroni e cavalieri" 25

Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi cit., p. 577.

: fu l'occasione per cacciare i Nove con una rivolta popolare e per assumere una sorta di signoria di fatto col nuovo governo dei Dodici. Abbandonato il suo regno terreno, basato soprattutto sul grano della Maremma e sulla sua singolare abilità, sia nel commercio sia in politica, Giovanni d'Agnolino lasciò Siena, secondo la testimonianza di Donato di Neri, "in grande male stato e divisione e bassezza" 26

Ivi, p.618.

. Altri Salimbeni cercarono di sfruttare questa debolezza senese, insistendo nel loro tentativo di signoreggiare sulla città, fino alla sconfitta definitiva subìta da Niccolò di Cione, detto Cocco, costretto nel febbraio 1418 a cedere al Comune tutti i beni della famiglia; fra questi, anche i palazzi in città, ormai "molto guasti" e dove "e' sanesi vi fecero la munitione di grano e di sale" 27

Paolo di Tommaso Montauri, Cronaca senese, in Cronache senesi cit., p. 791.

.
Rocca Salimbeni in piazza dell'Abbadia prima del restauro.
Quattro anni dopo Marietta, moglie di Cocco Salimbeni, scrive addirittura alla Signoria perché le dia "modo e facoltà di poter collocare" due figlie in età da marito e più tardi un'altra marietta, vedova di Sozzo Salimbeni, si raccomanda alla "pietà e clemenza" del governo senese perché aiuti la figlia Margherita, "da lei in grandissima povertà e fatica nutrita e allevata fuori della patria" 28

Cfr. Arturo Pannilunghi, Lettere di gentildonne senesi del secolo XV, Siena, Tip. Lit. Sordo-Muti di L. Lazzeri 1897, pp. 8 e 10.

.
Nel 1472 la casa dei Salimbeni fu, come si è detto, data "in prestanzia" al Monte di Pietà, "potendola aconciare - secondo la delibera consiliare del 4 marzo di quell'anno - come sarà di bisogno per habitarla, et per la sicurtà di decto Monte; le quali spese, cioè d'acconcimi, si debbino fare alle spese del Comune di Siena, non passando la somma di fiorini cento".
L'edificio già ospitava dal 1422 la Dogana del Sale e dal 1425 l'Ufficio della gabella; vent'anni dopo ebbe bisogno di restauri, specie nella parte verso la chiesa di San Donato, dove - come scrissero gli "offitiali dell'amonitione del grano" al Concistoro - il palazzo stava "in grandissimo dubio di ruinare" 29

ASS, Concistoro 470, c. 22.

.
Anche dall'altro lato il palazzo dei Salimbeni era ormai in rovina; così, per uno dei più fortunati banchieri senesi - Ambrogio Spannocchi - fu facile acquistarne una porzione nel 1471 insieme con l'adiacente casa dei Rossi. In quell'area sorse, su disegno di Giuliano da Maiano, il palazzo rivestito di pietra tufacea, al quale gli Spannocchi unirono un giardino pensile su parte delle rovine della dimora dei Salimbeni.
Non ostante le felici soluzioni architettoniche, un anonimo cronista senese osservò: "Il capomastro si chiamò Giuliano del Maiano da Firenze, e tutti li altri maestri e manuali erano fiorentini, in modo che molti Populari ne bollivano" 30

Ls [Alessandro Lisini], L'architetto del Palazzo Spannocchi, in "Miscellanea storica senese", III (1895), p.60.

.
La precaria situazione finanziaria in cui si trovava il Monte Pio non impedì ai suoi Magistrati di celebrare il decennale della sua istituzione con un dipinto, commissionato a Benvenuto di Giovanni, un pittore senese che si ispirava ai modi del Mantegna, già espressi in Siena da Girolamo da Cremona e da Liberale da Verona nei corali miniati della cattedrale. Il dipinto presenta al centro la Madonna, che accoglie sotto il suo manto tante persone in ginocchio e in attesa di aiuto. È evidente l'ispirazione che il pittore trasse dall'affresco del Vecchietta al pian terreno del palazzo comunale risalente al 1461, con la Madonna, il Figlio, gli angeli e i devoti. L'opera di Benvenuto fu in seguito completata da altri artisti, con i santi Caterina e Bernardino sulla destra, con Sant'Antonio da Padova e Santa Maria Maddalena a sinistra e con i tradizionali stemmi di Siena: la lupa con Romolo e Remo e il leone rampante, simbolo del Popolo 31

Pietro Rossi, Le antiche pitture della Pietà nel Palazzo del Monte dei Paschi, in "Rassegna d'arte senese", XVIII (1925), pp. 6-7. Cfr. anche La sede storica del Monte dei Paschi di Siena. Vicende costruttive e opere d'arte, a cura di F. Gurrieri, L. Bellosi, G. Briganti e P. Torriti, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1988, p. 316 e La sede storica della Banca Monte dei Paschi di Siena. L'architettura e la collezione delle opere d'arte, a cura di L. Bellosi, testi di P.Agnorelli, F. Ceccherini, M. Merlini, foto di A. Lensini e F. Lensini, Siena, Monte dei Paschi diSiena, 2002, p. 228.

.
La speranza di poter proseguire nella caritatevole funzione per cui era nato il Monte Pio, chiaramente espressa nell'affresco voluto dai suoi amministratori, fu presto delusa. L'aumento di capitale approvato nel 1473 e un'apposita "presta" nel 1477 non furono, infatti, in grado di salvare la benefica istituzione in una città martoriata dalla peste e dalla "grandissima carestia, alla quale il Senato - racconta Giugurta Tommasi - si oppose facendo di Sicilia e d'Alessandria d'Egitto condurre molto grano, il quale si vendé tutto l'anno dalli quaranta soldi lo staio, che fu in quella età povara di moneta reputato gravissimo prezzo" 32

Giugurta Tommasi, Dell'Historie di Siena. Deca seconda, vol. II, libri IV-VII (1446-1496), a cura di M. De Gregorio, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2004, p. 245.

.
In queste condizioni era difficile non ricorrere ai prestatori ebrei e Siena continuò ad avere con alcuni di essi un rapporto impostato sul rispetto della loro libertà e sulla concessione di particolari privilegi, cosa assai singolare se paragonata a ciò che succedeva altrove. A Firenze, per esempio, la propaganda di fra Bernardino da Feltre per l'istituzione del Monte di Pietà si accompagnò a violente accuse contro gli ebrei usurai, cui vennero inflitte tasse speciali, eluse solo da un ebreo ricchissimo che, a quanto riferisce una cronaca di fine Quattrocento, corruppe i governanti fiorentini, impedendo l'istituzione del Monte Pio e favorendo così la propria attività di prestatore.
Anche a Venezia non si aprì un Monte di pietà fino al 1730; la gestione del prestito su pegno fu, infatti, affidata - almeno fino alla fine del XIV secolo - ai Bastionieri, venditori di vino "autorizzati a prestare ad un saggio trimestrale equivalente al 20 per cento all'anno, con l'obbligo di dare al richiedente due terzi della somma in denaro e l'altro terzo in vino di buona qualità. Come e quanto fosse rispettata quest'ultima condizione basta a dimostrarlo il fatto che passò e durò lungamente nel popolo veneziano l'indicazione proverbiale di 'vino da pegni' per designare quello della specie più detestabile" 33

N. Mengozzi, Il Monte cit., I, p. 194, nt. 1.

.
In seguito l'onere del prestito pubblico contro pegno fu sostenuto da usurai ebrei, cui vennero rinnovate continuamente le "condotte", sottoposte però spesso a durissime condizioni.
Con Guglielmo Dattaro, ebreo di Montalcino, il Concistoro senese rinnovò nel 1477 i patti per il prestito a condizioni non dissimili da quelle poste vent'anni prima a Jacob di Consiglio e che confermano l'ormai raggiunta buona capacità contrattuale dei prestatori ebrei, ai quali si riconosceva una condizione giuridica pari a quella dei cittadini senesi: "Item e decti giuderi in ciaschuna cosa civile et criminale sieno auti, tenuti, tractati, reputati come veri et originarii cittadini de la città di Siena et possino godere tucti e privilegi et franchigie civili et criminali de' cittadini" 34

ASS, Balìa 4, cc. 138-146 (25 mag. 1457).

.
Benvenuto di Giovanni, Madonna della Misericordia, 1481.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Dopo gli accordi presi con l'ebreo Dattaro, un'altra decisione governativa del febbraio 1484 rivela la critica situazione in cui versava la repubblica: si approvò, infatti, una sanatoria per tutti i debitori che si trovavano in prigione e ci si preoccupò della diminuzione delle entrate del Monte Comune, definito in una scrittura concistoriale "quella precipua cosa che conserva la città, sì nella pace et unione de' cittadini, sì etiamdio nella sustentatione de li exerciti, buttigari e popolo; perché el denaio del Monte è quello che corre per la città manifestamente, e dà fomento al bisogno del popolo et uso di chi traffica, et mancando quello a uno tracto, mancha ogni bene della città" 35

ASS, Concistoro 2169.

.
Creato per l'esazione dei prestiti allo Stato, ai quali i cittadini erano spesso costretti, e per assicurare il pagamento dell'annuo frutto e la restituzione graduale del capitale prestato, il Monte Comune aveva assorbito a poco a poco anche l'esazione dei redditi del monopolio del sale e quello degli affitti dei pascoli della Maremma, gestiti dal Monte del Sale e Paschi.
Con il debito pubblico in evidente difficoltà e la rottura del sistema "trinario" dei Monti, che nel giugno 1480 aveva dato vita a un nuovo governo composto solo da Popolari e Noveschi, Siena fu sottoposta per alcuni anni a una continua tensione, causata dalla creazione di un nuovo Monte, detto "degli Aggregati" - dove confluirono Noveschi dissidenti, Gentiluomini, Dodicini e Riformatori - e dalla cooptazione al potere di molti "spalagrembi", cittadini cioè del popolo minuto, che non avevano mai avuto "riseduti" nella propria famiglia.
Tra i sanguinosi tumulti scoppiati in città, specie dopo la partenza di Alfonso duca di Calabria - l'ambiguo protettore dei senesi, figlio del re Ferdinando d'Aragona - il più grave fu quello organizzato da Luzio Bellanti. Con un gruppo di fuorusciti Noveschi, Bellanti occupò, nel gennaio 1481, il castello di Monteriggioni, roccaforte senese al confine di Firenze. I Popolari affrontarono allora con le armi i Noveschi presenti in città. Per sfuggire alla loro furia, molti di questi si rifugiarono nel palazzo comunale, dove rimasero finché il cardinale Giovan Battista Cybo, inviato dal papa Sisto IV per pacificare la città, non riuscì a convincere i senesi a unirsi in un unico Monte del Popolo, che avrebbe dovuto diventare il nucleo pacificatore fra gli altri Monti. Il primo aprile 1483, però, alcuni Noveschi furono gettati dalle finestre del palazzo del podestà, dove si trovavano sotto la custodia del cardinale. Questi allora, in preda all'ira, abbandonò Siena, che rimase ancora a lungo in balìa delle fazioni, finché nel mese di luglio del 1487 i Noveschi fecero rientrare in città i loro compagni fuorusciti, guidati da Pandolfo Petrucci, e insieme con gli altri Monti cacciarono "lo mal governo d'alcuni Popolari di mala vita", causa - scrisse l'Allegretti, cronista Dodicino - "di molte ingiustizie, come robberie, omicidi, sodomie, bestemmie di Dio e della Vergine Maria" 36

Allegretto Allegretto, Diarj delle cose sanesi del suo tempo, in Rerum Italicarum Scriptores, t. XXIII, p. 852. Per questo e altri testi di seguito citati vedi Giuliano Catoni, L'alchimia dei Monti, in Repubblica di Siena (1400-1557), Milano, F.M.R., 2002, pp. 13-39.

.
"Vedi i sanesi - aveva scritto Vespasiano da Bisticci nel suo Lamento d'Italia, pubblicato nel 1480 - per le loro isceleratezze e per li loro infiniti errori si sono condotti a cacciare l'uno l'altro. Hanno avuto la guerra, la pistolenzia, tutto, acciò che s'emendassino; e per la loro impertinentia e ostinazione sono capitati male" 37

Vespasiano da Bisticci, Lamento d'Italia per la presa d'Otranto fatta dai Turchi nel 1480, in Vite di uomini illustri del secolo XV, III, Bologna, Romagnoli- Dall'Acqua, 1893, p.323.

.
Morto Guglielmo Dattaro, aveva assunto la condotta del prestito con le stesse condizioni un gruppo di ebrei guidati da Lazzaro Manuelli da Volterra e anche per il Monte di Pietà furono presi provvedimenti per cercare di renderlo più efficiente. Fu ridotto il frutto sui prestiti dal 7 e mezzo al 5 per cento annuo; si elevò il limite del prestito da 32 a 48 lire; si impose ai suoi amministratori di giurare ogni due mesi sull'osservanza degli statuti della benefica istituzione e si ordinò al Camarlengo di registrare il ricavato della vendita dei pegni "a conto vinitiano", cioè col riscontro fra dare e avere.
Intanto a Pandolfo Petrucci - figlio di quel Bartolomeo che aveva raccolto l'eredità politica di Antonio di Checco Rosso, condannato a morte in contumacia nel 1457 con l'accusa di aver tentato un colpo di Stato - "fu data - come ricorda Niccolò N. Machiavelli - la guardia del palazzo con governo, come cosa meccanica e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati con il tempo gli dieron tanta riputazione che in poco tempo ne diventò principe" 38

Niccoló Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Tutte le opere storiche e letterarie di Niccoló Machiavelli, a cura di G. Mazzoni e M. Casella, Firenze, Barbéra, 1929, p. 210.

