1. Il Monte non vacabile
Ferdinando I de' Medici morì il 7 febbraio 1609; poco prima aveva formato una commissione per studiare la trasformazione del Monte Pio in un vero e proprio istituto di credito. Di tale commissione facevano parte anche due teologi, che non facilitarono una rapida conclusione dei lavori, prolungati fino al 1616. Intanto, però, un nobile senese -
Bellisario Bulgarini - tramite la Balìa faceva pervenire al nuovo granduca
Cosimo II alcune proposte, sempre circa la possibile trasformazione del Monte Pio.
Tommaso Redi,
Candeliere in bronzo, 1632.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Bulgarini era uno degli intellettuali senesi più noti. Nel 1558, appena diciannovenne, aveva fondato nella sua casa l'Accademia degli Accesi per rivitalizzare l'ambiente culturale cittadino, assai depresso dopo la guerra. Insieme con
Claudio Tolomei,
Celso Cittadini,
Adriano Politi e altri aveva animato il dibattito sull'origine del volgare e sulla difesa dell'idioma senese, inserendosi poi nella polemica fra il
Castravilla e il Mazzoni sulla
Commedia e accusando l'
Alighieri di non aver seguito le regole aristoteliche e di essere stato "licenziosissimo intorno a quel che appartiene alla favella"
1
Bellisario Bulgarinii,
Alcune considerazioni [...] sopra 'l Discorso di M. Jacopo Mazzoni..., Siena, Bonetti, 1583, p. 97. Sul Bulgarini vedi Margherita Quaglino, "Pur anco questa lingua vive,
e verzica". Bellisario Bulgarini e la questione della lingua a Siena tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento, Firenze, Accademia della Crusca, 2011.
. Il 5 novembre 1612 inviò alla Balìa, di cui faceva parte, una "memoria", dove diceva che, data la mancanza in Siena di "onoratissimi banchieri", sarebbe stato opportuno ottenere dal granduca "che i depositi almeno delle vedove e pupilli si potessero e fosse conceduto il farli nel Monte Pio della città, con emolumento del cinque per cento, ai medesimi pupilli e vedove, e che perciò, facendo di mestiero, se ne ottenesse dal Pontefice l'indulto. De li altri poi che volessero depositarli [...] fossero i depositi fatti senza frutto alcuno, o vero con quel solo che dà il Monte della pietà predetto nel prestare, detrattene [...] le spese. Che in tal guisa si potrebbe col tempo allargar la mano nel prestare da quel Monte, maggior somma di denari, ne' pegni che vi son portati, di quello che oggi si faccia". Giudicava poi "notevolissima cosa che in Siena s'erigesse (per così dire) un Monte vacabile per morte, di quella somma e quantità che a Sua Altezza piacesse; il quale desse l'utile a cagione di dieci per cento; e se anco qualche cosa meno si giudicasse doversi dare, e quando ci fusse licenza di poter far ciò senza offesa delle pie coscienze [...] Credeva sarebbe anco molto utile l'erigere un altro Monte non vacabile, il quale rendesse a cinque per cento; [tali Monti] modererebbero la strettezza grandissima e quasi estrema del denaro [...] e l'ingordigia de gl'uomini che, senza grande guadagno, non partecipavano agl'altri quello che la benignità d'Iddio benedetto haveva loro conceduto. E di più favorirebbensi ancor in tal modo le faccende e ne seguirebbeno infiniti utili comodi, che troppo longo sarebbe stato il narrargli"
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ASS, Balìa, Libro di memorie, n.a. 703, c. 167.
.
La "memoria" del
Bulgarini non ebbe particolari riscontri a livello governativo e
Cosimo II ricevette - qualche mese prima di morire di tubercolosi a soli venticinque anni - un'altra supplica relativa alla questione del Monte Pio; questa era frutto delle considerazioni di due membri del XVII Magistrato dello stesso Monte,
Alcibiade Lucarini e
Daniello Campioni. Nel maggio 1619 essi scrissero che "sarebbe stato molto utile" introdurre nel Monte Pio la "forma di altro Monte, et aggiungerci traffico, o fondo di certo frutto, talmente che almeno con circuito di tre contratti, vi potesse ognuno liberamente impiegare il suo denaro con certa speranza di conseguire, con buona e sicura coscientia, honesto frutto. Et non solo le vedove e donne et altri inabili al traffico, ma ancora tutti quelli che debbono farlo per necessità di decreto pubblico, come pupilli e minori. Et al Monte parimente et suoi Officiali ne verrebbe facoltà e modo di potere, o con pegno, con fideiussore o altra sicurezza prestare il denaro, con tanto lecito guadagno di più, onde potesse corrispondere alli creditori e mantenere i Ministri et Officiali opportuni. Tutto questo, con le regole di sacri teologi e buoni canonisti, crediamo che vi si potrebbe di continuo maneggiare meglio di 150.000 ducati, con le quali si anderebbe sollevando quelli che son gravati a più di dodici per cento, et acquistando comodo di scapitare molto meno, e di liberarsi in breve tempo da cambi tanto frequenti in Siena con tanto dubbio della conscientia"
3
.
Il governo del granduca - dato che
Ferdinando, il figlio primogenito di
Cosimo II, aveva solo dieci anni - era passato nelle mani delle due reggenti: la granduchessa nonna
Cristina di Lorena e la granduchessa madre
Maddalena d'Austria, ambedue dame assai pie, come dimostrano anche gli ordini da esse dati al Monte di prestare all'arcivescovo di Siena mille scudi gratis per cinque anni al fine di far modifiche nel palazzo arcivescovile; altri duecento scudi, sempre gratis per un anno, all'Opera di Grosseto per fabbricare la sagrestia del duomo e ancora mille scudi "a conto di elemosine" da distribuire con l'intervento dell'arcivescovo.
In effetti la città era piena di poveri che chiedevano la carità e il governatore
Periteo Malvezzi cercò di risolvere il problema emanando due severi bandi contro "i vagabondi, furfantoni e birboni" tra la fine del 1621 e l'inizio dell'anno seguente
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. Il primo bando - del 9 dicembre - proibiva "a ciascuna persona di qualsivoglia sesso, stato e condizione" di mendicare "in alcun luogo della città, se non havesse licenza
in scriptis [...] sotto pena alli trasgressori, se forestieri et huomini maggiori di anni quindici, della galera a beneplacito di Sua Altezza Ser.ma, et alli sudditi di Sua Altezza per la prima volta di tratti tre di corda in pubblico e per la seconda volta della galera. Et alli minori et alle fanciulle e donne, sotto pena della frusta".
Le guardie delle porte cittadine dovevano prendere nome e cognome dei mendicanti che entravano e che avrebbero ottenuto un apposito permesso per elemosinare due soli giorni. Poco dopo, però, un altro bando limitò l'entrata in città dei mendicanti solo dalla Porta Camollia o dalla Porta Romana, per essere accompagnati, con una "honesta elemosina", ad attraversare Siena e uscire senza fermarsi e senza poter più rientrare.
La Deputazione che la Balìa aveva creato nell'autunno del 1621 col compito di arginare la crescita dei mendicanti, e che restò in vita fino alla metà del XVIII secolo, non riuscì a mettere in atto misure idonee per raggiungere i suoi obiettivi. "Con l'aggravarsi della crisi economica nella città e nel suo contado - ha osservato
Irene Polverini Fosi - divenne più evidente e addirittura più tragico il contrasto fra l'attaccamento alle tradizionali forme di carità e l'esperienza della realtà cittadina. L'incapacità, tipica della società preindustriale, di penetrare e dominare i meccanismi di pauperizzazione si palesava, specie nei momenti di maggiore tensione, come in coincidenza di carestie e di epidemie, nelle forme di un contrasto politico fra la classe dirigente locale e Firenze, scontro che alimentava nell'aristocrazia senese un'anacronistica quanto strenua difesa di tradizioni e privilegi municipalistici"
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Irene Polverini Fosi, Pauperismo ed assistenza a Siena durante il principato mediceo, in Timore e carità. I poveri nell'Italia moderna, a cura di G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta, Cremona, Libreria del Convegno, 1982, p. 158 e Eadem,
Lo Stato e i poveri: l'esempio senese tra Seicento e Settecento, in "Ricerche storiche", X (1980), pp. 93-115.
.
Dopo aver ampliato i suoi locali, il Monte Pio, sulla base delle conclusioni della seconda commissione sopra ricordata, sottopose al giudizio della Balìa alcune anonime
Considerazioni per la resoluzione del negozio del Monte, quale si tratta di ereggere nuovamente in Siena, scritte da "un cittadino, per altro minimo, ma amantissimo della patria e zelantissimo del bene di essa"
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.
"Stante il bisogno e malo stato - scriveva l'anonimo - in che si ritrova la città nostra, per aiuto e sollevamento della quale pure è espediente e necessario tentare qualche rimedio; e stante ancora l'essersi già più anni con molta instantia domandata per gratia alle Altezze Serenissime, e da esse finalmente con tanta benignità e largità ottenuta, acciò la città nostra non venga a scapitare di reputazione e di grazia appresso le medesime Altezze, e da esse sia reputata incostante e leggera, pare per ogni modo si debba provare, per otto o dieci anni, l'effetto buono o gattivo" di un nuovo Monte.
Il 28 febbraio 1623 cento membri del Consiglio del Popolo, insieme a quelli del Concistoro, si riunirono nella Sala del Mappamondo del palazzo civico per votare la proposta di erezione di quel nuovo Monte.
Livio Pasquini, notaio delle Riformagioni, lesse il documento, già approvato dal governo granducale il 30 dicembre 1622; esordì con queste parole: "Havendo la città nostra hauto già molto tempo desiderio che si fondasse un Monte, sopra il quale si potesse legittimamente e con ogni sicurezza della coscienza, formar negozio di denaro, sì come in altre città s'usa, acciò che non rimanesse otioso in mano di chi non è atto a negoziarlo, e chiunque n'havesse di bisogno potesse con moderato interesse e proporzionato alle rendite che può dar questo Stato, trovarne e accomodarsene con idonee sicurtà per le sue occorrenze; et a quest'effetto, considerandosi il più facile e più legittimo et indubitato modo essere che, sopra un fondo per sua natura fruttifero, si costituisse, e da cittadini con buone e strette regole si amministrasse", il Collegio di Balìa - proseguì Pasquini - aveva chiesto al granduca di concedere al nuovo Monte "una delle pubbliche rendite" statali, come quella della Dogana dei Paschi, "fino alla somma di dugentomila scudi di capitali" per il rimborso dei depositi e per il pagamento degli interessi se l'istituto fosse entrato in crisi. "Et in supplemento, obligando et hipotecando i beni stabili dei cittadini senesi [...] et altri haventi beni nello Stato senese e per la rata parte di ciascheduno, e non
in solidum, acciò che, se mai alcun danno avvenisse, dovesse compartitamene e con insensibile pregiudizio dei particolari, essere universalmente restaurato et relevato da tutti i beni dei laici, etiam sottoposti a fidecommesso, che erano nello Stato senese, in mano di qualunque possessore in quel tempo si trovassero. Ed essendo stata da Sua Altezza Ser. ma benignamente conceduta la grazia alla città, accomodando alla medesima il fondo dei Paschi, fino alla somma di ducati dugentomila di capitale con la conditione, che dovesse la città render sicuro il Principe nel modo suddetto, da ogni danno che per la cagione di haver prestato il fondo potesse nascere [...] Piacendo adonque a tutti di concorrere all'erettione e fondatione del Monte nel soprascritto modo per universale benefitio, se n'attende con la dichiaratione de' voti l'approvatione o riprovatione"
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ASS, Consiglio generale 248, cc. 323 e sgg.
.
E riprovazione fu. Non bastarono, infatti, i cinquantadue lupini bianchi per il sì contro i quarantotto neri per il no. L'obbligo di rilevazione che tutti i cittadini senesi avrebbero dovuto assumere verso il granduca aveva evidentemente provocato un certo timore; così la Balìa volle che "si facesse nuova proposta al Consiglio generale intorno all'obbligazione di tutta la città, offerta dall'antecedente Collegio di Balìa al Serenissimo Granduca per il nuovo Monte da farsi", ordinando che "i Signori Deputati, insieme col Segretario delle Leggi mettessero in carta la forma di tale obbligo [...] volendo di più che in camera dell'ill. sig. Capitano di populo si facessero, ad arbitrio del medesimo, chiamare tutti i consiglieri et altri cittadini et artieri che parranno, acciò l'universale habbia sodisfatione et sieno sentiti et informati"
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ASS, Notarile post-cosimiano 424 (atti del notaio Pasquini, filza 2).
. Si voleva rassicurare che il rischio di dover risarcire il granduca "per qualsisia grave accidente" era minimo e che, comunque, erano state prese opportune cautele per la costituzione del nuovo Monte: per prima cosa il Magistrato e i ministri di esso dovevano essere eletti dalla Balìa fra i cittadini senesi "riseduti", cioè appartenenti all'antica casta gentilizia; inoltre ogni cinque anni la stessa Balìa doveva decidere se il Monte dovesse continuare o no e infine che tutto il denaro rimasto in cassa dell'utile "che si traesse per li depositi" sarebbe servito "per relevare il Monte da ogni danno et accidente possibile".
Queste rassicurazioni della Balìa furono sufficienti a far approvare la delibera il 4 marzo 1623, ma solo con una maggioranza legale: ottantadue sì e trentaquattro no.
Dieci giorni dopo, ai quattro membri della Commissione formata nel 1619 per il nuovo Monte (
Lucarini,
De Vecchi,
d'Elci e Bulgarini) la Balìa affiancò il rettore dell'Ospedale Santa Maria della Scala
Agostino Chigi, il rettore dell'Opera metropolitana
Lattanzio Finetti, il rettore della Sapienza
Alessandro Sozzini e il dottor
Muzio Brogioni. Questi otto dovevano, con l'assistenza di "quattro causidici" (
Franceso Bizzarrii,
Augusto Manni,
Alessandro Paganelli e
Antonio Pazzeschi), stilare lo statuto del nuovo Monte, il cui testo fu presentato alla Balìa il 19 maggio 1623 ed esposto sul banco della Cancelleria per alcuni giorni, a disposizione di chi volesse leggerlo. Un mese dopo,
Alessandro Sozzini andò a Firenze per sottoporlo al giudizio delle granduchesse reggenti.