.
Sbarazzatosi dei suoi avversari, non esitando a far assassinare il suocero Niccolò Borghesi, che era la loro guida, Pandolfo attuò una sua politica interna, favorendo ampiamente il ceto dei ricchi, che poterono acquistare le terre di una sessantina di comunità soggette grazie a un'apposita legge agraria emanata nel 1501.
Anche in politica estera la spregiudicatezza e l'abilità diplomatica del suo "ministro" Antonio da Venafro - esempio del perfetto consigliere secondo Machiavelli 39

N. Machiavelli, Il Principe e opere politiche minori, Firenze, Le Monnier, 1924, p.69.

- riuscirono a evitare scontri aperti e relative spese belliche, rendendo floridi gli affari dei banchi con l'appalto delle pubbliche entrate. Non altrettanto florida era, invece, la condizione del Monte Pio, ben riassunta dal cronista contemporaneo Allegretto Allegretti, che, con evidente riferimento a quella Madonna della Misericordia dipinta su una parete della Rocca Salimbeni, nel 1480 afferma: "A questo modo la Vergine Maria è pelata".
Ecco allora che "per supplire ai bisogni del presto", un nuovo capitolato con gli ebrei venne firmato il 14 gennaio 1496 40

ASS, Balía 1069, c. 118.V. anche Lodovico Zdekauer, I Capitula Hebraeorum di Siena (1477-1526) con documenti inediti, in "Archivio giuridico Filippo Serafini", LXIV (1900), pp. 3-14.

; essi chiesero esplicitamente la tutela del Priore dei Nove di guardia, che era lo stesso Pandolfo Petrucci, impegnandosi a "rinfrescare il banco" con 3000 ducati e a prestarne 200 alla Casa della Sapienza con un saggio di favore.

4. Dal Magnifico Pandolfo a Cosimo de' Medici

Nello stesso anno 1496 cominciò a funzionare anche a Firenze un Monte di Pietà, soprattutto per merito di fra Girolamo Savonarola. Alcune delle principali regole del prestito richiamavano quelle del Monte senese, ma ciò che differiva molto erano sia le misure vessatorie contro gli ebrei, pretese dal priore della chiesa di San Miniato Marco Strozzi, sia la natura del capitale di fondazione, costituito dal ricavato della vendita dei beni confiscati ai pisani.
L'aiuto in armi e denari fornito a questi ultimi dai senesi in funzione antifiorentina contribuì a logorare ancor più le già scarse finanze della repubblica, che di nuovo nel 1501 si trovò costretta a preoccuparsi della sopravvivenza del Monte Pio. La sua "reparatione" fu auspicata da una commissione, che aveva esaminato "li disordini et mancamenti" dell'istituzione e aveva suggerito alcuni rimedi 41

ASS, Consiglio generale 241, c. 96v (26 dic. 1501).

. Questi furono approvati dal Consiglio generale, ma non furono messi in atto. Troppi, infatti, erano i problemi che, in quel torno di tempo, doveva affrontare la repubblica: il pagamento di un tributo di 4000 ducati alla monarchia francese per ottenere la sua protezione; l'aiuto agli aretini ribellatisi a Firenze; la difesa contro il duca Valentino, che imperversava con i suoi armati nel territorio senese e che pretese anche l'esilio per Pandolfo Petrucci.
Questi, tuttavia, rientrò presto in città, acquistando con altri soci le pubbliche rendite dei Paschi.
Tali rendite, provenienti dalle entrate della Dogana dei pascoli maremmani, erano fin dalla metà del XIV secolo il maggiore sostegno della finanza cittadina. A parte le "bandite" - limitati territori di proprietà statale o privata o di comunità locali, il cui usufrutto veniva ogni anno venduto al miglior offerente - la maggior parte dei pascoli era data a pagamento ai pastori transumanti, che insieme formavano una "vergheria" e che pagavano una tassa chiamata "fida", secondo il numero e il tipo di bestie da loro condotte. Quando in autunno i pastori scendevano in Maremma con le greggi per passarvi l'inverno, dovevano attraversare le "calle", dove gli animali venivano contati ed essi s'impegnavano a pagare la "fida" quando avrebbero lasciato i pascoli in primavera.
Il mancato pagamento poteva costare la perdita del bestiame e pene anche più severe venivano comminate ai sudditi senesi, obbligati a usare solo pascoli maremmani.
Il rispetto di tutte queste norme, dettate da uno statuto del 1419, era garantito dagli ufficiali della Dogana dei Paschi, rappresentati da settembre ad aprile da un Capovergaro, di regola residente a Grosseto 42

V. Il primo statuto della Dogana dei Paschi maremmani (1419), a cura di Ildebrando Imberciadori, in Idem, Per la storia della società rurale.Amiata e Maremma tra il IX e il XX secolo, Parma, La Nazionale, 1971, pp. 107-140 e Carla Zarrilli, Dogana dei Paschi, in Leggi, magistrature, archivi. Repertorio di fonti normative ed archivistiche per la storia della giustizia criminale a Siena nel Settecento, a cura di S.Adorni Fineschi e C. Zarrilli, Milano, Giuffré, 1990, pp. 109-128.

.
L'acquisto delle rendite della Dogana dei Paschi permise a Pandolfo Petrucci di potersi fregiare dell'attributo di "Magnifico" e - pur volendo sempre rimanere "primus inter pares", a capo di una Balìa di quarantacinque membri composta dagli "uomini forti" di tutti i Monti - di assumere di fatto la signoria di Siena.
Il difficile equilibrio raggiunto nel governo della città favorì un certo sviluppo industriale, commerciale e culturale, accompagnato nel 1505 dal rinnovo per altri vent'anni di una condotta al prestatore ebreo Moisè Angeli da Rieti. Questi "rinfrescò il Banco" con altri tremila ducati, non pretese la restituzione di un prestito concesso alla Casa della Sapienza, ma ebbe la facoltà di elevare il frutto dei prestiti su pegno fino al 30 per cento all'anno.
Oltre la vendita delle rendite dei Paschi, invalse l'uso di vendere anche le potesterie e altri uffici dello Stato, causa questa di corruzione e malversazioni. Anche le cariche del Monte Pio erano state vendute, tanto che la commissione già ricordata, nominata nel 1501 per la "reparatione" del benefico istituto, aveva osservato: "Per essersi detto officio venduto et etiam per continuare più tempo li medesimi offitiali, sono nati infiniti disordini" 43

ASS, Consiglio generale 241, c. 96t.

. Tali disordini condussero in pochi anni il Monte della Pietà alla fine del suo primo ciclo: da una media di cinquanta operazioni giornaliere, nel 1511 si era scesi ad appena ottantaquattro in un anno, condannando così quasi all'estinzione quell'istituto, osteggiato non solo dagli ebrei prestatori e dagli usurai che operavano attraverso di essi, ma anche dai frati domenicani, in polemica con i confratelli francescani.
Questi ultimi ribadivano che la percezione di un frutto onesto sul denaro prestato era ammessa sul piano etico, come affermò finalmente il Concilio Lateranense, chiuso da Leone X nel 1517. A condizione che non si esigesse un interesse superiore al compenso delle spese indispensabili alla loro gestione, i Monti di Pietà potevano senz'altro essere istituiti. A Siena, però, a quella data il Monte Pio era in piena crisi. Il 19 agosto 1519 il Concistoro decise di offrire in uso gratuito alcune stanze del palazzo Salimbeni, sede del Monte, al setaiolo Niccolò Sensi, che già da venticinque anni vi abitava con la famiglia e che era da tempo un custode di quell'istituto 44

ASS, Concistoro 917, c. 16 (19 agosto 1519) e Monte di pietà 7,c.1.

.
Pochi documenti consentono di dimostrare una limitatissima operatività del Monte fino alla vigilia della fine della repubblica senese nell'aprile 1555. Alcune deliberazioni della Balìa - citate da Federigo Melis - "denunciano la preoccupazione della salvaguardia dei pegni e, perciò, degli interessi patrimoniali dei loro proprietari, mentre la repubblica era in pericolo" 45

Federigo Melis, Motivi di storia bancaria senese: dai banchieri privati alla banca pubblica, in "Note economiche", 1972, p. 61.

; un pericolo che cominciò a farsi sempre più incombente fin dal giorno della morte del Petrucci, avvenuta il 21 maggio 1512. Infatti, non ostante il consenso acquisito nei ceti dirigenti cittadini - specialmente con l'attuazione di una "legge agraria", che permise l'alienazione delle terre di molte comunità soggette, acquistate da sostenitori del regime o da famiglie facoltose del posto - Pandolfo non era riuscito a garantire l'impianto di una vera e propria signoria della "gens Petrucia". Né il figlio Borghese, che successe al padre, né il nipote Raffaele o l'altro figlio Fabio ebbero le capacità politiche del "Magnifico" e il sistema da lui creato crollò definitivamente quando Fabio Petrucci sposò Caterina, figlia di Galeotto de' Medici.
I Noveschi, ancora diffidenti verso la Firenze medicea, formarono allora un governo oligarchico guidato da Alessandro Bichi, ma la sconfitta di Pavia subìta dal re di Francia Francesco I da parte di Carlo V il 24 febbraio 1525 provocò a Siena la rivolta dei cosiddetti "Libertini". Il Bichi venne ucciso e si ristabilì un governo popolare, con l'espulsione dalla città dei Noveschi più importanti. Questi fuorusciti riuscirono ben presto a ottenere il favore imperiale col concorso dei fiorentini e l'appoggio del papa, che all'inizio del 1526 inviò le sue truppe nello Stato senese.
Unitesi alle soldatesche fiorentine, queste assediarono Siena, accampandosi di fronte alla porta Camollìa. La reazione dei senesi, che attaccarono di sorpresa il campo nemico il 25 luglio, giorno consacrato ai santi Giacomo e Cristoforo, fu talmente violenta che l'esercito degli assedianti fu tosto messo in fuga con gravissime perdite.
Per ricordare quella vittoria fu costruita una chiesa, dedicata alla Concezione di Maria e a San Giacomo nella Contrada della Torre e nel 1529, per ribadire la fede antitirannica del governo furono commissionati a Domenico Beccafumi gli affreschi che, nella Sala del Catino del Palazzo Pubblico, illustrano modelli di virtù civica tratti dagli scritti di Valerio Massimo.
Quei modelli, tuttavia, furono raramente seguiti e i disordini causati dalle poco virtuose fazioni in lotta provocarono l'entrata in Siena dei soldati di Carlo V, inviati dall'imperatore per pacificare gli animi.
Nuovi sanguinosi scontri fra Noveschi e Popolari coinvolsero la guardia spagnola, che fu costretta a lasciare temporaneamente la città. Carlo V decise allora di far costruire una grande fortezza a Siena per dotarla di un presidio militare, atto a mantenere l'ordine in un luogo dimostratosi strategicamente utile agli interessi dell'impero. Nel 1537, intanto, era stato confermato l'uso gratuito di varie stanze del palazzo Salimbeni ai figli di Niccolò Sensi, uno dei quali fu poi chiamato "Bartolomeo della Pietà". Quattro anni dopo, dai locali di San Vigilio, furono trasferiti nello stesso palazzo i tre giudici del Tribunale della Ruota, a conferma dell'ormai scarse necessità logistiche del Monte Pio, sostituito dai prestatori ebrei, rimasti a Siena i soli sovventori usurarii. Nel 1545 l'ebreo Laudadio ebbe la condotta per vent'anni, prorogata nel 1552 per altri sette, mentre speciali capitoli per "tener banco" erano già stati firmati nel 1532 con gli ebrei Emanuello a Montefollonico e Raffaello a Montalcino 46

ASS, Balìa 105 (9 febbr. 1532).