Quando il percorso per la costituzione del nuovo Monte sembrava ormai esser giunto a conclusione, l'improvvisa fuga del camarlengo del Monte Pio
Armenio Melari nella notte del 6 agosto 1623 provocò un turbamento, capace di frenare ogni nuova iniziativa.
Camarlengo da ventisette anni e già protagonista di un precedente latrocinio, il
Armenio Melari aveva lasciato nella casa una lettera, dove parlava della sua "ruina per haver allargata la mano all'ingrosso per servitio d'amici e per mio proprio" e confessava: "il mio debito [...] sarà tale che mi arrossisco a dirlo [...] Mi son posto in fuga per penitentia di haver fatto quello che non dovevo; di che domando perdono; et al Ser.mo Padrone con le ginocchia in terra raccomando l'onor mio, in riguardo di quattro figliuoli che vivono e servono nobilmente fuor di casa loro in diverse parti, né hanno parte in questo mancamento"
9
.
Primo tiro del campanone posato a' primi merli.
ASS, Mss. 48, cc. 59-60.
Il mancamento, come risultò nel corso del processo, era davvero imponente: oltre quarantamila scudi, tanto che i magistrati del Monte Pio accompagnarono il bilancio dell'istituto inviato al governatore con una lettera dove dicevano: "Gli si manda accluso con le lacrime agli occhi, e più al cuore, vedendosi in esso un esterminio così grave di un luogo pio che era il sostegno di questa povera città". E pensare che solo tre anni prima, dopo una revisione dei conti del Monte, ordinata dal granduca, gli ispettori avevano scoperto altri abusi, per i quali erano stati imprigionati i due Stimatori
Muzio Alberti e
Alessando Baratti, che morì in carcere. Evidentemente quella revisione non fu "diligente ed accurata"
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come la definirono i due ispettori; così, dopo la confessione del
Armenio Melari, da Firenze arrivò un altro ispettore -
Giovanni Nomi - e, senza por tempo in mezzo, furono messi in galera tutti i ventidue "ministri" del Monte Pio e sotto sequestro i libri d'amministrazione.
La difesa del settantaduenne Armenio, contumace, fu, per quanto era possibile, tentata da tre dei suoi figli maschi:
Annibale, vicario del vescovo di Capaccio, nel regno di Napoli; Fausto, coppiere del duca di Parma e Alessandro, mercante di pietre preziose a Venezia. L'altro maschio
Angelo, paggio del duca di Modena, era appena quindicenne e, insieme con le sette sorelle femmine, non compare nel processo.
Luogo di Monte, 1625. AMPaschi 682.
I giudici vollero subito scoprire i complici del Melari e per far questo cominciarono a intercettare le lettere che partivano da Siena indirizzate ai figli del camarlengo ladro, sequestrando le altre a loro dirette da fuori. Il metodo dette i suoi frutti: si venne a sapere che nella truffa erano coinvolti anche due cognati del Melari:
Gabriello Zuccantini, priore dei monaci di Santa Maria degli Angeli fuori Porta Romana e fratello dei due arrestati
Ippolito Zuccantini e Antonio, nonché il cavalier
Girolamo Lunadori.
Secondo i giudici era necessario procedere contro quest'ultimo "a tormento", ma trattandosi di un cavaliere dell'Ordine di
Santo Stefano, occorreva uno speciale permesso granducale
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Sui rapporti fra i gentiluomini senesi e l'Ordine Stefaniano v. Danilo Marrara, La nobiltà senese e l'Ordine di S. Stefano. Alcune considerazioni introduttive, in L'Ordine di S. Stefano e la nobiltà senese. Atti del Convegno (Pisa, 8 maggio 1998), Pisa, Ed. ETS, 1998, pp. 9-21. Un catalogo dei cavalieri stefaniani di origine senese si trova in Bruno Casini, I cavalieri dello Stato senese membri del Sacro Militare Ordine di S. Stefano Papa e Martire, Pisa, Ed. ETS, 1993.
. Il rescritto da Firenze arrivò il 10 novembre 1623 e diceva: "Possino procedere a la tortura contro la persona del Cav.
Lunadori, anco reiterata per una volta, et occorrendo altro, ne dieno avviso". Condotto allora nella Marcolina - la sala della tortura nell'ultimo piano del civico palazzo - Lunadori cominciò subito a confessare di aver scritto al cognato di non tornare mai a Siena, da dove era partito "troppo vergognosamente" e denunciando anche "molte cose attinenti alla sua malavita [e] delle spese mal fatte di giovani e di sodomie".
Il 14 novembre, "attaccato al canapo e fatto elevare, dopo elevato, stato poco poco, disse: 'calatemi che voglio dire la verità'. Allhora fatto calare, posto a sedere et interrogato rivelò i nomi di molti debitori del Melari. E di poi disse: 'scioglietemi che vi voglio dire un particolare che ne haverete gusto'. Allora dopo essere stato a sedere sinhora legato, fu fatto sciorre e rivestire, e di poi: '
Ottavio Melari [fratello di
Armenio Melari] non ha mille scudi, ma li mille scudi sono in mano del padre Maestro
Agabito Simoni, teologo in San Martino'".
Convinti che Lunadori ne sapesse molto di più sulla truffa del cognato, il giorno 18 i giudici lo fecero di nuovo salire alla Marcolina. Dopo altri tratti di corda, il cavaliere gridò di farlo scendere perché avrebbe detto la verità. "Allhora fu fatto calare e così legato, posto a sedere, sendo stato nel tormento quanto un'Ave Maria", disse di aver saputo del proposito di fuga del Melari e di avergli fornito il cavallo. Poco soddisfatti di tale dichiarazione, i giudici ordinarono altri tratti corda e allora Lunadori si lamentò di aver avuto in passato una frattura a un braccio e quindi di essere "impedito". Fatto visitare dal cerusico di palazzo, la frattura non risultò, per cui l'imputato fu di nuovo torturato. Dopo aver implorato di lasciarlo andare, "sospeso per lo spatio di un'hora intera d'oriolo a polvere", disse solamente che era stato lui a dare la notizia della fuga del cognato al cavalier
Ubaldino Malavolti, massaro del Monte Pio.
Il giorno seguente Lunadori non potè lasciare il suo letto e i giudici si contentarono di ratificare le sue dichiarazioni di fronte a due testimoni. Intanto i due figli del Melari,
Alessandro e Fausto, si davano da fare per fornire ai giudici "scritture [...] nelle quali - asserivano - si vederà il conto giusto" del debito, che a loro risultava di 34.000 scudi. Scrivevano anche allo zio Lunadori: "ci dispiace dei suoi travagli, che Vostra Signoria se lo puole immaginare. Stia più allegramente che si puole, et habbia patientia, che così facciamo noi".
Anche contro
Antonio Zuccantini e Ubaldino Malavolti si procedette all'"esamine rigoroso": il primo fu sospeso alla fune "per lo spatio di un'hora intera a oriolo a polvere" e al secondo, che aveva denunciato una vecchia slogatura della spalla destra, fu proposto "il tormento della sveglia o capra". A quel punto il Malavolti dichiarò: "Io voglio più presto il tormento della corda non ostante l'impedimento allegato, e lo voglio a mio rischio, perché questo è tormento da furti e da ladri". Fu accontentato, ma dopo un mese il cerusico certificò che, se rimaneva in carcere, sarebbe rimasto "stroppiato al certo" e così fu rimandato a casa in domicilio coatto con una cauzione di 4000 scudi.
Lo stesso trattamento ebbe
Demetrio Ugurgieri Azzolini, che dopo esser stato sospeso alla fune "per lo spatio di un ottavo d'hora", si ammalò "con particolare debolezza di virtù vitale et animale, sensitiva et motiva", per cui fu rimandato a casa, con una cauzione di mille scudi.
Al tormento della corda fu sottoposto anche
Ippolito Zuccantini, mentre al cancelliere
Selvi, che aveva sessantacinque anni e che fu giudicato incapace di sopportare quel supplizio senza rischiare la vita, fu applicato un altro castigo, quello "del dado", che consisteva nello stringere un piede dentro una morsa.
La sentenza, pubblicata il 29 ottobre 1624, stabilì che
Armenio Melari "fosse appiccato per la gola [...] con taglia a chi lo ammazzasse e che ne desse sicuro contrassegno di scudi dugento, et a chi lo desse vivo nelle mani della giustizia nelli Stati di Sua Altezza Ser.ma di scudi quattrocento". Inoltre fu condannato alla rifusione dei danni e alla confisca dei beni. Anche i suoi due figli Alessandro e Fausto, "consapevoli dei furti, falsità e ruberie del loro padre", furono condannati: il primo "alla galea a vita" e il secondo "alla galea per cinque anni et ambidue
in solidum fra di loro e con il loro padre a risarcire al Monte ogni danno patito"
12
Con un rescritto del 14 ottobre 1634 Alessandro e Fausto Melari ottennero la grazia, obbligandosi al pagamento rateale di duecento scudi l'anno per saldareil debito paterno (AMPio 21).
.
Gli
Zuccantini, l'
Ugurgieri e il
Selvi furono condannati alla perdita dell'ufficio e i primi tre anche a un periodo di confino fuori Siena. Per il
Ubaldino Malavolti e il
Lunadori, cavalieri di
Santo Stefano, la sentenza giunse dal tribunale della loro Religione, che condannò il primo a una quota di risarcimento del danno e a cinque anni di carcere e il secondo a un'altra quota e a cinque anni di confino a Portoferraio.
Gli altri imputati, e in particolare i membri del Magistrato, furono "assoluti e liberati dall'inquisizione".
Appena due giorni dopo la conclusione del processo
Melari, il 1° novembre 1624 la Balìa elesse quattro deputati con l'incarico di presentare il definitivo testo dei "Capitoli" del Monte dei Paschi.
Con
Agostino Chigi e Alessandro Sozzini, già presenti fra gli otto membri della prima commissione del 1619, il balì di Siena
Marcello Agostini e il dottor
Cesare Marescotti illustrarono il testo dei 49 articoli dello statuto nel Collegio di Balìa, che lo approvò all'unanimità, "salva però l'approvazione di Sua Altezza Ser.ma". Giunta la ratifica granducale il 3 novembre, agli otto Magistrati eletti per il triennio 1623-1626 al governo del Monte Pio fu affidato anche il governo del nuovo Monte; essi erano Guglielmo Guglielmi,
Francesco Gori Pannilini,
Lattanzio Finetti,
Alibrando Celsi,
Scipione Chigi, Virgilio Vecchi,
Carlo Rocchi e
Luzio Placidi.
Alla scadenza del 1626 al governo del nuovo Monte, secondo quanto prescriveva l'articolo 2 dello statuto, dovevano essere eletti dalla Balìa "otto cittadini del numero de' Riseduti [che, cioè, avevano fatto parte del Concistoro] non figliuoli di famiglia e d'anni trentacinque finiti, li quali siano non solamente d'integrità ed intelligenza principali, ma eziandio di ricchezze e d'esperienza de' negozii ed affari della città"
13
. Naturalmente doveva anche essere rispettata la scelta "per distribuzione di Monti", ovvero secondo l'equa rappresentanza dei tradizionali "gruppi ereditari di governo" che formavano la classe dirigente cittadina.
Cominciò, dunque, a operare il Monte dei Paschi, definito "non vacabile", cioè non insolvente per i depositi a esso affidati; per il loro rimborso, infatti, ed eventualmente per il pagamento degli interessi qualora l'istituto avesse avuto problemi di liquidità, la Dogana dei Paschi sarebbe intervenuta con le proprie entrate fiscali sui pascoli della Maremma fino a 200.000 scudi in capitale. Tale garanzia, fondata sui proventi d'una proprietà demaniale, era a sua volta assicurata da tutti i cittadini senesi con i loro beni mobili e immobili, non in solido, ma proporzionalmente a quelli posseduti da ciascun cittadino.
Accreditate come "Luoghi di Monte" (ogni Luogo aveva il valore di cento scudi e rendeva annualmente cinque scudi), le somme ricevute in deposito avevano, in pratica, le stesse credenziali di titoli del debito pubblico.
Tramite uno speciale contratto di "capitolazione", anche ai cittadini di altre comunità dell'antico Stato senese fu concesso "di poter metter denari nel Monte et riceverne con i medesimi emolumenti, interessi et condizioni di mallevadori che i medesimi senesi"
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ASS, Notarile post-cosimiano 424 (29 dic. 1622).
e molte furono queste comunità dette "capitolate". "Peraltro l'erario del Principe non pagò mai alcuna somma, né i cittadini ebbero danno per la loro rilevazione, perché il Monte dei Paschi esercitò sempre la sua attività valendosi unicamente dei capitali ricevuti in deposito, come unicamente dall'impiego di questi trasse i mezzi per la sua esistenza e per costruire il suo patrimonio"
15
[G. Prunai,] Monte dei Paschi di Siena. Cenni storici, Siena, Tip. Mariani, 1955, p.35.
.
A eccezione degli ecclesiastici, gli abitanti possidenti del luogo "capitolato" e i loro aventi causa accettarono la grazia di obbligare la loro Comunità con tutti i loro beni mobili e immobili, anche se in futuro avessero mutato residenza. Durante due secoli e mezzo, ben 190 furono le Comunità "capitolate" col Monte. La prima, con atto pubblico rogato il 14 giugno 1625, fu Giuncarico
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ACS, Preunitario 22, c. 43.
seguita poi da altri quarantatré paesi fino alla fine del secolo. Solo altre quattro Comunità si capitolarono nel Settecento, mentre nel XIX secolo furono ben 143, situate anche fuori dell'antico Stato senese; l'ultima fu Lucca, capitolata nel 1863.