.
Negli stessi anni assai diverso era il trattamento degli ebrei in altre città. A Venezia, per esempio, la comunità ebraica fu segregata nel "ghetto", dal nome dell'isola dove esisteva una fonderia recinta da mura, e in un ghetto furono reclusi gli ebrei di Bologna, costretti a non possedere immobili, a portare un segno distintivo giallo e ad assistere ai falò dei libri della loro religione.
Il 27 luglio 1552, al grido di "Francia, Francia! Libertà, libertà!", i senesi assalirono la fortezza, dove si erano rifugiati i soldati dell'imperatore con il loro odiato comandante Don Diego de Mendoza e li cacciarono dalla città. L'accordo ormai esplicito fra Carlo V e Cosimo de' Medici per sottomettere la rissosa repubblica aveva convinto il governo senese a chiedere aiuto al re di Francia Enrico II, che inviò a Siena come suoi rappresentanti prima il cardinale di Ferrara Ippolito d'Este e poi il capitano Pietro Strozzi. Questi era un fuoruscito fiorentino, che proprio con l'appoggio di Caterina de' Medici - moglie di Enrico II e nemica giurata del cugino Cosimo, signore di Firenze - fu nominato luogotenente del sovrano francese in Toscana. Anche il papa Giulio III era stato sollecitato a intervenire per aiutare la città e Giovan Battista Nini, del Monte dei Gentiluomini, aveva inviato al pontefice alcuni suoi versi rivolti ai concittadini, sempre in guerra fra loro: "O lupi pien di sete e pien di fame, / d'empi governi scellerati e bui, / ecco vostre orditure e vostre trame, / tessute sempre in devorar l'altrui. / Vostre voglie divise e vostre brame, / senza rispetto mai di chi né cui, / privan l'afflitta e misera cittade / d'onor, di nome e d'ogni sua beltade [...] Se d'un medesmo ceppo sete usciti / e d'un medesimo sangue generati / e d'un medesimo latte poi nutriti, / nella medesima patria imparentati, / dalle medesme mura circuiti, / dalle medesme leggi conservati, perché, per varietà di nomi e Monti / siete a distrugger voi sì presti e pronti?".
Già altri, e da tempo, avevano lamentato le conseguenze delle discordie interne: Lelio Tolomei, per esempio, in un'adunanza del Consiglio generale nell'ottobre 1551 si era scagliato contro "l'intendere le cose della città a Monti e a fazioni", riducendo così Siena e il suo dominio "in una povertà e debilità incredibili". "Son questi medesimi Monti e fazioni - concludeva - stati causa di una cecità pubblica infinita, che non ci ha lasciato veder mai o stimare il precipizio che avevamo innanzi a' piedi".
La lenta ma inarrestabile discesa in questo precipizio ha avuto due singolari testimoni, che ci hanno lasciato un suggestivo racconto degli ultimi anni della repubblica: il primo è Alessandro Sozzini, membro della famiglia senese che aveva dato i natali al giurista Mariano e agli "eretici" Lelio e Fausto. Autodefinitosi "homo gioviale et allegro" e scrittore più portato alla commedia che al dramma, ebbe invece la ventura di narrare, in un suo Diario, le sequenze conclusive di una storia amara, punteggiata da episodi crudeli e sanguinosi.
Anonimo, Solenne ingresso di Cosimo I in Siena, 1560. ASS, Tavolette di Biccherna 64.
Il secondo è Blaise de Monluc, il coraggioso capitano guascone nominato governatore di Siena dal sovrano francese nel luglio 1554 e preso poi a modello da Alessandro Dumas per il personaggio di D'Artagnan. Dei sette libri che compongono i suoi Commentaires - definiti da Enrico IV di Francia "la Bibbia del soldato" - il terzo e il quarto sono dedicati all'assedio subíto dai senesi, alla loro resa e alla breve esperienza della repubblica ritirata in Montalcino. Cosciente di aver a che fare con dei "cervelli bizzarri", Monluc tentò con energico rigore la difesa della città, badando al proprio onore militare, ma non riuscendo a evitare una sconfitta, dovuta soprattutto all'inadeguata struttura politica di uno Stato come quello senese nella lacerante congiuntura internazionale della metà del XVI secolo 47

Le citazioni sono tratte da Alessandro Sozzini, Diario delle cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555, in "Archivio storico italiano", II (1842), pp. 1-624 e Blaise de Monluc all'assedio di Siena e in Montalcino 1554-1557, a cura di M. Filippone, Siena, Cantagalli, 1992.

.
Appena un mese prima dell'arrivo a Siena di Monluc, il Concistoro non era riuscito, in varie sedute e non ostante diverse proposte messe in votazione, a nominare la Commissione degli Otto di guerra, un organismo indispensabile in quel frangente. "Nacque dissensione e discordia grandissima e furono resi molti e varii consigli e nessuno se ne ottenne; e molti - scrisse il Sozzini - dubitorno che questo non fusse l'ultima ruina della città di Siena".
Un altro colpo inferto alla periclitante repubblica fu la sconfitta subita dall'eterogeneo esercito guidato da Pietro Strozzi presso Marciano in Val di Chiana il 2 agosto 1554. "Fatta rassegna - racconta sempre il Sozzini - mancorno al campo francese fra morti e mandati prigione a Fiorenza circa dodicimila uomini". L'ipotesi di un tradimento da parte dell'alfiere generale francese, che fuggendo avrebbe condotto con sé quasi tutta la cavalleria, non è presa in considerazione dal Monluc, che non era presente alla battaglia perché gravemente malato; il Sozzini, invece, afferma che quell'alfiere aveva ricevuto il giorno prima dal marchese di Marignano, comandante dell'esercito imperiale, "dodici fiaschi di stagno pieni di scudi d'oro, sotto nome di trebbiano; e glieli portò un villano, chiamato Matteo Lodola, accompagnato da più soldati: il quale Matteo dopo la guerra mi confessò il tutto, perché non lo credevo".
Di fronte al Concistoro, che era stato integrato da dodici Consiglieri di Popolo, sempre tenendo conto degli equilibri di Monte, Monluc pronunciò vari discorsi, cercando d'infondere fiducia ai senesi, con la speranza di ulteriori aiuti da parte del re di Francia. In una di queste occasioni, per non apparire troppo indebolito dalla malattia che lo aveva colpito, il capitano guascone racconta di essersi lavato il viso col vino regalatogli dal cardinale d'Armagnac "finché non si colorò un po' di rosso", e commenta: "mi guardai allo specchio. Vi giuro che non mi riconoscevo [...] Non potei trattenermi dal ridere, perché mi sembrava che improvvisamente Dio mi avesse data un'altra faccia". Presa la decisione di resistere a ogni costo, i senesi ubbidirono agli ordini del Monluc abbattendo più di cento case per rinforzare le mura urbane. L'entusiasmo con cui si posero all'opera colpì il capitano francese, soprattutto impressionato dalla collaborazione offerta da "un gran numero di gentildonne". Divise in tre squadre, guidate rispettivamente da Laudomia Forteguerri, Vittoria Piccolomini e Livia Fausti, erano circa tremila donne - narra il Monluc - "sia nobili che borghesi; le loro armi erano dei picconi, delle pale, delle ceste e delle fascine [...] Avevano composto una canzone in onore della Francia, che cantavano mentre andavano al loro forte; io darei il mio miglior cavallo per averla e per trascriverla qui".
Molte altre donne però, insieme con vecchi e bambini, dovettero negli stessi giorni lasciare la città perché "bocche inutili". L'assedio, infatti, aveva ridotto al minimo le riserve di cibo; "avevano mangiato - ricorda ancora Monluc - tutti i cavalli, gli asini, i muli, i gatti e i topi che erano in città. I gatti si vendevano a tre o quattro scudi e un topo a uno scudo". Allora egli decide di espellere da Siena chi non è atto alle armi: "bisogna essere crudeli - dice ai governanti senesi, che devono preparare le liste dei prescelti - se si vuole avere la meglio sul nemico [...] Non abbiate timore di disfarvi delle bocche inutili; tappatevi le orecchie alle grida".
Eppure le "grandissime strida e lamenti" che Alessandro Sozzini udì provenire da fuori la porta Fontebranda la mattina del 6 ottobre 1554 non potevano lasciare indifferenti. Il giorno prima erano stati espulsi "circa duecentocinquanta putti dello Spedale grande, dalli sei fino alli dieci anni", accompagnati "da molti uomini e donne della città, che avevano avuto precetto di partire". "Più di mezzi" - narra il Sozzini - furono uccisi in un'imboscata mentre cercavano di allontanarsi dalla città. I superstiti tornarono allora "fuora la porta a Fontebranda (dove si fa l'anno il mercato de' porci), tutti a diacere per terra con grandissime strida e lamenti. Era la più grande compassione a veder quei putti svaligiati, feriti e percossi in terra a diacere, che avariano fatto piangere un Nerone: ed io avrei pagati venticinque scudi a non gli aver visti, ché per tre giorni non possevo mangiare né bere che prò mi facesse".
Anche Monluc appare scosso quando informa che "il numero delle bocche inutili saliva a 4400 o più persone" e che "di tutti i fatti pietosi e desolanti" che ha visto, mai ha assistito "ad uno simile a questo [...] Il padrone, infatti, doveva abbandonare il domestico che lo aveva servito per tanto tempo, la padrona l'ancella, e un gran numero di povera gente che viveva solo del lavoro delle proprie braccia [...] C'erano molte ragazze e delle belle donne. Loro passavano; infatti la notte gli spagnoli se ne prendevano alcune come ricompensa. È la legge della guerra". Ma - conclude - "Dio deve essere molto misericordioso verso di noi che facciamo tanto male".
Anche i soldati tedeschi vennero fatti uscire perché - a detta del Monluc - erano "gente che amava troppo il proprio ventre". Questo quadro così fosco viene ravvivato dal racconto che il Sozzini fa di "un bellissimo gioco di pallone" organizzato il 13 gennaio 1555 da "molti giovani senesi nella piazza maggiore. Stavano tutti quelli signori franzesi a vedere, e stupivano delle nostre pazzie; che pure il giorno avanti avevano avuta la batteria, e oggi facessero al pallone". Non contenti, "finito il gioco del pallone" - al quale aveva partecipato anche un gentiluomo spagnolo fatto prigioniero e dimostratosi molto abile - "si fece un bellissimo affronto di gioco di pugna, per il quale - commenta il Sozzini - monsignor Monluc venne in tanta allegrezza che quasi per tenerezza lacrimava, dicendo che mai aveva visto li più coraggiosi giovani di loro. Gli fu risposto da alcuni, dicendo: oh, pensate se noi meneremo le mani contro i nemici, quando ci diamo infra noi, e la sera poi stiamo tutti amici".
In realtà le divisioni dei Monti ancora pesavano assai nei rapporti fra i cittadini e su questi latenti contrasti cercò di agire il marchese di Marignano, architettando "un sistema - scrive il Monluc - per seminar zizzania fra le fazioni". Ecco allora - continua il capitano guascone - che un certo messer Pietro, "orbo di un occhio e appartenente all'ordine del Popolo, che, con quello dei Riformatori, era l'ordine del quale non ci fidavamo più", fu indotto al tradimento; fu convinto, infatti, a recapitare alcune lettere, firmate da fuorusciti senesi e molto compromettenti, ad alcuni Noveschi e Gentiluomini, due ordini "considerati sospetti" e perciò teoricamente capaci di ordire un complotto per far entrare in Siena gli assedianti. "Il marchese pensava - scrive ancora Monluc - che appena l'indiziato fosse stato arrestato, conoscendo il carattere dei senesi e il grande odio che c'era fra gli uni e gli altri, l'avrebbero condotto senz'altra formalità giudiziaria al patibolo, per cui i due ordini dei Nove e dei Gentiluomini avrebbero cominciato a discutere e a disperarsi e che poi, per salvare la loro vita, essi sarebbero stati costretti a prender le armi e a impadronirsi di un quartiere prospiciente le mura per tener di mano ai nemici, perché questi potessero entrare in città". Il traditore, però, venne smascherato e "poiché quel malvagio guercio - osserva Blaise de Monluc - apparteneva all'ordine del Popolo, che era il più numeroso e aveva il più gran numero di armati, temetti che se lo avessero fatto morire i Nove e i Gentiluomini avrebbero suscitato in città dei pettegolezzi, dicendo che ormai si sapeva bene a qual partito appartenevano i traditori, e che questo avrebbe potuto spingerli a por mano alle armi. Tutto ciò mi indusse a chiedere al Senato di concedermi la sua vita e di bandirlo in perpetuo per tacitar tutto". "Ma il tempo passava - scrive il Sozzini - il pane si consumava, né per denari se ne trovava; a tale che ciascuno stava di malissima voglia, ed io sentii da più amici miei, domandandoli come stavano, rispondere: m'è venuto a noia il vivere". Così, "vedendo che non c'era più rimedio - annota Monluc - se non quello di mangiarci a vicenda", viene trattata la resa col marchese di Marignano: i senesi rinunciano all'alleanza con la Francia, accettano il protettorato imperiale e s'impegnano a stipulare un nuovo patto d'amicizia con Firenze. Oltre mille di loro, però, guidati da alcune potenti famiglie del Monte del Popolo, preferirono abbandonare la città insieme con le truppe francesi, piuttosto che cedere all'esercito nemico. L'obbiettivo era quello di raggiungere Pietro Strozzi nella cittadella fortificata di Montalcino, poche miglia a sud di Siena, e lì far sopravvivere la libera repubblica.
Il 21 aprile 1555 i fuggiaschi giunsero alla meta "ischeletriti - scrive Monluc - e simili a cadaveri". La disperata resistenza della piccola repubblica, circondata dalle truppe spagnole e fiorentine, si concluse nel 1559 dopo la firma del trattato di Cateau-Cambrésis, che sancì il nuovo assetto politico europeo.
L'antico Stato senese fu abbandonato dalle residue truppe francesi e fu dato in feudo a Cosimo de' Medici dal re di Spagna Filippo II. In osservanza del patto di capitolazione firmato da Carlo V nell'aprile 1555, fu rispettato l'impegno di mantenere a Siena le antiche magistrature repubblicane del Capitano del Popolo, della Balìa e del Concistoro e di attribuirne le cariche attraverso l'equa divisione fra i Monti, un sistema rimasto in vigore, con qualche ritocco, fino alla metà del XVIII secolo.
Anche gli otto cittadini che il 29 ottobre 1568 furono eletti dalla Balìa a formare il Magistrato del nuovo Monte Pio furono scelti due per Monte. La pressante richiesta dei senesi per la ripresa dell'attività del benefico istituto era stata, infatti, finalmente esaudita. Già sette anni prima, in un memoriale presentato a Cosimo de' Medici, oltre a chiedere di "riempire la città e Stato di Siena di monete nuove, dacché le senesi erano ne la zeccha di Firenze e non se ne battevano e se ne pativa", si raccomandava "l'ordinatione del Monte de la pietà per sovvenzione dei poveri" 48

ASS, Balìa 171 (genn. 1561).

.
A questa seguirono altre suppliche dello stesso tenore, mentre continuava a funzionare un Banco di prestito pubblico gestito dagli ebrei, che - secondo accordi precedentemente presi - doveva durare fino al 1573.

5. Il secondo Monte

Il 14 ottobre 1568 il duca scriveva al governatore di Siena, allegando una "istruzione" per regolare il Monte di Pietà, che doveva avere capitoli "conformi a' capitoli del Monte della Pietà di Firenze", emanati il 15 aprile 1496. A Firenze era stato pertanto inviato il codicetto del primo statuto del Monte senese del 1472, finito poi nella Biblioteca Magliabechiana, da questa nell'Archivio fiorentino delle Riformazioni e infine - ma solo nel 1890 - riportato nell'Archivio di Stato di Siena per interessamento di Gaetano Milanesi.
Se alla Balìa spettava nominare gli otto "Officiali" del Monte Pio, il duca si riservò la scelta del massaro, ossia del custode dei pegni, e del camarlengo, cioè del cassiere. A quest'ultimo dovevano essere trasmessi, per formare la base finanziaria dell'istituto, tutti "li denari [...] di avanzi di comunità, di opere et fraternità di fuori", da rimborsare alla pari alla fine del primo triennio, eccetto l'Opera Metropolitana e il Tribunale di Mercanzia, che dovevano avere un frutto annuo del 5%, come i privati che avessero fatto depositi 49

AMPio 1, c. 2.

.
"Tutte le persone particolari che vi metteranno denari - specifica infatti il testo dell''istruzione' ducale, istituendo un sistema di conti correnti - hanno a esser fatti creditori, et haver d'utili cinque per cento a capo d'anno, et a ogni lor richiesta et volontà si possino liberamente valere di tutto o parte del loro credito e delli utili". Il documento si chiude con l'accenno alla sede del rinnovato Monte: "La casa dove deve risedere il massaro con tutti i pegni Sua Eccellenza Illustrissima se ne rapporterà alla deliberatione della Balìa, la quale la piglino dove giudicaranno più comoda a tale esercitio, partecipando questo nondimeno col governatore et con suo consenso, et bisognando murare et assettare stanze per decto Monte, si possa fare a spese del detto Monte" 50

Ivi,c.3.

.
La commissione nominata all'uopo dalla Balìa, formata da otto cittadini - sempre due per Monte - decise di mantenere l'istituto dove era nato, cioè nella "casa della Dogana", allora abitata, insieme con i figli, da Monna Degna, vedova di Salimbene Salimbeni, speziale e omonimo discendente del famoso mercante del XIII secolo, che aveva sovvenzionato la spedizione dei senesi a Montaperti.
Raggiunto l'accordo con Monna Degna perché lasciasse la casa entro breve tempo, furono effettuati alcuni lavori per adattare i locali alla loro nuova destinazione e finalmente, il primo agosto 1569, con un solenne cerimoniale, il secondo Monte di Pietà fu inaugurato alla presenza del governatore di Siena don Federigo di Montauto. Dopo una messa in duomo e un'altra benedizione con relativo canto del Te Deum da parte del parroco della vicina chiesa di San Donato nella stessa sede del Monte, fu accolto al banco il governatore, che per primo vi pose una collana come pegno, ricevendo in prestito 25 lire, subito distribuite ai musici presenti.
Tutti gli Ufficiali e Ministri giurarono poi nelle mani di un notaio di "bene e fedelmente amministrare"; deliberarono quindi un compenso per il sacerdote e per i trombetti e tamburini intervenuti alla cerimonia e fissarono per il giovedì mattina l'ordinaria riunione settimanale.
Nella prima di queste adunanze accettarono il versamento di 300 fiorini da parte di Olivieri, un profumiere che aveva già depositato tale somma nel banco dei Ballati e che ora, usufruendo dell'utile consentito, volle trasferirla nel Monte Pio con vincolo dotale a favore di due sue figlie.
La seconda adunanza è da ricordare per la decisione presa di decorare la sede con l'immagine "della pietà e con altre devote figure". Il lavoro fu affidato a un discepolo del Sodoma - Lorenzo Rustici - che dipinse un Cristo nudo risorgente dal sepolcro. Allo stesso pittore, soprannominato nell'Accademia dei Rozzi "il Cirloso", cioè il buontempone, era stato commissionato subito dopo la caduta della repubblica senese uno stemma dei Medici, dove applicò le sei palle che ornano l'interno con altrettanti ganci; chiestogli il perché di una tale soluzione, rispose che così potevano essere facilmente staccate e messe in terra se fosse cambiata la situazione. Per questo scherzo fu punito con alcuni giorni di prigione, ma non perse tuttavia - come narrano le cronache - il gusto di organizzare burle.
Poco da scherzare c'era, invece, per gli Ufficiali del Monte Pio, che di lì a qualche mese si trovarono a dover rifiutare richieste di prestito per mancanza di capitale disponibile. Decisero allora di inviare uno di loro a Firenze per presentare al duca un memoriale, dove si diceva che "era stato tanto grande il concorso de li pover'huomini, così per la strettezza dei tempi attuali, come per quella di quelli passati, che le prestanze fatte fino allora avevano esausta la maggior parte" delle risorse dell'istituto. "Così - continuava il memoriale - astretti dalla necessità, i bisognosi tornano hoggi più che mai a gettarsi nelle ingordissime fauci dell'hebreo con gravissimo pregiudizio loro". Si notava poi che era andata delusa la speranza dei depositi, che avrebbero dovuto dare "augumento e maggior polso al Monte", e ciò non solo "per la povertà della città", ma forse anche perché "ognuno vuol vedere come le cose s'indirizzano prima che s'induca a cometer sua sustantia in mano altrui" 51

AMPio 171, n. 5.

. C'era, insomma, un bisogno immediato di dieci o dodicimila scudi. Il duca rispose che si facesse riferimento agli "ordini del Monte di Firenze", cioè in pratica lasciò inevasa la richiesta, fidando nei due nobili fiorentini da lui stesso nominati: uno, il Depositario, responsabile delle pubbliche finanze a Siena; l'altro, il camarlengo del Monte Pio, della cassa dell'istituto. Questi, Aldieri Della Casa, avrebbe dovuto presentare, prima di cominciare il suo ufficio, mallevadori per 4000 fiorini d'oro, secondo quanto stabiliva lo statuto, ma non ostante le sollecitazioni degli Ufficiali senesi, tardava a regolarizzare la sua posizione 52

Lo stampatore Luca Bonetti dedicò nel 1571 "al molto magnifico et Signor mio osservandissimo Aldieri Della Casa" l'edizione di Alcune lettere amorose. Una dell'Arsiccio Intronato in proverbi, l'altre di M.Alessandro Marzi Cirloso Intronato con le risposte, e con alcuni sonetti. L'opera ebbe poi altre cinque edizioni fino al 1618 ed è nota per il seguito di 365 proverbi e modi di dire con cui il senese Antonio Vignali detto l'Arsiccio si rivolge alla patria, che lo aveva costretto all'esilio. Nella dedica si ricordano "le belle e rare qualità" del Della Casa,"che a tutta questa città lo fanno amabile" (Alcune lettere cit., a cura di M. D[e] G[regorio], Siena, Accademia Senese degli Intronati - Betti Ed., 2007).

. Cominciarono poi ad essere falsificate alcune "polizze", cioè le ricevute dei pegni: un certo Sallustio, calzolaio, nel febbraio 1569 era tornato al Monte per riprendere un piccolo gioiello impegnato il mese precedente con una polizza corretta da 16 a 15 lire. Scoperto, dopo la confessione fu condannato, oltre alla restituzione della lira estorta, alla gogna nella piazza del Campo, con un cartello attaccato al collo, dove era scritto "Per havere fatta fraude al Monte di pietà". Assai peggio toccò, fra i tanti colpevoli delle piccole frodi perpetrate ai danni del Monte, a due donne, di cui una era addirittura bambina di dieci anni. Accusate di avere falsificato la cedola del pegno, anche se si poteva presumere che non sapessero leggere né scrivere, furono imprigionate e la più grande fu sottoposta alla tortura della fune perché confessasse. Caterina, come si chiamava la donna, respinse l'accusa; fu chiamato allora a rispondere della falsificazione della cedola il padre della bambina, un muratore fiorentino, che - una volta spogliato per essere attaccato alla fune - "fu visto essere stroppiato del braccio manco e giudicato inabile e impotente a ricevere tormento senza pericolo della vita sua" 53

AMPio 171, n. 29.

.
Bottega di Sano di Pietro, Breviario francescano, particolare. BCS,ms.X IV 2.
A un certo punto, per evitare le troppo facili falsificazioni e i conseguenti processi, si decise che, nella cedola da consegnare ai pignoranti, gli Ufficiali del Monte scrivessero la cifra "compitata et non in abaco", ovvero in lettere e non in numeri.
Cominciarono anche le vendite all'asta dei pegni non riscattati nel tempo dovuto e si svolsero nel Campo alla presenza di tutti i Ministri del Monte, che il 3 novembre 1570 proposero al Governatore di aumentare il tetto massimo della somma da prestare fino a 200 lire; essendo, infatti, aumentati i depositi da parte dell'Ospedale Santa Maria della Scala, dell'Opera del Duomo e di molti privati, la cassa del Monte Pio rischiava un sopravanzo infruttifero. La richiesta però non fu accolta, limitando così le funzioni del Monte, che ormai dimostrava chiaramente una sua vocazione come banca di sconto.
Le buone condizioni di bilancio non furono tuttavia sufficienti quando il Monte fu costretto ad affrontare un'ancor più vasta clientela dopo la decisione governativa di chiudere i banchi degli ebrei. Sul finire del 1571, infatti, come era successo a Firenze, anche a Siena fu revocata ogni concessione per la "setta ebrea" di prestare a usura e furono presi alcuni provvedimenti come preludio alla sua reclusione nel ghetto.
Federigo Joni, copertina del III volume de Il Monte di Narciso Mengozzi,Siena, 1892. AMPaschi, Mostra.
Il Magistrato del Monte chiese e ottenne allora 3000 scudi in prestito dal Monte Pio di Firenze per un anno e a un certo tasso d'interesse, mentre la Balìa propose di riservare agli ebrei "la strada del Fondaco di Sant'Antonio di Fonteblanda" 54

ASS, Balía 178 (7 mar. 1571). Cfr. Patrizia Turrini, La comunità ebraica di Siena. I documenti dell'Archivio di Stato dal Medioevo alla Restaurazione, prefazione di M.Ascheri, Siena, Pascal Ed., 2008, pp. 23-32 e la ricca bibliografia ivi citata.

.
Fu scelto invece "il ristretto di San Martino", tra la via del Porrione e la via di Salicotto, dove gli ebrei dal 1573 furono obbligati a risiedere e a restare chiusi di notte; tutti dovevano portare un "segno giallo" e ogni maschio maggiore di quindici anni doveva pagare una tassa annuale di due scudi d'oro. I pochi privilegi concessi a qualche membro della comunità israelitica particolarmente ricco presto si limitarono alla possibilità di monopolizzare il commercio di alcune merci, come l'acquavite o il tabacco.
Fino al 1543 agli ebrei non era neppure permesso di frequentare lo Studio senese; in quell'anno papa Paolo III concesse a uno di loro di laurearsi in medicina e da allora fino alla fine del XVII secolo, sempre con uno speciale provvedimento papale, furono solo undici gli ebrei laureati in medicina a Siena 55

Israel Zoller, I medici ebrei laureati a Siena negli anni 1543-1695, in "La Rivista israelitica", X (1913-1915), pp. 60-70 e 100-110.

. Quando nel 1575 un visitatore apostolico - il vescovo di Perugia Francesco Bossi - fu inviato a Siena per garantire che anche lì fossero applicati i decreti tridentini, il severo prelato osservò che il rispetto della regola secondo la quale il medico doveva, a volte, consigliare ai pazienti di chiamare il prete, non era garantito con un dottore ebreo. Per difendere il diritto di questo di esercitare la professione, il governatore Montauto dovette - secondo quanto egli scrisse al granduca - fare "tanto rumore e bravata" col Bossi, che, da rigido interprete del dettato tridentino, non intendeva sentire ragioni, minacciando addirittura la scomunica per i rappresentanti di quegli enti cittadini che gli avessero negato la possibilità di controllare i loro libri contabili. Fra questi enti, oltre l'Ospedale Santa Maria della Scala e l'Opera Metropolitana, c'era anche il Monte di Pietà 56

Cfr. Giuliano Catoni, Contrasti giurisdizionali e compromessi politici per una visita post-tridentina a Siena, in La nascita della Toscana. Dal Convegno di studi per il IV centenario della morte di Cosimo I de' Medici, Firenze, Olschki, 1980, pp. 217-221.