"I confini del Monte dei Paschi si slargarono così a tutto il Granducato di Toscana. Poi, rilevato che fin dal 1788 era cessata la garanzia in origine prestata dal governo sui redditi gabellari dei pascoli di Maremma, si ritenne esaurita anche quella di "rilevazione" cui erano chiamate le Comunità, che intendevano fare operazioni con l'istituto, per cui il Magistrato del Monte il 28 giugno 1866 deliberò che "le operazioni del Monte dei Paschi potevano effettuarsi indipendentemente dall'obbligo dello strumento di capitolazione, in tutte le Comunità delle provincie toscane"
17
Romolo Camaiti, La diffusione territoriale del Monte dei Paschi di Siena, in "Il Monte. Notiziario aziendale", III (1964), n. 10, p. 10. Vedi, qui pubblicato, il Prospetto delle Comunità capitolate col Monte dei Paschi a tutto l'anno 1862 (da Prospetti statistici relativi all'amministrazione del Monte dei Paschi di Siena in corredo della petizione 31 luglio del Municipio senese al Parlamento Nazionale in favore dello stesso Istituto, compilati dal dott. Mario Bargagli, Segretario del Gonfaloniere di Siena e già membro per due bienni della Deputazione dei Monti Riuniti e pubblicati a cura dell'Amministrazione dei Monti medesimi, Siena, Tip. Sordomuti, 1863).
.
Gli articoli o "capitoli" 39-43 dello statuto riguardano le nomine e i compiti di dirigenti e impiegati del Monte dei Paschi, a partire dal provveditore, proposto dalla Balìa fra almeno sei "riseduti". Il prescelto non poteva avere parentele con il camarlengo e doveva "assistere al Monte ogni giorno che suona la campana, mattina e sera"; poteva essere riconfermato per altri tre anni e, insieme con altri incarichi, doveva "tenere un libro, marcato col segno del Maestrato, nel quale - recita l'articolo 39 - terrà conto del denaro che andarà in mano del camarlengo per cagione di vendite di Luoghi e per restituzione di tutte o parte di sorte principali prestate, come anco di quelle somme che per cagione di prestanze doverà con decreto del Maestrato sborsare, citando rispettivamente il foglio dell'entrata et uscita del camarlengo, acciò del continuo gli sia noto che denaro vi sia, a effetto di poter tenere ben informato il Maestrato, perché essendovene possa pigliar resolutione che non stia quivi ozioso con pregiudizio del Monte".
Altrettanto analitiche sono le prescrizioni per il camarlengo - che non poteva "sotto alcun pretesto esser confermato oltre l'anno e che era tenuto a prestare tre fidejussioni"- e per il bilanciere, cioè il contabile, che insieme col provveditore dovevano esser nominati dal granduca. La squadra era completata da un cancelliere, tratto dal Collegio dell'Arte dei notai e nominato dalla Balìa; da un "tavolaccino", cioè da un custode scelto dal Magistrato fra i "rotellini" del Palazzo Pubblico, e infine da un "fameglio" o servitore dello stesso Magistrato.
Ogni anno la Balìa doveva eleggere due revisori dei conti, escludendo figli o fratelli dei membri del Collegio. Il Magistrato aveva piena giurisdizione nelle cause civili "sopra i negozi concernenti direttamente o indirettamente gl'interessi del Monte [...] e dalle sue pronunzie e sentenze - recita l'articolo 12 - non si possi appellare o dire di nullità, avanti a qualsivoglia giudice e tribunale". Come in quelle civili, anche nelle cause criminali il Magistrato aveva "pienissima giurisdizione [...] non solamente sopra li Ministri del Monte, ma ancora sopra qualunque persona la quale, nel trattar negozi spettanti al medesimo, o che in essi direttamente o indirettamente havesse interesse, contravverrà - stabiliva l'articolo 13 - alle leggi et ordini e comandamenti del Maestrato e del provveditore; come anco contro qualsivoglia che commetterà fraude o dolo in pregiudizio del medesimo, procedendo contra i delinquenti, condennando secondo li presenti ordini, statuti e riforme della città di Siena, e di più nell'arbitrio, partecipando le sentenze della galera e della vita con Sua Eccellenza Ill. ma"
18
.
Il 3 gennaio 1625 il Monte dei Paschi aprì la sua sede e per primo vi depositò mille scudi il provveditore
Bulgarini, ricevendo dieci Luoghi. Seguirono poi
Giovanni Scala, servitore del Bulgarini e
Francesca di Giovanni da Sarteano, anche lei serva del provveditore, ambedue acquirenti di un Luogo, mentre altri dieci Luoghi li presero le monache di Santa Margherita in Castelvecchio tramite la loro camarlinga suor
Gesilla Bulgarini
19
Ivi, 1987.Vedi R. Camaiti, L'attività bancaria a Siena nel Seicento attraverso la ricostruzione e l'analisi statistica di cento bilanci del Monte dei Paschi di Siena, in "Archivi storici delle Aziende di credito", I, Roma, Associazione Bancaria Italiana, 1956, p. 40.
. Ognuno di questi titoli di credito era registrato in una "patente" in pergamena col sigillo del Monte, le firme del priore del Magistrato, del provveditore e del cancelliere e in alto con le figure della Madonna sopra tre piccoli monti, lo stemma mediceo e quello di Siena. L'autore di questi disegni fu
Antonio Gregori, pittore noto per gli ornamenti dipinti lungo un trentennio nel grande cero portato alla chiesa metropolitana il giorno dell'Assunta e per le miniature dei "Libri dei Leoni" del Concistoro. Allo stampatore
Bonetti fu commissionata la stampa delle prime cento patenti, che presto si esaurirono, potendo così il Monte far fronte alle numerose richieste di prestiti, che giunsero a ben 266 in quell'anno 1625, per un totale di 64 mila scudi.
Oltre le vendite dei Luoghi, ai mutui si faceva fronte anche con i depositi volontari o giudiciali, vincolati o infruttiferi, e con quelli pupillari e fruttiferi, passati per ordine del granduca dal Monte Pio a quello dei Paschi. Questo riscosse una grande fiducia e grande fu la concessione di mutui a cittadini di tutte le categorie, dai gentiluomini ai contadini, dai medici agli osti, dai fornai ai librai e così via. I Luoghi di Monte furono poi richiesti anche da monasteri, confraternite e addirittura dalla Santa Inquisizione cittadina, che con 400 scudi acquistò, il 30 gennaio 1626, quattro Luoghi.
Intanto però, alcune concessioni fatte da
Cosimo II, soprattutto riguardo alla libertà di commerciare il grano della Maremma, venivano revocate e fu ordinato che solo il Magistrato dell'Abbondanza poteva fare acquisto di quel prodotto. Proprio all'Abbondanza il Monte dei Paschi, nell'agosto 1626, fu obbligato a fare un prestito di ottomila scudi e l'anno seguente altri duemila furono prestati a
Luzio Placidi e
Sinolfo Petrucci per la bonifica del padule d'Orgia, non lontano da Siena e ai margini della strada verso la Maremma.
Circa questa terra, che andava sempre più spopolandosi, la Balìa senese si preoccupò d'impedire che il granduca ne infeudasse alcune porzioni, rivolgendo inutilmente la supplica a
Caterina de' Medici, governatrice della città. Sorella di
Cosimo II, Caterina era rimasta vedova del duca di Mantova
Ferdinando Gonzaga e si era ritirata in convento, ma il granduca nel 1627 la chiamò al governo di Siena. Ammalatasi di vaiolo, morì a soli trentacinque anni nel 1629 e nelle chiese senesi furono celebrate per l'anima sua diecimila messe. Intanto era stato nominato provveditore del Monte
Firmano Bichi, già camarlengo, il quale si trovò impegnato nell'attuazione delle volontà testamentarie di
Celso Tolomei, un nobile senese che aveva lasciato la sua sostanziosa eredità al fine di fondare in Siena un collegio per giovani "che avessero volontà di esercitarsi nelli studi delle lettere, per apprendere le scientie et operare virtuosamente"
20
ASS, Notarile post-cosimiano 580 (atto del notaio Alessandro Rocchigiani,
8 sett. 1628).
.
Il testatore raccomandava alla Balìa di "invigilare l'ordine et osservanza" delle proprie volontà, osservando che il Monte dei Paschi sarebbe stato il "più atto e proporzionato" per amministrare i beni ereditari. Questi erano soprattutto crediti per cambi e censi, cioè per prestiti non considerati illeciti come quelli usurari, ma ammessi perché il guadagno del cambiatore era solo un compenso al rischio, cui egli si esponeva date le frequenti variazioni subite dalle valute monetarie.
Il
Celso Tolomei auspicava che ogni anno, nella seduta inaugurale del Magistrato del Monte, il cancelliere leggesse "con voce intelligibile" tutto il testamento "insieme con il bilancio delle scritture [...] e tutti quelli che vi si trovassero presenti fossero honorati di un par di guanti per ciascheduno della valuta di giuli tre il paro; et in quel tempo che fosse fondato et eretto il collegio, in luogo delli guanti dovesse darsi una forchetta di argento della valuta di giuli dieci l'una"
21
.
Tutti i proventi dell'eredità dovevano essere impiegati nei Luoghi di Monte. Quando il valore di quei titoli fosse giunto a diecimila scudi, tale somma si sarebbe dovuta reinvestire "in tanti beni stabili non separati, ma huniti più che fosse possibile, né molto lontani dalla città, in bon paese e fruttuosi terreni coltivati o almeno atti alla coltivazione". Raggiunto poi un capitale di 50 mila scudi, si poteva dar "principio a l'opera di fondare et ereggere il detto Collegio o Seminario, con ordine che il Collegio di Balìa, con la buona gratia del Ser.mo nostro Padrone, provedesse di luogo et abitatione proporzionata e comoda".
Infine, una parte residuale delle rendite ereditarie doveva essere destinata al mantenimento dei poveri orfani della città, perché imparassero un mestiere e "ogni sei mesi - ordinava il Tolomei - uno del Maestrato insieme con il provveditore" doveva far visita alle botteghe dove quei giovani si esercitavano "per riconoscergli et interrogare se attendessero e facessero buon profitto".
Postosi all'opera per il "moltiplico", ovvero per la capitalizzazione delle rendite dell'eredità, il Magistrato del Monte chiese alla Balìa nel giugno 1634 di poter aprire il Collegio anche se gli utili non avevano ancora raggiunto la somma prescritta dal testatore. I gesuiti, però, giudicarono prematura la fondazione dell'istituto, che infatti fu aperto solo nel novembre 1676 in un edificio contiguo a palazzo Tolomei, dove furono accolti dieci giovani, quasi tutti appartenenti a nobili famiglie. L'anno seguente, rivelatasi insufficiente quella prima sede, la Balìa affittò palazzo Piccolomini, dove il Collegio si trasferì nel 1683, divenendo uno dei seminaria nobilium più noti dell'Italia centro-settentrionale.
Anche il Monte aveva ampliato la sua sede, affittando due stanze nel palazzo Spannocchi, contiguo alla Rocca Salimbeni, per gli uffici del cancelliere e del bilanciere. Nel 1637 poi per quest'ultimo fu acquistata un'abitazione, che aveva l'entrata accanto alla "loggia del Monte"; così "il medesimo bilanciere - scriveva il provveditore del Monte alla Balìa - haverebbe avuto maggior facilità di tenere le scritture a giornata, che allora difficilmente succedeva, benché egli per supplire tenesse a sue spese giovani che lo aiutavano; oltre che ciò avrebbe accresciuta reputatione e sicurezza di quel luogo, dove stava tanta quantità di denaro, l'assistenza continua di un ministro"
22
AMPaschi 3, cc. 97-99 (25 giu. 1637).
.
Copertina del volume degli stemmi di famiglia
dei convittori del Collegio Tolomei, 1576. BCS,ms.K I 26.
Oltre l'ampliamento della sede, che dimostra lo sviluppo della sua attività, il Monte si preoccupava anche di decorare gli uffici, commissionando all'intagliatore
Francesco Arrighetti e al pittore
Antonio Gregori una "tavolella" con i nomi e gli stemmi di famiglia dei Magistrati e dei Ministri
23
Ivi, 331, cc. 33-33v (23 nov. 1627).
e poi allo scultore
Tommaso Redi due candelieri in bronzo con la lupa in cima e con due putti - forse
Aschio e
senio - seduti in basso
24
Ivi, 336, c. 38 (21 mar. 1632). I due candelabri furono poi donati dal Monte alla Compagnia di Santa Caterina in Fontebranda il 26 gennaio 1644.
.
Qualche anno dopo a
Raffaello Vanni fu commissionato un quadro per ornare l'ingresso della Cancelleria. Rappresenta la Madonna col Bambino attorniata da sette ridenti e paffuti Serafini e la tela è racchiusa in una bella cornice intagliata da
Romolo Parrini
25
AMPaschi 347 (6 giu. 1644).
.
Nel primo quinquennio di attività, dal 1625 al 1629, le scritture contabili del Monte dei Paschi - tenute in "moneta di conto", ovvero in scudi (o piastre) di moneta di lire sette e mezzo l'uno
26
La lira si divideva in 12 crazie o in 20 soldi e il soldo in 12 denari o 60 quattrini. Lo scudo d'oro corrispondeva invece a lire 7 e mezzo.
- dimostrano un rapido incremento nel numero delle operazioni, sia nei depositi sia nelle prestanze, pur rimanendo pressoché statico il loro importo
27
. Cfr.R. Camaiti,
Statistiche bancarie ed economiche al principio del XVII secolo, Siena, Università - Facoltà di Giurisprudenza, 1969, passim.
. Per il "modo di domandare denari al Monte" il capitolo 20 degli statuti disponeva che il provveditore dovesse prendere informazioni sul richiedente, esigendo "una o più promesse idonee, fino alla somma di scudi 500 e sopra a detta somma due promesse idonee o più secondo i casi". Il garante era obbligato
in solidum col debitore, insieme agli eredi e successori.
La garanzia per le comunità e gli altri enti doveva essere prestata da persone fisiche che si obbligassero in proprio. Le prestanze non erano, di regola, a brevissima scadenza; il termine di un anno, infatti, poteva essere prorogato quattro volte, "talché il debitore avesse cinque anni di tempo a pagare".
I Magistrati del Monte non potevano prendere in prestito denaro e neppure essere garanti per altri durante il loro incarico; il loro stipendio era "ad un buon livello comparativo nell'ambito dei dipendenti pubblici cittadini; difatti il provveditore era al quarto posto fra gli otto rettori e provveditori della città e gli altri ministri erano all'incirca al terzo posto rispetto a quelli delle altre magistrature"
28
.
Il successo del Monte dei Paschi spinse il Magistrato a chiedere un aumento del suo fondo di 50 mila scudi. "Quantunque da qualche anno si fosse cicalato da qualcheduno di non buona amministrazione", scriveva il senatore
Alessandro Venturi al governo fiorentino, l'istituto senese aveva percorso un "buon cammino", illustrato analiticamente di fronte ai 154 membri del Consiglio generale riuniti il 29 dicembre 1639 nella Sala del mappamondo del palazzo civico. "Ogni giorno - fu detto in quell'occasione - venivano molti a domandar prestanze, il che era segno chiarissimo dell'utilità grande che haveva apportato ed apportava detto Monte alla comune patria e suo Stato". Non solo: "Con questo Monte si sono estinti centinara di migliara di scudi di cambi (peste perniciosissima di questa città e Stato di Siena), poiché si è veduto ad esperientia che con poca somma di denari si sono distrutte notabili facultà e ricchezze di molti [...] Si sono estinte molte e grosse partite di censi, li quali [...] distruggevano le sostanze intiere di molte famiglie [...] Si sono maritate molte fanciulle e fatti molti parentadi, che per altro non si sariano fatti, poiché, bisognando in tali occasioni sborsare almeno qualche somma di denaro, si è preso dal Monte, che d'altrove, se non con difficoltà, non si poteva havere [...] Ha apportato ed apporta il Monte grandissima utilità e benefitio ad infinite persone religiose, secolari, vedove, pupilli e simili, le quali havendo qualche somma di denaro e non potendola impiegare a frutto, sì per non essere quantità grande, ma anco per non havere chi glieli impieghi o riscuoti, l'hanno impiegato con facilità e con modesto frutto in questo Monte [...] Trattiene il Monte il denaro in Siena e nello Stato, il che è utilissimo per tutti, chè altrimenti anderebbe fuori dello Stato con utile di pochi, essendo astretti i facoltosi (come si vede per esperientia) ad impiegarlo in Roma, Napoli ed altre città forestiere, di che non sentirebbero utile alcuno i bisognosi di Siena e dello Stato [...] Utilissimo è il Monte per i ricchi e per chi ha denaro da impiegare, sì perché impiegandolo nel Monte si impiega sicuro in fondo honesto di frutto e facilissimo d'esattione, bastandogli solo al suo tempo andare con borsa aperta per il suo denaro"
29
.
La richiesta fu accolta e quindi fu portato in avanti il limite per la vendita dei Luoghi e per l'affluenza dei capitali, che il Monte doveva gestire. A tal proposito nell'agosto 1633 erano stati presi alcuni provvedimenti che riguardavano i componenti del Magistrato, "tenuti in proprio" per le conseguenze eventualmente dannose delle operazioni da loro deliberate
30
, ma per altri versi cautelati sulle loro scelte, come appare da un'altra proposta di riforma statutaria, poi approvata dal granduca. "Essendo la carica di provveditore, camarlengo, bilanciere e cancelliere, compreso il tavolaccino, alquanto odiosa e difficile da esercitarsi senza disgustare talvolta alcuno, rimanendo quegli offeso di ciò che per debito d'offitio si eseguisca, li medesimi, compreso ancora il coadiutore del cancelliere e tavolaccino, per loro maggior sicurezza, habbino facoltà, durante la carica, di portare arme offensiva e difensiva, tanto fuori della città come dentro, e tanto di giorno come di notte, dandosi spesso il caso che anco di notte devino assistere e ritrovarsi al Monte"
31
.
Riguardo al suddetto tavolaccino, ne era stato richiesto uno particolare, al quale doveva esser dato un salario di 36 scudi all'anno e, ogni triennio, "un vestito turchino e verde come costumano portare i donzelli del pubblico palazzo, co' aggiunta di un Monte d'argento o d'altro nella casacca da una banda e co' obligo d'accompagniare la Signoria in tutte le sue uscite pubbliche"
32
.
Secondo l'articolo 45 dello statuto, il tavolaccino doveva aprire la sede del Monte e stare a disposizione del Magistrato ogni giorno, "sempre che non sia feriato".
Anche se non era feriato, lunedì 20 febbraio 1634 l'ufficio del Monte rimase chiuso e - come è registrato nel libro delle delibere del Magistrato - "non sonò la campana per occasione d'essersi tirato nella torre di piazza la campana grande detta il Campanaccio, tragittato modernamente"
33
Ivi, 337, c. 46 (20 febbr. 1634).
.
Insoddisfatti ormai da secoli del suono della campana grande, costruita dai campanari fiorentini
Ricciardo e
Agostino nel 1347 e posta nella torre civica, i senesi avevano deciso di farne una nuova nel 1633. Affidato l'incarico al maestro novarese
Antonio Ceranini, questi stabilì il suo laboratorio per la fusione sotto le navate del duomo nuovo, davanti all'ingresso dell'Opera metropolitana. Fallita la prima fusione, dalla seconda nacque infine una "grossa squilla", battezzata nel gennaio 1634 col nome di Maria Assunta. Il 3 febbraio si cominciò a issarla sulla Torre del Mangia e proprio lunedì 20 febbraio l'operazione, che era stata funestata da alcuni incidenti, si concluse alla presenza delle "autorità", fra cui i Magistrati del Monte.
Purtroppo, appena un anno più tardi, quella campana si ruppe in un punto percosso dal batacchio e rimase muta per trent'anni, finché la Balìa decise di fonderne un'altra che, per volere del principe
Mattias, governatore della città, il 30 settembre 1666 fu definitivamente issata sulla cima della torre e non nella cella campanaria sottostante. "Sunto", come i senesi chiamarono il loro campanone di oltre sei tonnellate, era stato costruito da
Girolamo Santini da Fano e dal senese
Giovan Battista Savini in uno stanzone del convento di San Francesco e fu restaurato nel 1831, dopo che un cretto era apparso sulla parete. Fu sufficiente una limatura della ferita e il suono di Sunto divenne ancor più autorevole e armonioso.
"Il nostro campanone - scrisse
Giovan Battista Vieri nel 1668 - è riuscito in grandezza et in peso il maggiore che a' nostri tempi sia in Italia, poiché per quanto ho procurato e avuto notizia in Roma ne sono delle grandi, ma non come il nostro; come ancora quella campana di Loreto è grande, ma assai meno e manco migliore del nostro è a Fiorenza, e grande è quella in Mantova con le finestrelle, ma tutte minori di grandezza"
34
ACS, Pre-unitario 67: Giovan Battista Vieri, Relazione sulla fabbrica del campanone.
.
2. I "poveri vergognosi" e la riduzione dei frutti
Se il primato di Sunto riempì d'orgoglio i senesi, ben altri erano invece i motivi di preoccupazione per il futuro di una città che andava sempre più spopolandosi e che subì, come altre in Toscana, i danni della cosiddetta "guerra Barberina", scatenata dal papa
Urbano VIII - Maffeo Barberini - contro
Odoardo Farnese, duca di Parma e di Castro, l'altro ducato dei
Farnese in Maremma. Per difendere la città di Castro, rivendicata dai
Barberini, scese in campo una lega, di cui faceva parte anche il granduca di Toscana
Ferdinando II, cognato del Farnese.
La guerra, conclusa con la pace del 31 marzo 1644, incise drammaticamente nelle finanze del Granducato, con notevole aumento del debito pubblico e la necessità d'imporre nuove tasse, come quelle sulle macine e sulle parrucche e con l'aumento della gabella dei contratti, della gabella di Dogana e di quelle sul vino e sul grano. Da parte sua, il Monte dei Paschi fu invitato ad aiutare "molte famiglie e di nobili e di onorati cittadini et artigiani, ai quali disconveniva il palesemente accattare": erano i cosiddetti "poveri vergognosi".
Specialmente la nobiltà minore subì sotto il governo mediceo una grave crisi demografica
35
George R.P. Baker, Nobiltà in declino: il caso di Siena sotto i Medici e gli Asburgo-Lorena, in "Rivista storica italiana", LXXXIV (1972), pp. 584-616.
. Col declino della redditività dei terreni i piccoli proprietari si trovarono costretti a sacrifici sopportati con difficoltà e addirittura con vergogna per dover abbandonare alcuni privilegi cui erano abituati. Alla fine del XVI secolo
Giovanni Botero, nelle sue
Relazioni universali, aveva messo in luce alcune differenze fra fiorentini e senesi: "Con lo Stato di Fiorenza confina quello di Siena, città fortissima di sito; ma che con la libertà ha perduto assaissimo dell'antica frequenza e splendore. Gira cinque miglia e fa ventimila anime. Non è lontana più di trentatré miglia da Fiorenza: ma con tanta differenza d'humori e di costumi che nulla più. Quelli sono parchi e ritirati; questi larghi e hospitali; quelli tenaci e providi dell'avvenire; questi facili e quasi giornalieri; quelli cupi e pensosi delle cose loro; questi schietti e con l'intrinseco nella fronte [hanno cioè nel viso ciò che hanno nell'animo]; quelli intenti alle mercantie e al guadagno, questi contenti delle loro entrate e de' frutti della villa"
36
Giovanni Botero, Delle Relationi universali, Parte prima, Roma, Ferrari, 1595, p. 87.
.
La carenza di tali frutti spinse le famiglie signorili più fortunate verso una situazione d'indigenza, messa in luce anche nelle domande, che alcuni giovani nobili presentarono per ottenere un "alunnato Mancini" al fine di proseguire gli studi universitari. Istituiti da
Deifebo Mancini, già medico di Urbano VIII, nel 1633, gli alunnati erano gestiti dalla Compagnia della Madonna sotto le volte dell'Ospedale, che esaminava le richieste e assegnava le borse di studio. Fra il 1640 e il 1650 anche i figli di un bilanciere del Monte dei Paschi e di un impiegato del Monte Pio presentarono la domanda. Il primo è
Fortunio di Fortunio di Bartolomeo Saracini; questi, in un foglio allegato allo scritto del figlio presenta l'elenco delle entrate di famiglia: con 351 scudi all'anno - scrive - "ha da alimentare e vestire sé, sua moglie e tre figlioli, due masti e una femmina; il maestro che tiene per i figli e due servi; [e] la figlia è di età di quindici anni vicina a dargli recapito". Il secondo è
Germanico di Mario Tolomei, che - scrive - "di suo padre non ha niente", dato che deve mantenere, con 103 scudi annui, la moglie, due figli e una serva
37
Archivio della Società di Esecutori di Pie Disposizioni di Siena, C.XIX. 152: Eredità Fratelli Mancini (cit. in Oscar Di Simplicio, Sulla "nobiltà povera"
a Siena nel Seicento,
in "Bullettino senese di storia patria", LXXXVIII, 1981, pp. 84 e 90).
.
Giovan Battista Vieri,
Il campanone è fissato in cima allaTorre del Mangia, 30 settembre 1666.ACS,
Preunitario 67.
Per aiutare questi cittadini fu ordinato che ogni anno dai frutti dei Luoghi "spettanti ai laici" il Monte traesse duecento scudi da dare al camarlengo della Dogana, quasi come una moderna ritenuta per tassa di ricchezza mobile sugli interessi dei titoli di credito.
Anche mille scudi di quelli che l'Ospedale Santa Maria della Scala aveva in deposito al Monte furono destinati al soccorso dei poveri della città, ai cui bisogni il Monte Pio riusciva con molta difficoltà a provvedere, ancora penalizzato dalle conseguenze della truffa del
Melari e da nuove elargizioni concesse dal granduca, come quella di 5000 scudi all'arcivescovo di Siena
Alessandro Petrucci. Questi aveva chiesto al Monte Pio un prestito di 1000 scudi nel 1622 per eseguire modifiche nel palazzo arcivescovile, con l'impegno di restituire la somma dopo cinque anni. Avendo speso molto di più, l'arcivescovo chiese nell'aprile 1627 la grazia al granduca di una "elemosina degli utili del Monte", che gli fu concessa con un'originale formula finale nella relativa delibera: "se n'accomodino le scritture, e non se ne dia più molestia alcuna"
38
AMPio 49, c. 50 (27 apr. 1627).
.
Non ostante gli ordini frequenti di "integine", cioè di pignoramenti, e di "tenute", cioè di sequestri, per i debitori, cacciati anche in galera, la difficoltà di riscuotere i crediti da parte del Monte Pio era sempre più evidente, fino al punto che l'istituto non aveva denaro sufficiente per esaudire le richieste dei prestiti contro pegno. Forse per cercare di evitare i rischi di un altro caso
Melari, il Magistrato del Monte decise nel febbraio 1641 che in mano al camarlengo non si doveva lasciare una somma maggiore di 5000 scudi; l'eccedenza doveva essere riposta in un cassone, custodito in una stanza chiusa da due porte, una delle quali munita di due serrature, le cui chiavi erano in mano al priore e al camarlengo. La chiave dell'altra porta la teneva il provveditore e quella del cassone lo stesso camarlengo. "E perché fino all'hora - proseguiva la delibera - non si era proveduto che si facesse mai contare e rivedere il denaro pervenuto alle mani del camarlingo, si ordinava che almeno alla fine di ciascun anno et ogni altra volta che piacesse al Magistrato, dovesse vedersi e contarsi dal camarlengo alla presentia del medesimo Magistrato, provveditore e cancelliere, il quale ultimo doveva rogarsi del fatto, al libro delle deliberazioni"
39
AMPaschi 1, c. 47 (15 feb. 1641).