. Il Montauto reagì, come al solito, con decisione: per l'appunto il granduca, all'annuncio delle visite apostoliche in Toscana, aveva ordinato non solo ai suoi rappresentanti, ma anche ai vescovi delle visitande diocesi, di cooperare col visitatore perché potesse svolgere il suo compito "nella sfera spirituale". Al governatore di Siena, in particolare, egli aveva specificato che si poteva lasciar visitare al Bossi i luoghi pii e controllare gli statuti delle confraternite laicali per rilevarvi errori di dottrina, ma che non si doveva permettergli di vedere i libri d'amministrazione di ospedali, confraternite e Monte di Pietà.
Federigo Joni, piatto posteriore della copertina del III volume de Il Monte di Narciso Mengozzi, Siena, 1892. AMPaschi, Mostra.
Gregorio XIII nelle sue istruzioni ai visitatori, emanate qualche tempo dopo, diceva esattamente il contrario, ma in un primo momento i Medici non ritennero opportuno affrontare apertamente la questione, fidando nella discrezione degli stessi visitatori e nell'assoluta fedeltà dell'alto clero locale, più attento di regola agli ordini fiorentini che a quelli romani. Sotto questo profilo Siena era una delle città più sicure, con un vescovo - Francesco Bandini Piccolomini - che dimorava stabilmente a Roma e che era sostituito nel governo della diocesi da un coadiutore - Alessandro Piccolomini - nominato a tale incarico per agnazione e preoccupato solo di non dispiacere al granduca. Appena saputo della visita, Alessandro, un letterato umanista del tutto avulso dalla realtà che assillava la Chiesa in quel momento, iniziò un carteggio col granduca per farsi consigliare sul comportamento da tenere col Bossi, cioè, in pratica, per farsi suggerire il modo migliore per boicottarlo.
Il Bossi però era un osso duro e tentò di far stampare segretamente i decreti di riforma per la diocesi senese, dove - fra l'altro - si insisteva sul vincolo del controllo ecclesiastico per l'amministrazione dei luoghi pii. Montauto riuscì a sventare il tentativo del Bossi e cercò di dimostrare il "patronato regio" sui luoghi pii senesi, al fine di costringere il visitatore a chiedere, secondo quanto stabilivano i decreti tridentini in questo caso, il necessario consenso all'autorità laica per effettuare la visita. C'era infatti un'istituzione che stava molto a cuore al governo fiorentino, cioè quel Monte di Pietà che, rinnovato nel 1568, utilizzava a favore della comunità senese tutti quei capitali, che altri enti cittadini e in particolare i luoghi pii in questione gli affidavano in deposito fruttifero con lo scopo di fare prestiti su pegno dietro pagamento di un tenue interesse. Purtroppo mancavano però documenti che comprovassero la specifica dipendenza dei luoghi pii dall'antico Comune di Siena; né, d'altra parte, Bossi riuscì a dimostrare il contrario.
Il rappresentante dei Medici cercò allora rifugio nell'argomento della consuetudine, mentre da Roma il cardinal Maffei, capo della Congregazione delle Visite, insisteva perché Bossi applicasse le pene previste contro i camarlenghi e gli altri ufficiali che non adempivano all'obbligo di presentare i conti al visitatore. L'impasse fu superata grazie all'abilità diplomatica del cardinal Ferdinando, fratello del granduca, che riuscì a ottenere l'allontanamento del Bossi da Siena e la sua sostituzione con Giovanbattista Castelli, vescovo di Rimini, in quel momento visitatore apostolico a Pisa.
Il compromesso raggiunto a Roma consisteva nel permettere al nuovo visitatore di vedere i libri contabili dell'Opera Metropolitana e degli ospedali, senza che su di essi operasse un vero e proprio controllo. Castelli, venuto a Siena nel marzo 1576, vi rimase tre settimane e completò la visita iniziata dal Bossi, senza tuttavia poter vedere i conti del Monte di Pietà. Tornato a Pisa, si mostrò ancor più intransigente del suo predecessore sui luoghi pii e sulla clausura nei monasteri. Nei decreti da lui emanati si ordina, infatti, che l'Operaio della Metropolitana non depositi i fondi residui nel Monte di Pietà, ma li distribuisca a beneficio della Metropolitana stessa e si condanna come usura il pagamento degli interessi sui depositi dell'Opera nel Monte.
Il pericolo che l'attuazione di questi decreti mettesse definitivamente in crisi l'esclusiva giurisdizione medicea sui luoghi pii della Toscana fu scongiurato con la promessa, da parte della Curia, che i decreti finali sarebbero stati redatti a Roma, tenendo presenti le volontà dei Medici. Il successo diplomatico del cardinal Ferdinando fu completato poi con la nomina di Achille Sergardi, un prelato fedelissimo al granduca, quale responsabile dell'applicazione dei decreti a Siena, dove peraltro mai furono pubblicati quelli del Castelli.
Al Monte Pio intanto il Magistrato si lamentava del disordine in cui il camarlengo Aldieri Della Casa teneva i conti e anche del denaro che rimaneva infruttifero in cassa; a tal proposito gli Ufficiali del Monte suggerirono al governo di poter "prestare somme su cedole", cioè su generiche proposte di negozi. La richiesta fu respinta e fu invece ordinato di fare prestiti agli allevatori di bestiame della Maremma, soprattutto per l'incremento della razza suina.
Nelle "Ordinazioni sopra la Dogana et Bandite et altro della Maremma et Stato di Siena", emanate l'8 maggio 1574, fra gli altri provvedimenti si legge: "Li molto magnifici Signori Deputati da Sua Altezza Serenissima sopra il negozio del bestiame dello Stato di Firenze et di Siena: avendo conosciuto per l'esperienza di alcuni anni decorsi, et per li avvertimenti e doglianze hautone da più gentiluomini senesi et da alcuni mandati dalle città, terre e castella dello Stato, e da buon numero di capi-vergari di diversi luoghi del dominio fiorentino e senese, quanto sieno andate declinando e diminuendo da qualche anno in qua l'imprese de' bestiami d'ogni sorte e quanto maggiormente sarebbero per diminuire nell'avvenire se non vi si provvedesse con presti et convenienti rimedi", ordinano che "debbiasi per il Monte di pietà di Siena e suoi ministri prestare a ciascuno che fiderà in quella Dogana, et che vorrà accattare a ragione di scudi due di lire sette per scudo per ciascuna troja da tenersi per rendergli subbito finite le locationi et condotte, et con pigliare idonee sicurtà per li capitali et per li utili". I padroni e garzoni dediti a quell'industria dovevano inoltre essere esenti da tasse ed era proibito il taglio o la distruzione di piante ghiandifere 57

ASS, Balìa 179 (8 mag. 1574).

.
L'incarico di fare prestiti per l'incremento della razza e dell'industria suina non fu particolarmente gradito agli ufficiali del Monte Pio, che dopo aver cercato di evitare tale responsabilità ricevettero dal granduca la seguente lettera: "Si come si è fatto intendere più volte al governatore, così ora rispondiamo a voi che la cura del approvare i mallevadori delle preste delle troje ha da essere vostra et non di altri, perché di voi soli vogliamo poterci lodare o dolere, secondo che conosceremo andarsi facendo da voi; si che pigliatevi questa cura senza altra replica, et quanto alle cose del Monte non occorre che vi pigliate pensiero di quello che vi si fece intendere, ma attendiate con ogni diligentia a fare osservare da ciascuno li ordini di esso. State sani" 58

AMPio 171, n. 33.

.
L'incentivo all'allevamento dei suini, se da una parte favorì lo sviluppo della pastorizia, dall'altra svantaggiò la coltura dei cereali, lasciando a pascolo buona parte del territorio maremmano, poco popolato e insalubre, anche per le acque stagnanti del Lago di Castiglione, concesse in affitto per la pesca.
Aldieri Della Casaa, come camarlengo del Monte Pio, funzionava anche come Soprintendente della Maremma, gestendo il suo ufficio con molta disinvoltura; d'altra parte anche i mutuatari per l'industria dei suini spesso non rispettavano l'impegno di pagare gl'interessi. Si giunse così nel 1576 alla necessità di un nuovo prestito di 4000 scudi fatto dal Monte Pio di Firenze a quello di Siena, che per iniziativa dei nuovi Ufficiali, insediati per il III Magistrato nel gennaio di quell'anno, commissionarono al pittore Arcangelo Salimbeni una Pietà nella loro sala di riunione. Questo secondo dipinto dopo quello del Rustici, oltre a ornare l'ufficio, serviva forse a dimostrare una sincera fede e a rendere così meno pressante la vigilanza di gesuiti e conventuali investiti del potere inquisitoriale, ai quali il granduca era stato costretto a inviare un messaggio di questo tenore: "Nei nostri Stati non vogliamo altri padroni che noi, né che alcuno pretenda di legare i nostri vassalli senza noi, sicché nel medesimo modo che avete tenuto in creare cotesta compagnia, la farete dissolvere, non avendo noi bisogno di compagni per perseguitare i tristi" 59

Riguccio Galluzzi, Storia del Granducato di Toscana, IV, Firenze, Marchini, p. 283.

.
In questa categoria di tristi da perseguitare finì anche il fiorentino Della Casa, camarlengo del Monte Pio nominato a suo tempo dallo stesso duca; sollecitato, infatti, a presentare i conti della sua gestione se ne partì da Siena senza alcuna spiegazione, proprio mentre negli stessi giorni Carlo Pitti, camarlengo del Monte Pio di Firenze, si lamentava col governatore di Siena perché ancora non erano stati pagati gli interessi del prestito concesso al Monte senese.
Il Magistrato di questo chiese e ottenne di recuperare tutti i libri contabili che si trovavano nell'abitazione di Aldieri Della Casa prima che potessero essere trafugati e, dopo un sommario controllo, il 22 luglio 1576 scrisse al granduca una lettera, in cui annunciava la fuga di Aldieri e la grande "alteratione di scritture" nei libri dei conti, iniziata fin dal primo bilancio; si comunicava anche che Pandolfo Accarigi , cassiere fiduciario del Della Casa, era stato arrestato per ordine del governatore.
Inviato a Siena Tommaso de' MediciTommaso de' Medici per controllare l'incresciosa situazione, fu deciso di intimare ai mallevadori di Aldieri di pagare l'ingente debito da lui lasciato; così, nell'agosto 1578, il senese Jacopo Federighi e i fiorentini Quirino Della Casa, Benedetto Rosini, Bernardo e Benedetto Macchiavelli furono condannati a pagare entro dieci giorni i debiti lasciati dal camarlengo, di cui erano stati fatti garanti. Tra l'altro, fra loro c'erano due membri della casata Macchiavelli, coinvolta, insieme con quelle dei Ridolfi, dei Pucci, degli Alemanni e dei Capponi, in una congiura ordita nel 1575 contro il granduca, che reagì condannando alla miseria e all'infamia anche i figli in tenera età dei congiurati.
Lo sconcerto provocato dal furto e dalla conseguente fuga del Della Casa suscitò una naturale diffidenza negli Ufficiali del IV Magistrato del Monte Pio, che dovevano stare in carica dall'agosto 1578 al luglio 1581; fatto l'inventario dei pegni, ci si accorse subito che un famiglio del Monte - Pietro Buonvisi - ne aveva presi molti, impegnandoli di nuovo a suo nome. Vedendosi scoperto, anche lui era fuggito e c'era andato di mezzo il suo mallevadore.
Al posto del camarlengo infedele, il granduca nominò un senese, Lorenzo Griffoli, e gli ordinò - fra l'altro - di non pagare "denari di troie né restituire depositi senza far scrivere tutte le partite da quelli alli quali pagherà o restituirà denari per dette cause, o da altri per loro non sapendo scrivere, [...] altrimenti tali partite non soscritte non provino, né se li presti fede alcuna" 60

AMPio 171, n. 94.

.
Nella corte del Capitano di giustizia si celebrava intanto il processo contro Aldieri Della Casa; risultava che "in diversi tempi aveva commesso nel administratione [...] molte e diverse tristizie, falsità, inganni e robberie [...], assentandosi furtivamente di Siena e portando via e convertendo in uso proprio notabile quantità di denari appartenenti al detto Monte Pio, alla detta Depositeria e Gran Camera et a particolari persone" 61

ASS, Esecutore e Capitano di giustizia 645, c. 657.

.
Per questo fu condannato a morte in contumacia, alla confisca di tutti i suoi beni e al risarcimento di tutti i danni e interessi.
Anche a Pandolfo Accarigi, cassiere fiduciario del Della Casa, già incarcerato, furono sequestrati i beni; gli fu concesso, però, dietro sua richiesta, di uscire dal carcere di giorno e di tornarvi ogni notte, almeno finché non fossero stati controllati tutti i suoi conti. Un'altra concessione particolare fu fatta nell'ottobre 1578 all'ultimo dei prestatori ebrei pubblicamente riconosciuto. Il ricchissimo Simone di Laudadio aveva lasciato Siena con la sua numerosa famiglia non volendo chiudersi nel ghetto. La sua partenza aveva però creato un vuoto nel giro d'affari della città; così - fattane richiesta - gli fu permesso di abitare fuori dal ghetto, di "tenere una bottegha fuora del luogo deputato" e di "portare la berretta nera rispetto al travagliare con gli altri mercanti", a patto di non esagerare "con dare a usura" 62

ASS, Balìa 181 (13 ott. 1578).

.
Anche a un ebreo fattosi cristiano insieme con le due sue figlie e che da Jsaac detto Grillo era divenuto Aurelio, fu dilazionato il pagamento di un debito contratto col Monte Pio dopo la relativa supplica presentata per lui dal frate agostiniano che l'aveva condotto "alla vera fede di Christo".
Verbale dell'insediamento del Magistrato del Monte, 29 luglio 1569.AMPio 29, c. 1.
Nessuna compassione si ebbe invece per un certo Emilio, un calzolaio accusato di aver alterato la polizza del pegno di un lenzuolo da due a venti lire. Scoperta la truffa mentre era ricoverato in ospedale, appena uscito non gli fu concesso di riunirsi alla moglie e ai tre figli che piangevano miseria; fu incarcerato e sottoposto alla tortura della fune perché confessasse il delitto commesso.
Libro degli Spedali, frontespizio, 1516-53. Archivio della Società di Esecutori di Pie Disposizioni di Siena, ms.A 141
Dopo aver insistito di non essere "avvezzo a fare simili furfanterie", dichiarò che aveva ricevuto dal Monte solo due lire, precisando anche come le aveva usate: "Io ne comprai la prima cosa una piccia di pane, che la mia famiglia era stata da una sera e l'altra senza pane, che costò dodici soldi, e poi comprai una coppia d'ova che costò una bajella, e per quel giorno non comprai altro, et il resto lo serbai per l'altro giorno, che ne comprai un'altra piccia che mi costò otto soldi, e del resto ne comprai tanto pane" 63

AMPio 171, n. 401 (luglio 1580).