.
Eppure, non ostante queste cautele, un altro massaro ladro seguì le orme del
Armenio Melari nell'agosto 1652, trafugando denaro e molti pegni dal Monte Pio e portando il bottino prima in una sua villa nei pressi di Siena e poi da lì, con l'aiuto di alcuni contadini, nel convento di Sant'Andrea a Montecchio e nella canonica di Santa Maria a Pilli. Si chiamava
Girolamo Ghezzi-Borghesi ed era massaro del Monte Pio dal 1° settembre 1646. La sentenza del processo in contumacia intentato contro di lui, definito uomo dai "centomila rigiri", lo condannò alla forca e alla confisca dei beni, con la stessa taglia decisa per il Melari a chi l'avesse preso vivo o morto: 400 e 200 scudi.
Federigo Joni, piatto posteriore della copertina del IV volume de
Il Monte di
N. Mengozzi, Siena, 1893. AMPaschi,
Mostra.
Furono condannati al confino e al pagamento in solido dei danni il conte
Marc'Anto'd'Elci e Camillo e
Ottaviano Borghesi, considerati complici del massaro, la cui refurtiva fu recuperata, dato che la Curia arcivescovile permise l'accesso ai "luoghi immuni" dove era stata nascosta
40
.
Due anni dopo la stessa Curia fu demolita insieme con l'antico palazzo dell'arcivescovado "per mettere il duomo in isola", secondo il volere del nuovo pontefice
Alessandro VII, il senese Fabio Chigi, che si trovò anche coinvolto nello sforzo della rapida ricostruzione della chiesa di San Francesco, distrutta nell'agosto 1655 da un terribile incendio, nel quale andarono perdute molte opere d'arte in essa conservate. Una Deputazione costituita per il ripristino della chiesa riuscì a raccogliere sufficienti fondi, depositati al Monte dei Paschi, per raggiungere l'obiettivo nell'arco di soli tre anni.
Ci volle qualche anno in più perché il granduca approvasse un'importante riforma, che permise al Monte di dare denaro in prestito a interesse più mite del 5 e due terzi per cento. Il provveditore
Francesco Cerretani, infatti, aveva fatto presente in un suo rapporto che "più era il debito del quale il Monte stesso pagava i frutti ai creditori, che il credito dal quale traeva l'interesse dai debitori, superante i Luoghi di Monte alle prestanze che si facevano; e questo disastro non aveva rimedio, perché i facultosi non volevano denaro ad interesse così rigoroso, et ai mediocri e deboli non se gli poteva prestare senza correre il risico de' frutti e del capitale"
41
Parere del provveditore del Monte sulla riduzione dei frutti, in Statuti o capitoli del Monte dei Paschi di Siena con le modificazioni introdottevi fino all'anno 1871 preceduti dall'istrumento di fondazione del novembre 1624, pubblicati dalla Deputazione dell'Istituto, Siena, Lazzeri, 1872, p. 199.
. Bisognava perciò "ragguagliare" gli interessi con quelli "che correvano in piazza", riducendo il frutto dei debitori al cinque e quello dei creditori al quattro e un terzo per cento.
La proposta fu approvata solo il 26 maggio 1660 e i creditori dei Luoghi furono invitati a presentarsi per ottenere una nuova patente e annullare la vecchia.
Anche il Monte Pio aveva presentato un memoriale, denunciando le perdite della sua gestione e chiedendo un deposito di 4000 scudi. Ne ottenne 3000, provenienti da "avanzi" di vari luoghi pii, da restituire qualora alcuni di questi ne avessero avuto bisogno. Tuttavia, non ostante l'aumento del suo fondo infruttifero disponibile, il Monte Pio navigava sempre in brutte acque e di nuovo nel 1664 lamentò di non poter più far fronte alle richieste della povera gente.
La crisi delle industrie della lana, del lino e del cuoio, un tempo importanti manifatture cittadine, non era stata arginata da provvedimenti tesi soprattutto a proibire l'importazione di quei prodotti, e così anche l'azione del Magistrato dell'Abbondanza, che proibiva la vendita del grano fuori dallo Stato e imponeva ai produttori determinati prezzi, aveva contribuito, insieme con le scarse raccolte di metà Seicento, a deprimere il settore cerealicolo, dove gli agricoltori non trovavano ormai sufficiente profitto.
Ad aggravare la già depressa economia del territorio senese giunse la legge del 27 novembre 1664, relativa alla gabella del sale. Genere di monopolio, che lo Stato obbligava a comprare e da cui traeva notevole guadagno, il sale non poteva essere importato in Toscana. Per evitare tale rischio fu deciso di tingere di rosso il prodotto locale con un metodo inventato da un certo dottor
Uliva
42
R. Galluzzi,
Storia del Granducato
cit.,VII, cap. IX, p. 87.
. Per chi trasgrediva c'era la "pena e bando della galera a beneplacito di Sua Altezza, della confiscazione dei beni e della perdita del sale, bestie, carri o altri istrumenti dove fusse sopra caricato; e quanto alle donne et inabili alla galera, la pena della frusta e confiscatione dei beni"
43
Legislazione toscana raccolta e illustrata dal dottore Lorenzo Cantini socio di varie accademie, XVIII, Firenze, Stamperia Albizziana, 1805, p. 173.
.
Purtroppo anche istituzioni senesi un tempo solide come l'Ospedale Santa Maria della Scala e la Casa della Sapienza lamentarono, negli ultimi anni del governo di
Ferdinando II, gravi turbamenti nei loro bilanci. Il rettore dell'Ospedale, oltre proporre limitazioni all'accoglienza degli esposti e degl'incurabili, riuscì a ottenere che i pellegrini, tradizionalmente ospitati per tre giorni, potessero fermarsi una sera sola, a meno che "non fossero necessitati dal temporale o da lassezza del pellegrinaggio"
44
ASS, Balìa 203 (21 genn. 1671).
. Per pagare un debito al Monte Pio la Casa della Sapienza chiedeva una dilazione, trovandosi "in disastro per le cattive raccolte fatte l'anni passati et i mezzaioli di essa non haver da vivere"
45
AMPio 63, c. 13v (26 nov. 1668).
.
Altri lamenti erano giunti alla Balìa da un semplice cittadino,
Lorenzo De Rocchi, che il 2 marzo 1666 denunciò che "da certo tempo in poi seguivano molti disordini nella città, alli quali pareva si dovesse porre qualche rimedio: primo, disse che erano state demolite molte case in più luoghi; secondo, l'acque dei bottini pubblici, e particolarmente di Fontebranda, si perdevano, per non ritrovarsi e farvisi l'assetti necessari; terzo, erano state guaste le strade, essendo in molti luoghi state alzate per comodo de' particolari, senza riguardo alla bruttezza che facevano; quarto, la piazza publica era ridotta in così cattivo stato, che era necessario il risarcirla prima che fosse affatto guasta, che sarebbe poi stato molto più difficile di rassettarla per la spesa grave che avrebbe portato"
46
ASS, Balìa 202, c. 187 (2 mar. 1666).
.
Il governatore di Siena
Mattias de' Medici non ebbe tempo di prendere in considerazione le rimostranze del De Rocchi; morì, infatti, l'11 ottobre 1667, "compianto - come scrisse
Girolamo Macchi - da tutta la città, per essere stato sì benigno verso di essa [...] Gli fu fatto in duomo un superbo e nobile catafalco tutto dipinto ad uso di fortezza e ci fu assai torcie".
Tre anni dopo morì anche
Ferdinando II, il fratello granduca, e salì al trono di Toscana
Cosimo III, che nel 1661 aveva sposato - solo per ragioni di strategia politica -
Margherita Luisa d'Orléans, cugina di
Luigi XIV. Il matrimonio con la bella e frivola principessa era stato celebrato per procura, dato che lo sposo, diciannovenne, era a letto col morbillo.
Innamorata di
Carlo di Lorena, che la venne a trovare a Firenze subito dopo le nozze, Margherita, non ostante i tre figli avuti con Cosimo, fu una moglie insofferente e capricciosa, che nel 1675 tornò in Francia, da dove scriveva al rassegnato marito: "Tutte le stravaganze che potrò fare per dispiacervi le farò, e questo non me lo potete impedire"
47
R. Galluzzi,Storia del Granducato cit., VIII, cap. III, p. 155.
.
Lo sfortunato
Cosimo III, tutto preso dalle sue pratiche religiose, si consolò facendosi nominare dal Papa canonico lateranense, mentre il suo primo figlio
Ferdinando, che evidentemente aveva il carattere della madre, se la spassava quanto più poteva fra balli, teatri e "virtuose" veneziane, come una certa Bambagia. Morto sifilitico nel 1713, Ferdinando non lasciò eredi e la vedova di lui,
Violante Beatrice di Baviera, fu destinata da Cosimo III al governatorato di Siena.
Anche i matrimoni del fratello "scardinalato"
Francesco Maria e degli altri due figli del granduca -
Anna Maria Ludovica e
Gian Gastone - furono infecondi e proprio Gian Gastone, successo al padre nel 1723, dovette nel 1731 riconoscere suo successore don
Carlos di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna e di
Elisabetta Farnese. Su tale decisione pesò anche il fatto che Siena era stata data in feudo a
Cosimo I dal re di Spagna e quel nodo, non essendo mai stato sciolto, faceva ancora accampare pretese; il governo della Siena "infeudata" era teoricamente autonomo, sotto la reggenza di un principe mediceo.
In realtà tutto, in ultima istanza, doveva essere approvato dal granduca, in particolare riguardo alle riforme suggerite dagli Otto Deputati sopra gli Ordini del Monte, che il 3 dicembre 1680 proposero "di ridurre l'interesse a favore de' debitori di esso Monte a scudi 4 e un terzo per cento l'anno, et il frutto dei creditori del medesimo a scudi 3 e due terzi [...], quando non si potesse ridurre a 3 e un terzo per i creditori et a 4 per i debitori"
48
.
Gli Otto giustificavano la loro richiesta perché il Monte "non faceva più prestanze, o poche e tenui, et il denaro dei Luoghi di Monte superava in grave soma quello delle prestanze; et erano notabilmente scemati li depositi per impiegarsi, con il denaro dei quali il Monte sosteneva la grave escita che haveva fra frutti ai creditori e spese del Monte, non potendo cavare dai suoi debitori quanto per detto effetto era necessario"
49
.
Inoltre - concludevano gli Otto - si doveva considerare in primis "che ogni casa privata, ogni luogo pio e publico e tutte le città avevano ridotti l'interessi a 4 per cento et anco a meno, e non con altro motivo che di non tenere otioso il denaro; anzi, purchè non stesse otioso, e dove si vedeva l'impiego sicuro, molti facevano fino i censi a 3 per cento, che pure non se ne poteva esigere la sorte".
Infine, che "due furono i fini dell'erettione del Monte, uno di introdurre una più sicura negociatione del denaro, e l'altro di raffrenare l'usura, ed il conseguimento di questo perché non svanisse, richiedeva il mantenimento del primo, che pure sarebbe svanito se il Monte avesse perso il concorso; e per ciò stesso il secondo fine si era conseguito, si doveva haver pensiero di conservarli ambedue"
50
.
L'approvazione giunse solo dopo quattordici mesi sulla base del 4 per cento per i creditori e del 4 e due terzi per cento per i debitori
51
. Poco prima il granduca aveva deciso di esonerare il Monte dall'amministrazione dell'eredità
Tolomei e di procurare all'omonimo Collegio una sede più ampia. Gli allievi dell'istituto, infatti, avevano superato il centinaio e provenivano ormai da ogni parte d'Italia. Trasferito nel 1683 nel palazzo Piccolomini, accanto alle Logge del Papa, il Collegio ebbe più volte contributi da parte del Monte, che aveva già sovvenzionato il Seminario di San Giorgio e che fu obbligato a fornire al Monte Pio, a titolo gratuito, capitali che, costandogli un frutto, incidevano sui suoi legittimi interessi.
3. Le annate "penuriose e calamitose"
"Il problema dell'equilibrio fra raccolta e investimenti - ha scritto
Romolo Camaiti - si è sempre imposto all'attenzione e alle cure degli amministratori del Monte, anche se esso in determinati periodi, soprattutto per contingenze esterne nelle quali il Monte ha pur dovuto svolgere la propria attività, ha dato luogo a momenti critici. Ricordiamo come il Monte si preoccupasse di esporre mensilmente, nelle sedute del Maestrato, il rapporto fra la garanzia, i Luoghi di Monte alienati e le prestanze: gli amministratori miravano sempre a mantenere la corrispondenza tra l'ammontare dei Luoghi di Monte e quello delle prestanze. Era stabilito che non si potevano accettare richieste o tanto meno alienare nuovi Luoghi di Monte, se non dopo il reinvestimento delle prestanze rimborsate e ciò allo scopo di non creare un eccesso di disponibilità di denaro improduttivo nelle casse del Monte.
Ovviamente, nel caso opposto (domanda di prestanze non sorrette da richieste di Luoghi di Monte) si sarebbe prodotta una deficienza di disponibilità di denaro. Tale ordinamento, iniziato durante un periodo di carenza di denaro, non trovò sempre applicazione col passare degli anni"
52
Romolo Camaiti, L'attività bancaria cit., p.63.
. È di questi anni - fra il 1680 e il 1693 - un'anonima relazione, conservata nell'archivio della famiglia
Gini di Prato, dove - oltre varie interessanti notizie sulle magistrature senesi, lo Studio, lo Spedale, le famiglie nobili e così via - si accenna anche al Monte dei Paschi, che "dà danari a 4 e due terzi per cento e piglia danari a 4 per cento, perché - scrive l'anonimo - quei due terzi servono alle spese di quindici o venti persone bene provisionate, cioè otto Signori di Magistrato, con un provveditore, massaro, camarlenghi, computisti, cancellieri, bilancieri, scrittori, stimatori ecc. Le maggiori provisioni sono de' camarlenghi e proveditori, che passeranno 200 piastre. Ed in questo s'incorpora anco il Monte Pio, cioè dei pegni. V'è chi stima che la fondazione di questo Monte, circa al '620, sia stata di rovina alla città, per rendersi pigri gl'uomini in guadagnare con mercatura o altro, trovando ivi il danaro contato. Et altri stimano che sia profittevole, perché ha tolto l'infiniti checchi e cambi secchi, che si facevano fino a 15 per cento dalli Ebrei particolarmente"
53
Osservazioni dello Stato di Siena, fatte nel tempo che vi son stato, ma senza individual ricerca, in Rodolfo Livi, Una relazione economico-politica sulla città e Stato di Siena nella fine del secolo XVII, "Bullettino senese di storia patria", XV (1908),
pp. 215-232.
.
A completamento di queste osservazioni, l'anonimo relatore aggiunge: "I Senesi stanno meglio a nobiltà che a quattrini. Vi sono molte case aggravate da debiti. Ogni una però ha da sostenersi particolarmente per la multeplicità de' sopradetti magistrati ed impieghi delle commende, sì di
S. Stefano come di Malta, di sorte che quasi nessuno sente gl'effetti dell'estrema povertà"; e conclude ripetendo il giudizio di
Botero: "I senesi son uomini giornalieri, [...] cioè che vivono d'oggi in domane, cioè con poca economia, poco applicati alla robba, molto dediti alle lettere, di spirito elevato e d'ingegni acutissimi, e perciò poco assidui, e se sono impiegati in governi, curie od altro, regolarmente passano l'altre nazioni e riescono nobilmente, prima [per] la capacità grande, 2° perché si vergognano di tirare al quattrino; e se pur talvolta ci tirano, lo spendono più tosto con prodigalità che liberalità [...] Tutta la nobiltà, per lo più, è più che infarinata di rettorica, filosofia, legge, et alle volte teologia. Fanno le dispute publiche ed esami con gran garbo et habilità; ma, regolarmente, dottorati che sono, non studian più seriamente in quella professione, ma solamente quelli che s'applicano all'avvocatura, giudicatura, governi, letture ecc.; e questo non riesce a molti perché hanno e poca pazienza e pochissimi quattrini per mantenersi fuora lungamente a proprie spese secondo la loro splendida inclinazione".
A questi senesi, che parvero all'anonimo commentatore così poco attenti ai loro interessi,
Cosimo III impose nel 1692 la cessione al guardaroba granducale del quadro di
Francesco Vanni con
Giuseppe Ebreo in Egitto, che ornava la cancelleria del Monte Pio dal 1596 e che poi fu trasferito nella Galleria degli Uffizi nel 1815
54
La tela tornò in deposito nella sede storica del Monte dei Paschi nel 1955.
.
Purtroppo il succedersi di "annate penuriose e calamitose" faceva continuamente aumentare il numero dei poveri, come dimostra anche la cifra degli esposti nell'Ospedale di Santa Maria della Scala, salita nell'arco di mezzo secolo da 500 a 1500. Per far fronte alle spese dei baliatici, divenute troppo onerose, nel dicembre 1694 fu deciso di congedare gli esposti allevati in città a sedici anni compiuti e quelli allevati in campagna a quattordici anni. Specie fra questi ultimi si scoprì che ce n'erano molti legittimi, che avevano rimpiazzato gli esposti morti, in modo da non far perdere alle nutrici il loro guadagno. Si decise allora di marcare il piede sinistro dei neonati esposti col segno della Scala, rendendo così riconoscibile la loro origine.
Qualche mese prima, nel giugno 1694, era stata approvata una nuova riduzione dei tassi d'interesse: 3 e mezzo per i creditori e 4 e un ottavo per i debitori, con l'aggiunta di una restituzione forzata per sorteggio di 32.000 scudi di Luoghi di Monte. Non solo: fu regolata anche la gestione delle cosiddette "partite decotte" o di difficile esazione, che ammontavano a oltre tremila scudi e così, nell'arco di un anno, la cifra dei mutui superò quella dei Luoghi di Monte di oltre 9000 scudi.
Anche l'Accademia dei Rozzi, nell'ottobre 1694, ricevette un prestito di 120 ducati dal Monte per estinguere un debito causato dall'acquisto di una stanza contigua alla sua sede e lo stesso Monte, quattro anni dopo, fu obbligato a prestare a rate - e a titolo gratuito - fino a 3000 scudi al Monte Pio, trovatosi in difficoltà con la propria cassa. Non è dato sapere quanto a tale deficienza di cassa abbiano contribuito alcune nuove malversazioni di magistrati della pia istituzione, verificatesi negli ultimi anni del XVII secolo.
Nell'aprile 1693, infatti, il Capitano di giustizia avocò a sé una causa intentata contro lo Stimatore del Monte Pio
Francesco Avveduti, che aveva commesso "più falsità e fraudi intorno ai pegni"
55
AMPio 182, c. 105 (21 apr. 1693).
e che, per la notevole somma rubata, fu condannato in contumacia alla pena della forca e alla confisca dei beni, pena poi condonatagli diciotto anni dopo.
Il Magistrato del Monte Pio rinunciò alla sua facoltà di esercitare la giurisdizione criminale anche nel caso dello "scrittore"
Girolamo Gori, che un famiglio dello stesso Monte Pio accusò, nell'aprile 1703, di aver rubato sui pegni "per lo spatio di sette anni"
56
. Il processo, celebrato di fronte al Capitano di giustizia, rilevò che il
Gori aveva già confessato il suo reato al massaro
Giovanni Maria Petrucci e al camarlengo
Pandolfo Spannocchi, obbligandosi alla rifusione dei danni insieme col proprio padre
Carlo; poco dopo però era fuggito. Anche stavolta la sentenza fu di condanna "nella pena ignominiosa della forca e confiscatione dei beni". Alla rifusione dei danni furono condannati i due revisori del Monte Pio
Adriano Ballati e
Alberto Finetti per la loro grave negligenza e senza tenere conto del particolare privilegio del Ballati quale Cavaliere dell'Ordine di Santo Stefano.
Alla supplica diretta al governatore di Siena un anno dopo, presentata a nome dei due figli del Gori, "fanciullini di due e quattro anni", che dicevano di essere rimasti soli con la madre e due zie e di aver cercato di sanare almeno in parte il debito di circa 1000 scudi lasciato dal padre, chiedendo di poterlo definitivamente saldare con una rata di dieci scudi l'anno, non fu data alcuna risposta.
Una chiara e positiva risposta fu data, invece, dal governatore all'auditore di Siena, che aveva chiesto, facendosi portavoce del Magistrato degli Otto, un'ulteriore riduzione dei frutti per i creditori e i debitori del Monte dei Paschi, motivando la richiesta con queste parole: "È noto a Vostra Altezza Rev.ma il Monte dei Paschi essere uno dei migliori e più importanti capitali che abbia la città e Stato di Siena, e però si rende necessaria ogni attenzione per sostenerlo. Si ritrova oggi in stato di manifesta declinazione, riconoscendosi evidentemente dai libri lo sbilancio che fanno le spese sopra l'entrate con danno considerabile del medesimo Monte, quale si fa il conto che presentemente sia in scapito di ottomila scudi in circa; mentre nell'ultima riduzione seguita nel 1694 fu considerato che, per reggere e tenere in pari il Monte dovessero i Luoghi superare le prestanze, nella somma di scudi millecinquecento. Due sono le cagioni di questo disordine. La prima è la diminuzione dei negozj che rende superiore al bisogno il capitale del Monte; e la seconda è il rigore eccedente del frutto che non alletta i particolari a prendere il denaro dal Monte, trovandolo nella piazza a più mite interesse; e per la medesima ragione vengono restituite giornalmente le migliori partite di debitori che trovano il denaro altrove a frutto molto minore. Due altresì sono i rimedi proposti a S. A. R. dal Magistrato per la conservazione del medesimo Monte; la estrazione di parte dei Luoghi di detto Monte a fine di porre in bilancio il dare e l'avere, e la reduzione dell'interesse, tanto di quello che si paga dal Monte a' creditori, quanto di quello che si esige da' suoi debitori [...] Il Magistrato del Monte propone la detta reduzzione dei frutti a ragione di scudi tre per cento, et hanno da pagarsi a' suoi creditori e di scudi tre e due terzi da esigersi dai debitori del medesimo Monte, che in oggi a tenore dell'ultima reduzzione del 1694 paga a' creditori tre e mezzo e riscuote da' debitori quattro e un ottavo per cento. La Deputazione degli Otto è di parere di fare la riduzione a scudi due e due terzi rispetto a' creditori e a scudi tre e un terzo rispetto a' debitori. In questi termini pare a me la detta riduzione più praticabile perché di maggior profitto per il Monte"
57
.
Fu accolta la proposta del Magistrato con rescritto sovrano del 4 giugno 1701 e quei saggi d'interesse rimasero finalmente immutati per oltre un secolo.
Raggiunto questo obbiettivo, il Magistrato del Monte riuscì, dopo anni di polemiche, a risolvere a suo favore anche una controversia con l'arcivescovo di Siena
Leonardo Marsili, iniziata nel 1696. Il 10 giugno di quell'anno, infatti, il provveditore del Monte
Patrizio Venturi illustrò dinanzi alla Balìa la pretesa dell'arcivescovo - presentata alla Sacra Congregazione dell'Immunità ecclesiastica a Roma - di rifiutare la giurisdizione del Monte sopra i beni dei debitori dell'istituto, se i successori di questi erano "eredi clerici"; in questo caso l'eventuale causa avrebbe dovuto, secondo il
Marsili, essere discussa nel foro ecclesiastico
58
ASS, Balìa 213, c. 121 (10 giu. 1696).
.
La Balìa, a difesa delle ragioni del Monte, chiese il patrocinio del granduca, del governatore di Siena - che era allora il cardinale
Francesco Maria de' Medici - e dell'altro cardinale senese
Bichi, membro della Congregazione dell'Immunità ecclesiastica, ma anche "cittadino meritissimo e affezionatissimo alla sua patria"
59
Ivi,c.122 (11 giu. 1696).
.
La contesa fu, alla fine, vinta dal Monte, che riuscì a salvaguardare le sue prerogative giurisdizionali. Nello stesso periodo il granduca ottenne che gli ecclesiastici contribuissero alle spese statali. Dopo varie trattative, finalmente il papa ordinò che il clero secolare e regolare pagasse, "per la quantità e qualità dei beni che ciascuno ecclesiastico possedesse, la quarta parte di quello che per la medesima quantità e qualità dei beni sarebbe stato tassato ciascuno effetto del laico"
60
Legislazione toscana cit., XXI, pp. 32 e 39.
.
Si procedette, perciò, al difficile accertamento delle rendite ecclesiastiche, senza comprendervi quelle dei cardinali, del Sant'Offizio, delle Commende dei Cavalieri di Malta e dei benefizi curati, "i frutti dei quali non eccedessero l'onesto sostentamento dei parrochi", nonché dei benefizi vacanti, i cui frutti "dovevano pervenire alla R. Camera Apostolica"
61
Archivio Arcivescovile di Siena, Cause delegate 5759. "Proprio dalle annotazioni della banca senese relative ai creditori [...] si ha una conferma sia dell'alta concentrazione della ricchezza, sia altresì dell'enorme patrimonio in mano agli ordini religiosi. Infatti i creditori del Monte erano nel 1694 solo 176 che possedevano 2.090 Luoghi di Monte così distribuiti: 1282 a particolari, 634 a Congregazioni e Opere pie e 174 a conventi, cioè circa il 48% del corrispondente totale della liquidità bancaria" (Laura Carli Sardi, Variabili socio- economiche di una città attraverso una ricerca di statistica storica: Siena nel XVII secolo, in "Studi senesi", XXXVII, 1998, suppl. II, p. 1007).
.
L'entrata annua della diocesi di Siena risultò essere di 66.100 scudi annui, che - a ragione di scudi 2, soldi 2 e denari 13 per cento - comportarono una tassa di 7302 scudi, un soldo e dieci denari, pagata dal camarlengo delle collette ecclesiastiche a quello delle collette laiche di Siena nel settembre 1703.
Da tempo le preoccupazioni dei senesi per il gran numero di conventi e per i privilegi degli ecclesiastici erano state manifestate al governatore
Mattias, al quale giunse nel 1642 anche una lettera anonima assai esplicita su alcuni problemi che angustiavano la città. "Da molti anni in qua - scriveva l'anonimo - nella città di Siena si fanno pochissimi parentadi nobili, perché le fanciulle, di cento, novanta per lo più con vari modi sono violentate ad entrare nei monasteri e farsi religiose contra le leggi di natura divine e humane. Ne segue da questo inconveniente, prima di tutto le famiglie restano illaqueate in peccati e censure con certezza dell'ultimo sterminio della medesima città. Secondo, che la città e Stato si andaranno sempre maggiormente spopolando. Terzo, che li beni laici si ridurranno tutti nei monasteri e per le doti che giornalmente vi entrano e molto più per le eredità nelle quali di continuo succedono. Quarto, che per aggrandire i monasteri, conforme all'accrescimento del numero, si impadroniscono delle habitationi dei laici sì come hanno fatto quasi tutti [...] Che li superiori e ministri ecclesiastici non provedino a disordini così esorbitanti non dà meraviglia. Li ministri laici, per la loro bontà dubitano forse che non attenga a loro questo fatto. Ma vero è che tocca agli uni e agli altri l'opporsi alle violenze hormai troppo notorie et inique. V.A. Ser.ma, che è padrone e padre di tutti, volti l'occhio a tanto male, perché sola può rimediarlo; tocca a Lei più d'ogni altro, e la sua grandezza, perché gli toglie e diminuisce i sudditi, gli leva li beni, e con questi e con quelli gli leva anco l'entrate. Se con la vostra carità paterna si rimedia, Dio vi prospererà, gli ecclesiastici superiori guardaranno più all'obbligo loro, e i laici parenti delle fanciulle non ardiranno tanto, si applicaranno a maritarle fuora con le doti che si danno a monacare che recusano di fare, parendogli degradarsi a locarle per lo Stato, benché a robba l'accomoderiano benissimo! Chi scrive non ardisce comparire, ma scrive il vero, et ha zelo che giunga una volta a V. A. alla quale humilissimo s'inchina e prega felicità"
62
ASS,Archivio Sergardi Tiberio Sergardi, A 19 (20 feb. 1642).