.
Quelli del povero calzolaio erano lamenti assai diffusi nella Toscana del tempo, penalizzata da annate di scarsi raccolti e da un'epidemia influenzale, detta "mal della pecora", che causò una grande mortalità. Da luglio a ottobre 1580 morirono a Siena, su circa ventimila abitanti, 866 persone, fra cui 456 bambini. Fu deciso allora di aprire un Monte di Pietà anche a Montalcino e di assegnare a quello senese il servizio di cassa dell'Ufficio dell'Abbondanza, prima tenuto dal Banco dei Ballati. L'Abbondanza era la magistratura che, nella prima metà del XIV secolo, aveva ereditato i compiti assegnati un secolo prima ai Domini mugnaiorum; doveva regolare la circolazione delle merci e garantire l'approvvigionamento alimentare 64

Archivio di Stato di Siena, Guida-inventario dell'Archivio di Stato, I, Roma, Ministero dell'Interno, 1951, p. 232.

.
Con l'inizio del V Magistrato nel 1581 fu dato anche nuovo impulso ai prestiti agli allevatori di suini. "Quanto alla Maremma, capo principalissimo di questo Stato - scriveva la Balìa al granduca - si dica [...] che alli faccendieri si accomodassero denari del Monte Pio di Siena, aiutato dal Monte Pio di Firenze con li soliti utili e con buonissime sicurtà"; e Allegretto Tolomei faceva poi osservare nella stessa supplica, "che il mancamento degli uomini della Maremma è venuto perché se ne sono partiti da sei o sette mila persone, quali sono andati ad abitare nelli Stati convicini; e questo perché sono stati condennati per cause criminali ancor leggere, et atteso il bando non possono ricorrire se non depositano il doppio della pena, e non danno promesse; e non si possono concordare con i tempi. E se fusseno rimessi nel buondì e si potessero comporre, o gli fusse commutata la pena, ne ritornerebbero assai" 65

ASS, Balìa 183 (12 feb. 1582).

.
Infine, la Balìa senese chiedeva l'apertura della "tratta dei grani", cioè il libero commercio nell'interesse dei produttori e nel conseguente sviluppo dell'agricoltura maremmana. Il granduca Francesco, però, rispose che non era "conveniente dare ai forestieri per fare morire di fame i suoi vassalli" e con questa meschina giustificazione respinse la richiesta.
Più tardi rifiutò anche il permesso al Monte Pio di accettare depositi e di prestare somme fino a 150 scudi per un anno a ragione del sei per cento, mentre si preoccupò di porre un limite al consumo di dolci nei pranzi di nozze 66

Ivi,c.149 (14 genn. 1583).

! Negò poi al Monte, preoccupato del dilagante accattonaggio, il permesso di dare ogni sabato uno scudo ai poveri della città e di usare monete forestiere, che dovevano essere portate alla Zecca per essere fuse e poi convertite in moneta corrente, con notevole guadagno della Camera granducale.
Tutto preso dall'amore per la bella veneziana Bianca Cappello, Francesco de' Medici non dimostrò alcuna compassione per altri due responsabili di ammanchi nella cassa del Monte Pio. Il cassiere Vittorio Griffoli e lo 'scrittore' Marcantonio Turi avevano falsificato 193 polizze, ricavandone circa duemila lire. Scoperti e sottoposti a tortura, il Magistrato del Monte decise che rifondessero il danno in misura del doppio e che venissero puniti con un'ulteriore multa, ma il granduca, affidata la causa al Capitano di giustizia, approvò la sentenza di morte da quello emanata.
Un altro drammatico fatto, in cui appare il Monte Pio, avvenne poco dopo l'inizio del VI Magistrato dell'istituto il 7 ottobre 1587: il camarlengo Pomponio de Vecchi uccise con tredici pugnalate la moglie Beatrice Sergardi tre giorni dopo che aveva partorito una bambina. Fuggito da Siena, fu condannato a morte in contumacia e alla confisca dei beni e al suo posto fu nominato Lelio Borghesi. A distanza di pochi giorni, il 19 ottobre, nella villa di Poggio a Caiano, morirono il granduca e Bianca Cappello. Ovviamente il simultaneo decesso alimentò molte maligne dicerie, che sfiorarono anche colui destinato a succedere a Francesco: il cardinale Ferdinando de' Medici, spesso critico circa la condotta del fratello. Una volta "scardinalato", il nuovo granduca affrontò con più deciso piglio i problemi del governo, avviando a Siena una riforma del Monte Pio e permettendo subito allo stesso Monte di concedere prestiti con particolari agevolazioni a chi avesse preso in affitto terreni per la semina.
Scheda Tematica
L'affresco di Benvenuto di Giovanni

Sotto il manto della Madonna

A celebrare il decennale della fondazione del Monte Pio fu commissionato al giovane e geniale Benvenuto di Giovanni del Guasta l'affresco della Madonna della Misericordia, oggi collocato nello studio del Presidente in palazzo Salimbeni. Era la prima di una serie di opere d'arte commissionate dall'istituto.
Non era infrequente l'usanza di solennizzare una data legandola a un'opera d'arte, e a Siena era un piacevole obbligo. L'arte era incaricata di dare risalto a un avvenimento, di consacrare un atto amministrativo togliendolo dalla catena dei giorni uguali e facendone qualcosa di memorabile. L'arte glorificava, e non provava difficoltà a certificare. Nella sala del Mappamondo a Palazzo Pubblico si facevano affrescare i castelli che presidiavano le terre via via annesse al territorio della Repubblica. Le copertine lignee dei codici nei quali si registravano i conti della pubblica finanza erano decorate dai più bei nomi delle operose botteghe senesi. È stata invocata, per capire questo primato assegnato all'estetica, una sorta di morbosa ossessione. Quasi che il potere, per farsi accettare, avvertisse la necessità di andar oltre compiti di gestione doverosa e ritenesse essenziale annettere il senso ultimo di un'acquisizione, di una conquista, di una fondazione degna di futuro a un'immagine che oltrepassasse il circuito delle occasioni quotidiane. La decisione di scegliere Benvenuto di Giovanni quale esecutore dell'affresco che avrebbe dovuto esaltare il valore di un atto finalmente compiuto nell'interesse generale della comunità rivela una committenza tutt'altro che sprovveduta. Benvenuto, allievo tra i più famosi del Vecchietta, era un giovane geniale. Nato nel 1436, aveva destato ammirazione fin dagli esordi, fin da quando aveva collaborato col maestro per gli affreschi del Battistero. Abitava in Rialto. Partecipò anche alla vita pubblica come capitano della compagnia militare di San Giusto e poi come capitano del borgo di Santa Maria. Avrebbe immaginato una misericordiosa Madonna che apre il suo manto protettivo su quanti ricorrevano ai prestiti del Monte Pio creato da appena dieci anni.
Benvenuto di Giovanni, Madonna della Misericordia, 1481 (al centro).
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
L'affresco, ora strappato e collocato nella sala della Torre, giusto nell'ufficio del Presidente, ebbe una funzione commemorativa: non coevo alla nascita della soccorrevole sede, né intonato all'iconografia consueta, a evidenziare il saldo rapporto con un Comune che ci teneva a onorare la Madonna quale presenza rassicurante e continua. Non tutti hanno accettato la tesi di Enrico Guidoni, il quale ritiene che "la sagoma piana del Campo fosse immagine del manto della Vergine protettrice della città": e quindi s'aprirebbe ai piedi del Palazzo Pubblico quale "simbolo iconico" d'una coltivata fede civica. L'atipica piazza senese non scaturì da un progetto firmato e provvisto di calcoli a tavolino: crebbe poco per volta, con quei moti di vivente organismo che le hanno per sempre conferito una festosa irregolarità naturale. Fatto è che anche il Monte Pio collocava il suo battesimo sotto la celestiale benevolenza di una Vergine comprensiva verso gente bisognosa di aiuti e augurabilmente attenta a tenerla al riparo dalle impreviste tempeste e dai ricorrenti sconvolgimenti.
Siena, palazzo Salimbeni, studio del Presidente.
L'affresco fu, dunque, commissionato a Benvenuto per commemorare il decennale dell'istituzione del Monte, come chiarisce l'inscrizione in basso: "ad montis institutionis memoriam a. d. mcdlxxii". Inquadrata da una cornice architettonica di evidentissima ispirazione classica, dipinta a trompe-l'oeil, l'immagine è costruita secondo un principio di rigorosa simmetria, con la Vergine che si erge al centro a spartire esattamente i gruppi di oranti genuflessi. Il manto azzurro, delicatamente sorretto dagli angeli, separa il mondo terrestre da quello celeste. Il soggetto, assai diffuso a Siena dalla fine del Duecento, allude ai compiti e alle finalità dell'Istituto, non concentrate tanto sulla caritatevole elargizione ai poveri, quanto sulla concessione di finanziamenti e prestiti a interesse ai cittadini. Con la scelta di porsi sotto il manto della Madonna - invece che di fronte alla figura del Cristo in pietà che risorge dal sepolcro, tradizionalmente assai più consona in questi casi e tipico della linea francescana - si intendeva di certo ribadire il carattere "pubblico" dell'Istituto, sovvenzionato e promosso direttamente anche dal Comune. Il modesto stato di conservazione non permette oggi di apprezzare la qualità della pittura di Benvenuto, a questa data nel pieno della sua maturità, "forse - a parere di Alessandro Angelini - l'artista più aperto e vivace dell'ambiente senese", capace di dosare con sapiente misura gli insegnamenti del Vecchietta, i raggiungimenti di Francesco di Giorgio, le inflessioni stilistiche di Liberale da Verona e rielaborare allo stesso tempo influssi della pittura fiorentina. Certi indugi su capricciosi dettagli sembrano paralleli a esiti di Carlo Crivelli. Le cadute di colore e l'impoverimento diffuso della superficie pittorica hanno appiattito le tinte e reso le fisionomie e le pieghe dei panni monotone, prive di quel carattere e di quella freschezza che posseggono le coeve opere di Benvenuto come il trittico della National Gallery di Londra, la cui Madonna - ha fatto notare Luciano Cateni - è talmente vicina a quella del Monte "da far pensare che le due immagini siano state realizzate utilizzando lo stesso cartone".
Bernardino Fungai, Sant'Antonio da Padova e Santa Maria Maddalena, 1510-15 ca.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Bernardino Fungai, San Bernardino e Santa Caterina da Siena, 1510-15 ca.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
L'affresco era, ed è, di facile approccio, testo ben riconoscibile di una pittura fattasi con gli anni "singolarmente cristallina - ne scrive Cesare Brandi -, durissima e fragile, com'è di certe materie nobili, sicché nei torniti sferoidi dei volti quasi tradisce l'insofferenza che sembra di sorprendere nei cristalli di rocca". In effetti i protetti sembrano fratelli di una grande famiglia, compiti, fiduciosi: clienti ideali. Chissà che l'affresco non mirasse a una funzione educativa, suggerendo un auspicato disciplinamento delle richieste. La storia della fortuna critica della raffigurazione diventata quadro contiene presentimenti e offre spunti che mette conto rammentare, senza puntigli tecnici, e non limitandosi a quanto si ricava dalla letteratura specialistica. La primigenia attribuzione a Benvenuto di Giovanni del Micheli trovò presto consensi e fu nella celebre, consultatissima guidina - prima edizione 1903 - di Lucy Olcott e William Heywood che come "beautiful fresco" fu definitivamente additato con sbrigativa e tiepida citazione ai visitatori. Con quella committenza il Monte Pio aveva segnalato una mecenatesca attitudine, che sarebbe entrata a far parte dei titoli di merito della Banca, e non incidentalmente. E poi Benvenuto di Giovanni, al pari del nutrito manipolo dei quattrocentisti, è tra gli autori che più attirano l'attenzione dei Preraffaelliti, sia pur non comparendo tra le firme di spicco: rappresentante tipico, piuttosto, di un clima culturale dominato da prudente innovazione e guardinga apertura. Si sarebbe trovato a suo agio tra i banchi della finanza. Charles Fairfax Murray e Edward Burne Jones, tra i viaggiatori rapiti dalla spazialità senese, gli riservarono di certo una riguardosa attenzione. E Bernard Berenson lo tenne in gran conto, reclutandolo tra gli eletti da un gusto cosmopolita, non disdicevole nel mondo della finanza. Se oggi Siena tende a riscoprire gli anni del suo bistrattato e sottovalutato Rinascimento lo si deve anche alla voglia di dar nuovo rilievo a un'età che coincide con le eccitanti avventure di un vigoroso umanesimo e allontana o attenua le ombre di un notturno e crudo Medioevo.
Bernardino Fungaii, Impresa del Popolo di Siena; un leone rampante bianco in campo rosso, sovrastante la Lupa, 1510-15 ca.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Bernardino Fungai, Impresa della Città di Siena; tagliata in bianco e nero, sovrastante la Lupa, 1510-15 ca.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Da manifesto pubblicitario il dipinto è ora esibito come ornamentale quadro di rappresentanza insieme a quattro santi che gli facevano compagnia, e hanno dato non poco da fare per una loro attendibile attribuzione. Sembra assodato che i santi di guardia alla Madonna di Benvenuto, Antonio, Maria Maddalena, Bernardino e Caterina, siano dovuti a Bernardino Fungai, non al meglio del suo stile. Le imprese col candido leone rampante del Popolo e la tagliata del bianco e nero della Balzana sono dislocate altrove, nonostante sigillassero con un marcato intento politico un'opera che avrebbe tramandato una data aurea, una di quelle che si sente da subito destinate a scandire la storia di una comunità.
Scheda Tematica
La predicazione di San Bernardino da Siena