.
Il principe
Mattias volle conoscere il parere della Balìa su questa lettera e dai tre deputati incaricati di rispondergli ricevette una relazione dove si diceva "con ogni reverenza che il contenuto in essa è vero; che in Siena già alcuni anni molte fanciulle nobili si fanno monache e pochissime se ne maritano. Che ciò si faccia per violenza, come in detta lettera si dice, non ne costa; ma ben crediamo che piuttosto prevaglia in molte la forza della ragione, o vero la necessità che, vedendo l'impotenza delle case loro, a quella cedono. La ragione unica di questo disordine, crediamo che sia il difetto del denaro che è grande in questa città, per uscirne a capo d'anno più che non ve n'entra, come facilmente può esserne informata V. A., al che non prendendovi rimedio in tempo, non pure continuarà l'inconveniente sopradetto, ma, piaccia a Dio, che non ne segua la totale esterminazione e l'impotenza di corrispondere al granduca N.S. di quello che per ragione legale gli si deve"
63
Ivi,lettera del 23 mag. 1642.
.
I tre Deputati aggiunsero anche queste altre informazioni: "Molto inchinano li cittadini, ancora senza ragione, ad essere contrari al forestiero, al contadino et al plebeo. Però è necessario che il governatore ne pigli la protezione [...] Se bene vedano li gentiluomini essere estinte molte famiglie nobili, e la cittadinanza diminuita, e che conoscano ch'a conservarla sarìa necessario invitare molti, honorevoli e facoltosi, alla città con renderli partecipi della cittadinanza et esserli in ciò facili, massime con quelli che pigliassero per mogli gentildonne povere, nondimeno in questo sono molto scarsi, commettendo errore grande, come che non curino la conservatione della città e la moltiplicatione che in altro non consiste che nella quantità delli cittadini [...] Però il governatore nell'occorrenza di ragionare con loro, farà bene a persuaderli a procurar questo rimedio, perché li crederanno e col tempo ne succederà grandezza alla città. E tanto maggiormente ne succederà questo, se il Governatore havrà particular cura che li gentiluomini non conculchino, come fanno per difetto loro naturale, li plebei e bottegai, quali vorriano inghiottire, e non soddisfare mai di quello li devino o per mercede o robbe levate dalle loro botteghe; difetto notabilissimo in quella città e contrario ad ogni buon termine di giustizia; al quale se il governatore con la sua autorità rimedierà ne succederà molti buoni effetti"
64
.
Come aveva fatto la Balìa per risolvere la questione degli "eredi clerici", anche lo stravagante letterato senese
Girolamo Gigli si rivolse al cardinale-governatore
Francesco Maria de' Medici per ottenere il permesso di vendere alcuni suoi immobili a un prete. Si trattava di un forno e di una bettola posti "alla Costarella" e una parte del denaro ricavato dalla loro cessione doveva servire a pagare un debito di cinquanta scudi, che il Gigli aveva contratto col Monte dei Paschi
65
AMPaschi 1484, n. 96 e c. 134.
. La domanda fu accolta il 13 agosto 1692 e il debito fu saldato, ma la reputazione del
Gigli come persona affidabile sotto il profilo finanziario andò sempre più scemando. Quattro anni dopo, infatti, quando si dovevano scegliere i candidati alla magistratura dei Paschi, il Gigli - che aveva già fatto parte della Balìa - venne segnalato dal Segretario delle leggi come persona "di poca diligenza". Lui stesso, quasi per antifrasi, assunse nell'Accademia degli Intronati il nome di "Economico", difendendosi per tutta la vita da creditori insoddisfatti e subendo addirittura l'esilio per le polemiche suscitate dal suo
Vocabolario Cateriniano. Per la stampa di un'altra sua opera -
Vita, Epistole e Dialogi di Santa Caterina - Gigli chiese un mutuo di cinquecento scudi al Monte dei Paschi, usando la garanzia di tre dei suoi dodici figli e promettendo in pegno cinquecento copie del libro
66
Ivi, 1490, n. 36 (14 giu. 1706). Cfr. Roberto Gagliardi, Girolamo Gigli, in Storia di Siena, II, a cura di R. Barzanti, G. Catoni, M. De Gregorio, Siena, Alsaba, 1996, p. 140 e G. Gigli, Vocabolario Cateriniano, a cura
di G. Mattarucco, prefazione di M.A. Grignani, Firenze, Accademia della Crusca, 2008, p. 17.
. Non ostante le perplessità del Magistrato degli Otto per la singolarità del contratto, l'operazione andò in porto e sia il massaro del Monte
Giovanni Maria Petrucci che il cancelliere
Giuseppe Porrini agevolarono in ogni modo la vendita dei volumi. La cosa, però, si protrasse per vari anni, finchè nel 1718 furono venduti all'asta alcuni beni del Gigli sequestrati per conto del Monte
67
AMPaschi 421 (16 dic. 1717 e 30 ag. 1718); 1493, n. 67.
e l'autore del
Diario Sanese scrisse al provveditore dell'istituto, lamentandosi del cancelliere Porrini, che non gli faceva "grazia di rispondere alle
sue lettere; mi do a credere - osservò - che codesto Magistrato habbia dato ordine ai Cancellieri di codesta Curia che non tengano commercio coi debitori del Monte, come sospetti del comune contagio, di non pagare o di pagare malvolentieri"
68
.
Eppure, fino ad allora, grazie anche ai buoni uffici dell'amico letterato
Umberto Benvoglienti - uno degli Otto Magistrati del Monte -
Girolamo Gigli aveva avuto sostanziosi aiuti dal Porrini, da lui ripagato con la seguente nota nel
Diario Sanese: "Il sig. dott. Giuseppe Maria Porrini nella Congrega dei Rozzi detto l'Imbrunito, notaro delle Riformagioni e cancelliere del Monte dei Paschi, ha mostrato il proprio talento tanto nei suoi componimenti che nelle recite delle commedie"
69
Girolamo Gigli,Diario
Sanese, II, Lucca, Venturini, 1723, p.273.
.
Meno tenero il Gigli fu con i membri della Balìa che eleggevano gli amministratori del Monte: nella
Stanza XXXIII del
Seminario degli affetti, dedicata all'ipocrisia, si legge infatti: "Tanto nella Balìa di Siena accade / quando dee rinnuovar gli uffizi il Monte; / spesso (come quest'anno) a dignitate, / a zelo, a senno più fave son conte. / Ma spesso quelle toghe la beltade / vuol dispensare, e al merito far fronte; / e col favor di un riso o di un inchino / elegge il Magistrato cittadino"
70
Scritti satirici in prosa e in verso di Gerolamo Gigli per la maggior parte inediti raccolti e annotati da L. Banchi, Siena, Gati, 1865, p. 104.
.
A quegli "Uffizi del Monte" colpiti dalla vena satirica del Gigli aveva partecipato per due bienni come membro del Magistrato il dottor
Alcibiade Lucarini Bellanti, che nel 1704, "stante la continua e sempre maggiore declinatione che giornalmente si riconosceva nella città di Siena", presentò alla Balìa alcune sue proposte "che potevano esser di riparo e profittevoli per sostenerla e sollevarla"
71
ASS, Balìa 217 (28 nov. 1704).
.
Tali proposte furono meglio articolate dieci anni dopo in uno scritto dello stesso
Lucarini
72
BCS, ms.A.IV.18:
Parere del cavaliere Alcibiade Lucarini per la Città e Stato di Siena fatto l'anno 1715, c. 6 (in Alessia Zappelli, Alcibiade Bellanti Lucarini (1645-1724). Le vicende familiari, la presenza nell'Ordine di S. Stefano e il pensiero politico di un nobile senese, presentazione di D. Marrara, Pisa, ETS, 2002, p. 149).
. Dopo aver osservato che bisognava bandire il giuoco, favorire i matrimoni, incentivare le manifatture e le bonifiche agrarie, il Lucarini ricordava che a Siena c'era "il Monte dei Paschi, che, con tenuissimo frutto e colla facilità di poter pagare qualsiasi piccola somma a conto di sorte, somministrava il primo principio ad ogni povero uomo d'esercitarsi e perfezionarsi in ogni impiego lucroso ad util pubblico e privato". Concludeva poi indicando "tre capi principali", in cui "consisteva il bene della città di Siena, coi quali restava ancora superiore a molte città dell'Italia, quantunque situate in luoghi molto più fertili e commodi"
73
BCS, ms.A.IV.18: Parere cit., c. 10.
. I tre "capi" erano: la strada Romana, lo Studio e lo Stato; questo - secondo il
Lucarini - doveva essere riformato, cominciando con la riduzione del numero dei membri della Balìa, dieci dei quali dovevano essere nobili di Siena e dieci "da cavarsi uno per città e capitanato dello Stato a elezzione dei popoli loro et altri dieci da cavarsi dall'Università e corpi dell'artisti delle dieci arti più numerose". Nessun pubblico Magistrato poteva poi occupare contemporaneamente due cariche, "ma soltanto passare da una a un'altra".
I suggerimenti del Lucarini rimasero inascoltati; altre erano, infatti, le urgenze che pressavano i governanti senesi, alle prese con i problemi causati dal passaggio di truppe tedesche dirette in Maremma per liberare Port'Ercole, occupato dai franco-spagnoli. Le spese per l'alloggio e il mantenimento di quelle truppe, che lasciarono il territorio senese solo nel maggio 1712, incisero pesantemente sull'erario del Granducato, costretto a imporre una nuova imposta per alimentare un'apposita "Cassa dei quartieri". La speciale Giunta creata a Siena per contribuire a detta Cassa propose addirittura l'erezione di un nuovo Monte dei Paschi, con un fondo di almeno quarantamila scudi, il quale "non doveva avere connessione alcuna col primo, e perciò espressamente doveva dichiararsi che non si intendevano in conto alcuno toccati i fondi destinati per la sicurezza dei creditori del primo Monte dei Paschi, ma fosse un nuovo Monte totalmente separato da quello".
I Signori Otto e il Magistrato del Monte riformularono la proposta della Giunta e inviarono al granduca un testo, dove si precisava che "qualunque persona, tanto secolare che ecclesiastica, volesse metter denaro in questo secondo Monte, dovesse esser sicura ritrarne ogni anno, ed ogni sei mesi la rata, scudi tre e due terzi, pell'interesse di ogni cento scudi".
Inoltre, "per la sicurezza della restituzione delle somme de' denari che fossero posti nel secondo Monte, e pel pagamento dei frutti, dovevano restare obbligate fino all'intiera restituzione delle respettive sorti, e di detti frutti, tutte le rendite delle casse della Dogana pell'estimo, come anco quelle della cassa del sale, e dei quattro Conservatori dello Stato, e di ciascheduna di esse
in solidum, compresovi anco tutti gli debitori di dette casse respettivamente, quanto quelli che si fossero creati in futuro, fino all'intiera restituzione dei detti scudi 40 mila o più che fossero; e pel pagamento ancora dei frutti; con dichiarazione però che l'obbligazione che avrebbero fatta i deputati per quella imprestanza di scudi 40 mila a favore dei creditori del nuovo Monte, dovesse comprendere ancora tutte e ciascheduna entrata di ciascheduna Comunità dello Stato, e precisamente di quelle che non erano obbligate al Monte della prima erezione". Infine "i detti scudi 40 mila, o meno o più che fossero stati, dovevano darsi in presto alla Cassa dei quartieri, per valersene nelle sue occorrenze"
74
AMPaschi 415 (12 genn. 1712).
.
Il progetto di questo secondo Monte non andò a buon fine e fu il primo Monte a riaprire la vendita dei suoi Luoghi, esitandone fra il 1708 e il 1711 per diciottomila scudi. Tuttavia, anche questo fatto - a detta del provveditore - "non haveva operato altro che una semplice proroga di poco tempo pel temuto fallimento del Monte dei Paschi"
75
, costretto a prestare denaro gratis al Monte Pio, che nel 1711 era debitore a quello dei Paschi di tremila scudi. Su sollecitazione del Magistrato, il granduca decise che il Monte Pio dovesse corrispondere al suo creditore almeno il frutto del tre per cento "che pagava ai particolari, dai quali riceveva denari in deposito".
L'obbiettivo che il Monte cooperasse alla raccolta del denaro per ristabilire un sufficiente equilibrio nelle pubbliche finanze fu perseguito assegnandogli il compito dell'esazione di una nuova imposta sulla macellazione delle carni. Chi entrava in città, anche con una piccola porzione di carne macellata, doveva recarsi al Monte a fare la polizza per il pagamento, che variava secondo il tipo di animale: "bufala, bue, ginigia, manza, birracchia, vitella, castrato ed agnellotto, pecore e capre, majali"
76
.
Denunciata la scomodità per i contribuenti di recarsi al Monte per la polizza, fu deciso che la gabella potesse essere pagata ai cassieri delle porte, dai quali il camarlengo del Monte doveva poi ricevere il denaro, lasciando loro un "onorario" del cinque per cento.
Così il Monte iniziò nel 1715 ad esercitare la nuova funzione di esattore di tasse nel pubblico interesse.
Per consolarsi dell'aumento di antichi e nuovi balzelli, i senesi festeggiarono con sincero entusiasmo l'arrivo di una principessa come governatrice della loro città.
Violante Beatrice di Baviera, vedova del principe ereditario
Ferdinando II, fu destinata da
Cosimo III a occupare la carica che - dalla morte del principe
Francesco Maria nel 1711 - era stata affidata a una Consulta, un tipo di governo troppo modesto per le ambizioni di cittadini, ancora memori delle glorie della loro autonoma repubblica.