Tempo e denaro

In un'epoca in cui hanno luogo decisivi rivolgimenti sociali, l'argomento "denaro" è tra quelli privilegiati nelle prediche di san Bernardino, che fu autore di un Tractatus de contractis et usuris. E che all'obbligatoria dimensione morale seppe unire un realismo in anticipo sui tempi.
Sano di Pietro, La Madonna raccomanda Siena a Papa Callisto III, particolare.
Siena, Pinacoteca Nazionale.
Bernardino dei senesi Albizzeschi nacque a Massa Marittima nel 1380, ma è detto da Siena soprattutto per il robusto vincolo con il convento che lui stesso fece costruire, tra il 1404 e il 1406, sul colle della Capriola: e fu il suo insediamento preferito, luogo per antonomasia di ascetica meditazione e di irradiazione del suo messaggio. Protagonista tra i più seguiti del movimento dell'Osservanza, egli conquistò crescente ascolto grazie alle novità di stile e di modalità oratorie introdotte nella sua instancabile attività di predicatore. La predica fu il mass medium per eccellenza del Quattrocento, buono a propagandare in ogni dove i dettami di un'etica evangelica calata nella realtà di ogni giorno. Teatro di questa pastorale in cammino erano piazze e cimiteri, sedi di confraternite e sale delle assemblee civiche. Bernardino, perseguitato in vita a più riprese come eretico e proclamato santo a seguito di un complicato e risarcitorio processo di canonizzazione, nelle sue prediche trattava in una lingua popolaresca, e ricorrendo a una mimica di immediata presa visiva, temi della banale esperienza. Prendeva le mosse, come d'obbligo, da un passo biblico, non tralasciava di appoggiarsi ai testi sacri, che padroneggiava con maestria o a documenti pontifici. Bernardino lanciava invettive, sceneggiava episodi esemplari, s'inoltrava in digressioni che catturavano l'uditorio. Iniziava i suoi exploits poco dopo l'alba e andava avanti per tre ore buone in una liturgia pubblica che accomunava potenti e umili, uomini e donne rigidamente separati. Un galateo cristiano nel quale parte enorme avevano una serie di regole che gli osservanti dettavano nelle piazze in una didassi emancipata da un'ardua sovrabbondanza di dottrina. Il fiammeggiante trigramma che scandiva il nome di Cristo gli procurò un'infinità di guai e ricorrenti sospetti di eresia. Era un logo pubblicitario, un marchio di garanzia, una dichiarazione di autenticità. Le materie economiche erano tra le privilegiate in anni nei quali si assisteva a rivolgimenti destinati a strutturare una società radicalmente diversa da quella assuefatta a una visione statica, dominata dagli imperscrutabili disegni della Provvidenza. Tra i titoli della dotta produzione in latino Bernardino vantava un Tractatus de contractis et usuris, spesso di quattordici sermoni, nei quali distesamente espose il suo pensiero economico. E non furono pochi, né irrilevanti i passaggi che suscitarono accesi contrasti. Poggio Bracciolini nel suo dialogo In avaritiam contestò duramente a Bernardino la condanna di un'attitudine a suo parere naturale, poiché si traduceva in una saggia condotta nell'uso delle ricchezze: "altrimenti dovremo concludere che noi tutti siamo avari per natura". Circa il cambio l'irruente frate non escludeva le operazioni di stretta necessità per viaggiatori e pellegrini: oltretutto il cambio per lettera - argomentava - era vantaggioso per la patria ("ratione patriae"). Se, insomma, netta fu la condanna dell'usura, Bernardino non disdegnò, tuttavia, di aprirsi a più realistiche valutazioni, o almeno un po' meno rigide di quanto comunemente asserito. È stato detto che Bernardino colse da subito la natura dell'accumulazione capitalistica con i rischi di depauperamento che comportava e le lacerazioni sociali che sanciva. E, sulla scia dei francescani Pietro di Giovanni Olivi e Alessandro di Alessandria, la concettualizzò fino a formulare una primissima idea del nascente capitalismo, consistente in "moneta destinata ad attività commerciale". Soffermandosi sulla sospensione di profitto ("lucrum cessans") che si ha in caso di prestito di denaro e sulle conseguenti perdite ("damnum emergens") contribuì - secondo molti storici dell'economia - a introdurre sfumature e avviare riflessioni che avrebbero gradualmente portato la stessa Chiesa ad ammettere l'esercizio di un'attività deprecata con risolutezza. Mise in discussione il divieto di vendere il tempo e anzi commisurò alla durata del deposito la liceità di restituire una somma minore alla scadenza di un periodo inferiore al previsto.
Sano di Pietro, La Madonna accomanda Siena a papa Callisto III.
Siena, Pinacoteca Nazionale.
Se il Bernardino teorico in latino emerge con antiveggenti punte di realismo, il Bernardino che predica in cento piazze italiane e nel Campo della sua Siena riscuotendovi un successo record è molto più sbrigativo e la furia della condanna sovrasta ogni distinguo. Una gesuitica doppia verità? Piuttosto un'esigenza di chiarezza che lo spingeva a spogliarsi di ogni ampollosità teologica e ad assumere l'ottica e il lessico di chi lo ascoltava. È su questa attenta identificazione tra punto di vista del predicatore e senso comune dell'ascoltatore che Bernardino gioca tutte le sue carte, con un controllato virtuosismo.
Fra Giovanni da Siena, Antifonario 4, p. 362r (diurno notturno).
Siena, basilica dell'Osservanza.
Alcune delle sue prediche sono state riportate con fedeltà da Benedetto di maestro Bartolomeo, un cimatore di panni innamorato della fluida eloquenza. Costui seguì Bernardino giorno dopo giorno con spasmodica dedizione: grazie all'impiego di un primordiale codice stenografico, fissava anche interiezioni, intermezzi esclamativi, aspri rimbrotti, richiami per nome ai disturbatori di turno. Così oggi leggiamo le sue reportationes quasi ascoltando una predica live, nella nervosa sintassi che aveva quando usciva dalla bocca dell'energico fraticello. Che per solleticare l'amor civico dei senesi di ogni rango accorsi sul Campo non dimenticava di citare, appena poteva, i concittadini illustri. E in particolare quando i comportamenti su cui trattenersi erano ostici e duri da digerire. È certo il caso delle tematiche economiche. In una delle prediche del 1425 per condannare l'usura si rifà a un decretale di Alessandro III , "nostro senese": "Per la lege vechia e nuova, niuno papa è lecito, e non può fare che sia lecito, che mai niuno possa prestare a usura per niuno modo, senza mortale peccato". In un altro passaggio è altrettanto sferzante: "Anche se uno vendesse a credenza più che a contanti, peca mortalmente; per ogni cosa che tu n'ài più, debbi rendare, cioè dare per Dio". Il lessico bernardiniano è ostentatamente metaforico e mimetico. Gli incitamenti che rivolge agli usurai sono speronate da dispensare con durezza e sono elencate come dosi di una medicina amara da far ingerire senza riguardo. "La siconda speronata che è data all'usuraio - grida - si è che sempre s'affanna, di dì e di notte, dormendo e vegliando. E se poni mente, pochi usurai trovarai che per lo sonno entro, non faccino pazie da insanare, e levansi la notte per paura de' denari". Questo ricondurre alla quotidianità del vissuto è espediente formidabile di convinzione. E frequentissime sono le uscite a effetto che seminavano terrore e disperazione: "E quando muore uno usuraio, è proprio come quando muore uno porco, che ognuno ne fa festa. Chi vuole le setole per cuscire le scarpe; chi vuole la coda, chi la vesciga, chi sofritto; ognuno gode della sua morte. E quando era vivo niuno non faceva festa, et ora ognuno gode". Ecco il moralismo di Bernardino, che sciorina una litania di casi con paragoni tratti dalle usanze in auge tra campagna e città: fioretti alla rovescia, raccontati con una piccante verve pedagogica e riferiti alla scabrosa attualità. "Nella sua predicazione - ha osservato Lina Bolzoni - i temi del rinnovamento e del giudizio, della punizione incombente, non rinviano all'avvento dei tempi ultimi, ma hanno una dimensione morale, sono volti a riportare ordine nella vita individuale e sociale".
La serie di prediche tenute nell'agosto del 1427 - trasmessaci da oltre venti manoscritti - ha mantenuto integralmente la sua costruzione sorgiva e serba un profumo autentico, perfino l'accidentata sonorità del parlato. Bernardino ha le ricette pronte per ogni evenienza e non perde d'occhio i nuovi fenomeni che stanno scardinando decrepiti equilibri e plasmando una società nuova. Per il mercante che irrompe sulla scena come eroico portatore di una nuova mentalità sa usare accenti moderati: quella medietà del buonsenso che ingigantiva l'audience delle sue fantasiose esibizioni. Per aggirare i pericoli della monotonia era essenziale spezzare l'esposizione con dialoghi ben interpretati. Bernardino si poneva domande e fingeva di improvvisare risposte lì per lì, mutando il tono di voce con funambolico estro. Quesito banale: è lecito che si realizzi un certo tornaconto cambiando una merce con un'altra? Risposta facile: "Non vi debbi mai usare niuna malizia; non falsar mai niuna mercanzia: tu la debbi far buona, e se non la sai fare, innanzi la debbi lassare stare, e lassarla esercitare a un altro che la facci bene: e allora è lecito guadagno". Un consiglio di avvedutezza, tutt'altro che apocalittico. Forse per queste qualità discorsive e per questi consigli spiccioli è piaciuto anche a laici o stranieri che non condividevano né la sua visione religiosa né la sua adesione ai principi del tomismo. Luciano Banchi, primo sindaco borghese di Siena, curatore con magistrale scrupolo di archivista delle prediche del 1427, lodò la capacità che Bernardino aveva di congiungere le coerenti asserzioni di fede con "un affetto vivo ed operoso per la patria terrena, dove con la concordia, con la virtù, con l'amore - la pagina introduttiva reca la data 22 giungo 1880 - voleva instaurato il regno benefico della pace". Era una presentazione molto edulcorata di posizioni irte di spigoli e di ribaditi dogmatismi.
Stefano di Giovanni detto il Sassetta, San Bernardino da Siena, 1444-50.
Asciano, castello di Gallico, collezione Salini.
Bernardino pretendeva, come i fratelli di regola, che il suo ciclo di prediche lasciasse tracce nelle norme, producesse effetti visibili negli indirizzi del governo. Ai più elevati ceti che a metà del Quattrocento sembravano a Siena intenzionati a tirare i remi in barca additava l'esempio di Venezia, dove i gentiluomini erano "esercitanti", mentre "in Siena si vergogna l'uomo di pigliare esercizio". Talvolta otteneva effetti non spregevoli, a pronto riscontro delle insistenti rampogne. Con le cosiddette Riformagioni di frate Bernardino, adottate dal Consiglio generale della Campana l'8 giugno 1425, si poneva un tetto alle doti, si stabiliva la presenza in città di un forestiero Capitano ed Esecutore di Giustizia, si rimarcava che ci si doveva astenere da contratti di usura, "e chi non se ne astenesse riceva danno e vergogna come meritatamente debba". Tutte disposizioni che traducevano alla lettera i comandamenti declamati da Bernardino: talvolta creavano imbarazzo ai governanti o attizzavano non solo metaforicamente il fuoco di vere e proprie cacce alle streghe o attribuivano ai soli ebrei la responsabilità di cinici metodi di strozzinaggio. "Il timore che le sue veementi parole contro le usure - nota Muzzarelli - e in particolare contro quelle ebraiche e contro la familiarità dei cristiani con i giudei suscitassero tumulti popolari e creassero difficoltà agli ebrei accompagnava [...] regolarmente l'arrivo di Bernardino nelle città dominate da quei signori che contavano sulla collaborazione ebraica". Passata la tempesta, i governanti, dopo aver ascoltato, compunti, rimproveri ed esortazioni, riprendevano a tessere i consueti intrighi. Quanto all'istituzione di Monti tanto caldeggiata dal movimento francescano, si deve ammettere che le animose - e animate - prediche di Bernardino avevano contribuito a fertilizzare il terreno sul quale venne eretto anche a Siena un glorioso Monte Pio, su iniziativa civile però, ispirata come altrove da una spiritualità sollecita di cure verso chi restava ai margini. L'Italia centrale fu l'area dove l'idea trovò d'acchito più accoglienza: Umbria, Marche e Abruzzo. Con gli anni settanta anche il sud della Toscana fu investito da questa benefica onda e in seguito si registrarono fondazioni pure nel Settentrione: una moltiplicazione miracolosa.

6. Un camarlengo ladro

Entrate del camarlengo degli Spedali, 1516-53.
Archivio della Società di Esecutori di Pie Disposizioni di Siena, ms. 141, c. 318.
La riforma fu pubblicata il 24 gennaio 1589 e conteneva una norma, per cui "volendo alcuno prestare i suoi denari, di qualunque somma, al Monte per servitio e benefitio de' poveri" 67

AMPio 171, n. 4.

, quei soldi dovevano essere restituiti a ogni richiesta, senza spese per il depositante e senza pagamenti di interessi per il Monte. Era conservata la prassi del prestito contro pegno a ragione del 5 per cento, mentre si proibivano i prestiti per l'incremento dell'industria dei suini e si favorivano quelli per la semina del grano. Anche sul libero commercio dei grani di Maremma il granduca Ferdinando intervenne, concedendo la possibilità di "estrarre dalli Stati la metà del loro ricolto, senza detrattione alcuna di seme né di terratico" e col pagamento "della solita tratta e gabella".
Nella stessa riforma fu ribadita la concessione al Magistrato del Monte Pio della "piena e pienissima jurisditione, potestà, autorità e balìa circa le cause tanto civili quanto criminali sopra negotij concernenti lo interesse del Monte principalmente, et in conseguenza direttamente o indirettamente e circa li processi e sentenze assolutorie e condennatorie in dette cause o da quelle dipendenti in qualunque modo e circa il punire li Ministri et altri che nel trattar negotij spettanti al Monte contravvenissero all'ordini, o commettessero alcune fraudi in danno del Monte o di privati, contro li quali, e ciascuno di essi loro mallevadori, e beni, ragioni, attioni e crediti, possa procedere in qualunque giorno [...] Et alle loro sentenze et deliberazioni non si possa per alcuno dire di nullità né da esse interporre appellatione alcuna così in parole come in scriptis dinanzi a qualsivoglia Magistrato et Officiale della città di Siena" 68

Ivi,n.5.

.
Anonimo, San Nicola di Bari libera Girolamo Biringucci dalla tortura, secolo XV.
Siena, chiesa dei Santi Nicola e Lucia.
Se dobbiamo prestar fede alla frase d'una lettera che Ferdinando de' Medici scrisse alla moglie Cristina di Lorena, la nipote di Caterina de' Medici da lui sposata nel 1588, si deve pensare che il granduca avesse un buon rapporto con la capitale dell'antica repubblica: "Venga a Siena lieta e felice, che a me questa stanza e questa città mi par sempre più bella". Forse questa stima ebbe un positivo effetto anche per qualche cittadino senese, come l'uxoricida Pomponio de Vecchi, cui nel gennaio 1590 fu tolto il bando e concessa la revisione dei conti del suo camarlengato al Monte Pio. Nessuna pietà, tuttavia, continuava a esser concessa a chi - sia pure per piccole cifre - falsificava le polizze dei pegni o impegnava al Monte oggetti falsi: tratti di corda per indurre alla confessione e detenzione nelle Stinche, come si chiamava il carcere 69

"Poiché le prigioni per li debiti civili in Toscana solamente si chiamano le Stinche, sappiasi che tal nome da Fiorenza deriva dalle Stinche di quella città; e l'origine cavasi dal Buoninsegni nella sua Storia fiorentina, foglio 127. Mandarono a oste sopra il castello delle Stinche inVal di Greve e ebbesi a patti; e gli uomini si arrenderono a prigioni e furono menati a Fiorenza e messi nella nuova carcere ordinata da San Simone; e poiché funno i primi che vi funno imprigionati, però il luogo è stato sempre denominato le Stinche" (G. Gigli, Diario senese, I, cit., p.26).

, erano punizioni assai frequenti.
Come frequente era la carenza di denaro da prestare, che il Magistrato del Monte Pio "per obbligo d'uffitio e per affetto di carità" chiedeva ma non otteneva dall'Ufficio dell'Abbondanza o dallo stesso granduca, il quale rispondeva: "Sua Altezza non vede hora comodo di denari" 70

AMPio 172, n. 209.

.
Non ostante queste frequenti crisi, gli Otto del Monte Pio continuarono l'ormai affermata tradizione di decorare la sede del loro istituto; all'intagliatore fiorentino Filippo di Giovanni commissionarono nel 1591 una grande cornice in noce con i rispettivi stemmi di famiglia e i successivi Otto - quelli cioè del IX Magistrato, in carica nel triennio 1593-1596 - fecero dipingere da Francesco Vanni un quadro "dove era Joseph hebreo che riparò alla sterilità di Egitto" 71

Ivi,n.4.

, pagato 115 scudi.
Domenico Beccafumi, Uomo sottoposto alla tortura della fune.
Parigi, Musée du Louvre.
La cura per il decoro dell'ufficio è dimostrata anche dalla delibera presa dai suoi Magistrati il 21 maggio 1590: "Per giuste cause odito il Massaro del Monte deliberorno farsi uno precetto scritto et attaccarsi alla porta della casa del Monte o altro luogo atto. Che non sia chi giochi a gioco alcuno nella piazzetta avanti la casa del Monte sotto pena di uno testone per ciascuno che giocarà o sarà trovato giocare et per ciascuna volta, et che ogni ministro ne possa fare l'essecutione senza altro. Et la metà della pena sia di tale ministro, et l'altra metà si dia per amor di Dio dal Magistrato loro et fu fatto et attacato subito" 72

Ivi,n.35, cc. 107v-108..

.
Mentre la sede del Monte Pio, per la meritoria iniziativa dei suoi Magistrati, si abbelliva di continuo, molte abitazioni di Siena si trovavano in pessime condizioni, tanto che la Balìa nel 1605 ordinò "che ogni persona di qualsivoglia grado, sesso o condizione fosse obbligata a conservare le case e renderle abitabili" e che i padroni delle stesse fossero "obbligati a restaurarle fra sei mesi, e non eseguendo, si mettino dette case ai bandi pubblici [...] e volendole rovinare vi occorra la licenza [...] e la licenza si dia con obbligo di fabbricarne un'altra" 73

ASS, Balìa 189, c. 123.

.
A proposito di rovine, Siena assisté in questo periodo al fallimento del Banco dei Borghesi e a un grave disordine contabile nella gestione del Monte Pio. Il camarlengo Armenio Melari, infatti, risultò dopo un accurato controllo, debitore dello stesso Monte per 1500 scudi. Dopo aver inviato una supplica al granduca, nella quale diceva di "essere povero cittadino con undici figlioli, de' quali sette femmine" e di essere disposto a rimettere il debito a rate, senza dover "vendere il suo stabile, con danno della metà del giusto prezzo" 74

AMPio 15, c. 5.

, fu accettata la sua proposta, mantenendolo anche nel suo ruolo al Monte Pio. Poté così gestire, insieme con gli altri Magistrati, una somma di 6500 lire che nel gennaio 1610 la Balìa riuscì a recuperare da Giovan Battista Grimaldi, un genovese che l'aveva dichiarata residuo di un deposito fatto al tempo della libera repubblica di Siena.
Filippo di Giovanni e Andrea di Felice Bindi, Tavoletta intagliata per l'iscrizione dei nomi dei Magistrati del Monte, 1591.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Questi "denari di Genova" furono depositati nel Monte Pio "a benefitio della città" 75

ASS, Balìa 190, cc.122 e sgg.

. Circa i depositi, però, un memoriale inviato al granduca segnalava che, se dal 1568 chi "metteva denari" al Monte aveva un utile annuale del 5 per cento, dopo "fu levata questa comodità" e da allora "è seguito che quelli che ci havevano denari [...], sentendo di non havere guadagno alcuno, corsero a levarli, e di poi non è stato alcuno di tanta carità che ce li habbi voluti metter gratis a servitio de' bisognosi; ma ognuno si è volto ad altro guadagno; e molti che non vogliono trafficarli tengono i denari loro otiosi nella cassa". "Noi - concludevano gli Otto del Monte - considerando al comodo della città e dello Stato tutto, crediamo che sarebbe di molto giovamento universale, se, non ostante la detta riforma, si riducesse questo particolare all'ordine antico; e così si concedesse che universalmente fosse lecito a ciascuno di mettervene, con quell'utile di cinque per cento a capo d'anno [...] Se vi fusse quantità di denaro, come si crede che concorrerebbe, potrebbe Vostra Eccellenza Ill.ma allargare la mano a far molte gratie a quelli che, senza il pegno, ne volesseno somme maggiori con promesse [...] E perché non converrebbe che il Monte potesse esser colto all'improvviso da quelli che rivolessero il loro denaro, crederemmo che fusse bene, fino a cento scudi, che si rendessero subito; da cento fino a cinquecento si dovesse farne la disdetta al Monte quindici giorni avanti che il padrone se ne volesse valere; e da 500 in su havesse il Monte tempo un mese a pagare, dal dì della disdetta, la quale si dovesse notare a' libri di detto luogo. Haviamo voluto dar conto di tutto a Vostra Eccellenza Ill. ma supplicandola che, a benefitio universale, si compiacci di concederlo, e comandarne l'esecutione, e con questo le facciamo umile reverentia e preghiamo dall'Altissimo ogni felicità" 76

N. Mengozzi, Il Monte cit., II, pp. 188-189.

.
Scheda Tematica
Francesco Vanni e Giuseppe l'Ebreo

Dopo la carestia

Il dipinto di Francesco Vanni con le Storie di Giuseppe l'Ebreo, oggi nella sede centrale della banca, fu commissionato nel 1595 dagli ufficiali del Monte Pio. In esso la raffigurazione del banco del cambiavalute consente di comprendere le ragioni della scelta di quel tema.
Ora è alloggiata nella sede centrale della banca, ma la tela dipinta da Francesco Vanni su commissione degli ufficiali del Monte Pio del novembre 1595, dall'amplificato titolo Storie di Giuseppe l'Ebreo è l'opera che, tra tutte, ha subito più trasferimenti. Richiesta dal granduca a fine Seicento, traslocata quindi nel Guardaroba mediceo, spostata successivamente agli Uffizi e di ritorno nel 1955, a Siena, dove è in deposito, l'opera ha avuto un destino itinerante analogo a quello del protagonista al quale è dedicata. Perché Lorenzo Luti e Antonmaria Pecci, per lasciare "qualche memoria di loro" alla fine del mandato, si misero in testa di far eseguire un quadro incentrato su un episodio della leggenda di Giuseppe l'Ebreo? Ed esattamente di lui "che riparò alla sterilità di Egitto"? Anzitutto nella scelta non ebbero timore di rompere con una linea iconografica ben diversa. Un conto era disseminare di Cristi e di Madonne la stanze del potere, un conto far spazio a una narrazione esemplare con evidenti scopi di allusiva personalizzazione contemporanea. Già con le comunali Biccherne i governanti della cosa pubblica avevano incaricato gli artisti di raccontare con cronistica attendibilità gli eventi del loro tempo, e non di rado per solennizzare date e gesta da tramandare: con un processo di mondanizzazione, se così si può dire, che riveste di panni sacri i signori della terra, avendo a mente imprese ispirate all'utile o da additare a exemplum. E il Monte Pio che non era ancora a pieno titolo banca? Giuseppe incarna non solo un atto di miracoloso riformismo, ma unisce l'intervento a una piena legittimazione dell'attività di prestito.
Francesco Vanni, Storie di Giuseppe l'Ebreo, 1596, particolare. In deposito alla sede centrale della Banca Monte dei Paschi di Siena dalla Soprintendenza Speciale PSAE e per il Polo museale della città di Firenze.
Il banco del cambiavalute sulla sinistra si riferisce al Monte Pio e al coté parabancario delle sue funzioni: assorbite e contestualizzate in un'impresa di generoso soccorso verso le popolazioni stremate dalla "sterilità". Quindi anche Giuseppe era stato convocato come agente di propaganda dentro una parabola civile. E che si tratti di un ebreo in un momento durissimo di discriminazione, quando da poco era stato istituito per volere pontificio il ghetto, invita a riflettere sulla falsariga del mito biblico, in un'ambigua pluralità di direzioni. Uno dei passi che sta alla base della formulazione di un'immagine traversata da luminescenze prodigiose e da minacciose ombre è da Genesi 41, 56: "Or, Giuseppe, vedendo che la carestia si era estesa al paese intero, aperse tutti i depositi di grano e ne vendeva al popolo, mentre la fame andava aggravandosi in Egitto". La vittoria sulla siccità è ottenuta con il rifiorire dell'agricoltura e la disponibilità di grandi somme di denaro. Il mito della Bibbia rispecchiava un programma al tempo stesso di pacificazione e di sviluppo. Questa connessione allegorica tra presente e passato spiega la considerazione speciale che da parte granducale si ebbe della tela di Francesco Vanni e dei percorsi che fu costretta a fare.
Francesco Vanni, Storie di Giuseppe l'Ebreo, 1596. In deposito alla sede centrale della Banca Monte dei Paschi di Siena dalla Soprintendenza Speciale PSAE e per il Polo museale della città di Firenze.
La fine del Cinquecento fu a Siena segnata da un generale decadimento e anche dalla rovina di banchieri un tempo sulla cresta dell'onda. Lo stesso Monte Pio fu sconvolto da abusi e da tensioni. Giuseppe avrebbe avuto di che mostrare le sue virtù ai suoi fratelli e alle genti. La mitizzazione del suo potere era un inno alla provvida munificenza granducale in anni non di vacche grasse. Il biblico eroe aveva guadagnato credito presso i sudditi e si era imposto come guida da seguire in virtù della sua tenacia nella lotta alla fame. Il ciclo dedicato a Giuseppe da Thomas Mann riprenderà nel Novecento storie innalzate a paradigma: "La carestia che cinque o sette - più probabilmente cinque - anni dopo il suo insediamento infierì in Egitto e nei paesi limitrofi, fece dell'uomo che l'aveva preveduta e aveva adottato gli opportuni rimedi per renderla tollerabile agli uomini consentendo loro di superarla, la figura praticamente più importante dell'Impero, e le sue disposizioni assunsero vitale importanza, superiore a tutte le altre". Nell'Occidente cristiano i meccanismi della legittimazione politica e del consenso popolare non hanno subito nei secoli sostanziali mutamenti. La scelta poi di un argomento veterotestamentario che aveva come protagonista un ebreo manifestava, secondo le situazioni, appello alla conversione, paternalistica tolleranza o un'"inattuale" solidarietà.
Francesco Vanni, Storie di Giuseppe l'Ebreo, 1596, particolare. In deposito alla sede centrale della Banca Monte dei Paschi di Siena dalla Soprintendenza Speciale PSAE e per il Polo museale della città di Firenze.