Violante fu accolta a Siena il 12 aprile 1717 con un grande entusiasmo e, non ostante i suoi brevi soggiorni nella città, non lasciò un cattivo ricordo. "Da parte dell'aristocrazia senese - ha scritto
Duccio Balestracci
77
Duccio Balestracci,
Violante Beatrice gran principessa di Baviera. Vita e storia di una donna di confine, Siena, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, 2010, p. 71.
- impegnata in una laboriosa (e non di rado contrastata) definizione del suo stesso status (in termini decisamente difformi da quanto sta avvenendo, sullo stesso campo e nello stesso tempo, nello Stato Vecchio), si sperava che la nuova governatrice stabilisse con lei un solido legame capace di corroborare e garantire gli assetti di ceto e i criteri di accesso a cariche e magistrature".
Purtroppo c'era qualcuno, proprio appartenente a quel ceto aristocratico, che non facilitava la realizzazione di tali prospettive: il nobile
Giovanni Maria Petrucci, massaro del Monte Pio, fu accusato nel settembre 1719 di essere fuggito dopo avere rubato molti pegni; questi - denunciò il Magistrato - "importavano a migliara di scudi in danno del Monte e erano stati sottratti da lui. Il quale nel tempo che si faceva la rassegna dei pegni affidati in custodia ai garzoni, e prima che si giungesse ad incominciare quella delle gioie, oro ed argenti, custoditi particolarmente da esso, se n'era fuggito via improvvisamente, né si era saputo più nuova di lui. Quindi si erano riscontrati mancanti 173 pegni sui quali era stata imprestata la somma di lire 62587"
78
AMPio 92, cc. 7-8v (2 ott. 1719).
.
Anche il nobile
Lorenzo Maria Rustici, camarlengo del Monte Pio da circa quindici anni, fu accusato di complicità col Petrucci. Si rilevò che la sua amministrazione "era tenuta malissimo, perché, oltre a moltissimi errori di calcolo per causa dell'entrata e dell'uscita, si erano vedute molte alterazioni di numeri e di somme e delle cassature". Risultò un debito a suo carico di oltre diecimila scudi e si seppe che lui si era rifugiato "in luogo immune", cioè nella Compagnia di
San Bernardino in San Francesco, passando poi in quella, forse più accogliente, di Sant'Ambrogio in San Domenico
79
Anche Giovanni Antonio Pecci nel suo diario narra il fattaccio: "Era già più giorni cominciata la revisione triennale del Monte Pio de' pegni di questa città; assistevano alla medesima due deputati del Maestrato che con attenzione esercitavano l'officio loro, quando
il 9 di settembre si sentì dire per la città che il cavalier Giovanni Maria Petrucci Massaio avea pigliato, verso Roma,
la fuga e Lorenzo Maria Rustici Camarlengo si era ritirato in San Francesco, lo che porgendo ampia materia al discorso per la città, per provedere all'occorrenti e impensate mancanze,
il Maestrato ricevè sopra di sé tutte le gioie, argenti e danari che furono truovati, e tirato il conto di quanto potea mancare, si truovò ascendere, tanto del Massaio che del Camarlengo, a molte migliaia" (Giornale Sanese (1715-1794) di Giovanni Antonio e Pietro Pecci, a cura di E. Innocenti e G. Mazzoni, presentazione di M.Ascheri, Monteriggioni, Ed. Il Leccio, 2000, p.20).
.
Dato che il Petrucci era cavaliere di
Santo Stefano, il granduca affidò la causa contro di lui al Capitano di giustizia e il Magistrato del Monte, rinunciando volontariamente alle proprie prerogative giurisdizionali, chiese alla governatrice
Violante di sottomettere anche il Rustici al giudizio del Capitano. Questi condannò il camarlengo alla pena della forca, alla confisca dei beni e al risarcimento dei danni al Monte
in solidum col Petrucci. La pena per il massaro, invece, oltre la rifusione dei danni, fu il carcere perpetuo nella torre di Volterra con la privazione dell'abito di cavaliere. Il procuratore legale del Monte Pio, però, consigliò che il Petrucci non fosse privato dell'abito dell'Ordine di Santo Stefano perché con la perdita della Commenda avrebbe aggravato la sua situazione economica e danneggiato alla fine lo stesso creditore. I Magistrati del Monte chiesero allora a Violante d'intervenire presso il granduca perché cancellasse la pena della privazione della Commenda; ottennero quanto richiesto e, il 7 giugno 1721, ricevettero la seguente lettera dalla governatrice: "Signori Uffiziali, siccome godo molto che la grazia fattasi da S.A.R., mio signore e suocero, al cav.
Giovanni Maria Petrucci a supplicazione loro, sia per contribuire alla più sollecita e più vantaggiosa sodisfazione del Monte, così giudico non poco il contento e la riconoscenza che da Loro mi sono ispirate in termini ben compiti. Et accertandoli del mio parzial'animo sempre disposto per le convenienze loro e del Monte, resto nell'augurar loro dal cielo ogni bene"
80
.
Anche al camarlengo Rustici fu mutata la condanna: non la forca, ma il taglio della testa
81
Ivi,24.Nelsuo diario, sotto la data del 13 settembre 1725, il Pecci scrisse: "Finalmente dall'Auditore della Ruota Agostino Seratti, a tale effetto dal granduca giudice delegato, fu pronunziato in causa tra il Monte Pio e Lorenzo Maria Rustici camarlengo stato di detto Monte, Giovan Battista Nuti bilanciere, loro fideiussori, revisori e ministri tutti del detto Monte e condannato detto Lorenzo Maria Rustici alla restituzione del derubato e nella pena afflittiva della testa, che i di lui fideiussori fussero tenuti pagare soli scudi 500 e non più, perché non poteva tenere in cassa maggior somma [...] Del Massaio, che era
il cavalier Giovanni Maria Petrucci, attesoché pagarono i fideiussori, a' quali dal Petrucci furono obbligati la moglie, figliuoli e fratelli, onde non soffrirono danno alcuno; non ne parlo, attesoché della pena afflittiva fu assoluto" (Giornale Sanese cit., p.57).
.
In complesso il danno per il Monte Pio fu di oltre 20.000 scudi e costrinse l'istituto a rimanere chiuso per alcuni mesi. Il nuovo massaro
Giovan Battista Spannocchi ottenne di non dimorare con la sua numerosa famiglia nella sede del Monte e gli fu concesso di restare a casa propria, contigua a quella del Monte, previa l'apertura di una porta comunicante con la sede dell'istituto.
Dopo cinquantatré anni di regno, nel 1723
Cosimo III morì alla vigilia di Ognissanti, una festa certamente a lui molto cara, dato che usava ogni mattina pregare di fronte al Santo del giorno, una statuetta d'argento posta su una macchina girevole insieme con altre 364. Fra i privilegi di cui il clero godeva sotto il suo regno, uno fu contestato a Siena proprio pochi mesi prima della morte di Cosimo. Si trattava del problema dei notai poi ordinati sacerdoti, i quali continuavano a esercitare la professione, offrendo ai clienti condizioni assai più favorevoli dei notai laici e avendo la possibilità di sfuggire alla giurisdizione secolare qualora fossero incorsi nel reato di non denunciare atti gabellabili. La Balìa senese incaricò
Bernardino Perfetti e
Bernardino Palmieri, già membro del Magistrato del Monte dei Paschi, di proporre una soluzione al problema. Stabilito che gli atti rogati dai notai ecclesiastici potevano essere considerati illeciti, ma non nulli, la questione rimase sostanzialmente insoluta e anche sotto il governo del nuovo granduca
Gian Gastone la soggezione al potere ecclesiastico da parte di quello laico non sembrò diminuire.
Nel 1731, per esempio, fu concesso all'arcivescovo di Siena di introdurre in città bestiame macellato senza pagare la gabella sulla carne; al posto del prelato, la tassa dovevano pagarla per cinque anni la Dogana e il Monte dei Paschi
82
ASS,Balìa 233, c. 153 (27 genn. 1733).
!
Allo stesso Monte era stato imposto un prestito di 1500 scudi alla Deputazione di sanità, che doveva predisporre idonee misure per difendere il territorio senese da imminenti epidemie e altri 300 scudi gli erano stati chiesti in prestito dallo Spedale di Monna Agnese, che, non trovando "da fare esito delle sue grasce" per le note restrizioni al libero commercio del grano, non sapeva ormai come soddisfare i suoi creditori
83
AMPaschi 1495, n. 41 (5 mag. 1722).
.
Al nuovo granduca venne riproposta la questione del libero commercio dei cereali da una Deputazione della Balìa il 2 maggio 1724: "Il Pubblico della città di Siena [...] reverente Le rappresenta che, da tempo in qua, essendo sempre più mancato nelle loro Maremme il prezzo e l'esito dei grani alla vela, è convenuto in ultimo ai faccendieri talmente abbandonare le semente che avendole già per tre anni ridotte circa al terzo meno di quello che precedentemente erano [...] la povertà e spopolazione di dette Maremme per tal cagione indotta, non solo gravemente perquote questa istessa città, ma lo Stato tutto. Poiché, oltre a non circolare più come soleva il denaro forastiero che per quella parte si introduceva, si è perduto l'esito di tante sorte di grasce, e quantità di vino, che in dette Maremme da tutto lo Stato vi concorrevano; onde prevedendo sempre maggiore l'irreparabile universale desolazione [...] supplica V.A.R. a degnarsi di dare proportionato sollievo [...] a un interesse di tanta rilevanza che non meno importa il sostegno di questo suo Stato che tutto il vantaggio ancora della cassa della R.A.V."
84
ASS, Balìa 484, c. 180 (2 mag. 1724).
.
La supplica, anche tramite i buoni uffici della principessa
Violante, fu in parte accolta con la concessione di poter commerciare i cereali maremmani in determinati mercati e con l'incremento dei prestiti del Monte dei Paschi agli allevatori di molte comunità della stessa Maremma, come Roccatederighi, Colonna, Chiusdino e Monterotondo.
Non tutte le petizioni senesi ebbero lo stesso esito: i lettori dello Studio, per esempio, rimasti nel 1728 senza stipendio, dovettero aspettare qualche mese per ottenere il pagamento del loro onorario e tre anni dopo, per la stessa ragione, solo il granduca pose rimedio al problema facendo sapere, con una lettera del Segretario di Stato alla Balìa, che le somme di denaro destinate alle esigenze senesi "sarebbero state anco più pingui, se l'erario della R.A.S. si fosse trovato in stato più florido"
85
Ivi,232,c.119 (3 lu. 1731).
.
La statua dell'Abbondanza, scolpita da
Donatello e posta in cima alla colonna romana nel Mercato Vecchio di Firenze, era crollata nel 1721 e non ostante fosse stata rifatta da Giovan Battista Foggini e rimessa sull'antico piedistallo non aveva portato quella fortuna che ci si aspettava.
Gian Gastone de' Medici poco faceva per migliorare le condizioni delle finanze pubbliche: steso per lo più sul suo letto, flaccido, incatarrato e contornato da una schiera di "ruspanti" - gente che lo divertiva con la paga settimanale di un ruspo, il fiorino fatto coniare da
Cosimo III nel 1719 - aveva dovuto accettare come suo successore il giovane
Carlos di Borbone. Divenuto poi il Borbone re delle Due Sicilie, la Toscana, che già aveva sopportato l'arrivo di truppe spagnole, fu destinata ai
Lorena, estromessi dal loro ducato dopo la guerra di successione polacca.
4. Sotto gli ultimi Medici
Con quella che i cittadini del Granducato chiamarono la "calata dei tedeschi" si concluse il ciclo della dinastia medicea. Poco prima della morte di
Gian Gastone, avvenuta il 9 luglio 1737, era giunto a Firenze il principe di Craon come rappresentante di
Francesco di Lorena. Ai toscani non rimaneva che sperare nella benevolenza dei nuovi padroni, che - come allora si diceva - avrebbero loro tolto i panni di dosso, ma che forse erano migliori degli spagnoli, che avrebbero tolto anche la pelle.
Negli ultimi anni del governo mediceo il Monte Pio senese, per provvedere ai prestiti, fu obbligato a prendere denaro a mutuo da privati al frutto del tre per cento
86
AMPio 99 (3 ott. 1731 e 23-25 mag. 1732).
e il Monte dei Paschi si trovò di nuovo alle prese con un vuoto di cassa in seguito a un altro furto di un suo camarlengo, anche stavolta membro della casata dei
Petrucci.
Ecco il testo della lettera che il procuratore legale del Monte
Anton Girolamo Bandinelli scrisse all'auditore di Camera fiorentino il 5 settembre 1731: "Con le lagrime agli occhi e con un quore [sic] addoloratissimo sono con questa mia reverente a farle sapere che il sig.
Niccolò Petrucci camarlingo stato tre anni di questa cassa del Monte non vacabile dei Paschi, si è ritirato in luogo immune, atteso il vuoto di più di migliara fatto nella cassa predetta di cui non posso dire a V.S. Ill.ma il preciso, perché si va riscontrando il denaro e le scritture; ma ai miei conti ascenderà a scudi ottomila in circa. Mi trovo adesso nel medesimo impegno di cui si ricorderà nel caso del peculato causato da
Lorenzo Maria Rustici. Devo muovere causa contro le promesse, contro molti offiziali, et in somma molestare molte persone con pochissimo loro piacere, con certezza di incontrar disgusti di consideratione [...] Sono pertanto a supplicare V.S. Ill.ma a volermi far grazie, che venghino di costà gli ordini opportuni [...] poiché, se [i Montisti] incominciano a sospettare del credito del Monte, va giù ogni cosa in rovina"
87
ASF, Negozi della Consulta di Siena, filza 12, n. 273. Sotto il titolo Peculato Petrucci così ricorda il fatto Giovanni Antonio Pecci nel suo diario:"Gli 4 del medesimo mese di settembre si ascoltò il ritiramento in chiesa che avea fatto Niccolò Petrucci, che appunto avea terminato il triennio del camarlengato del Monte de' Paschi, per il vòto cagionato a detta cassa di circa a scudi 8000
nel tempo della di lui amministrazione, onde per non esser le facoltà del Petrucci sufficienti al rimborso del detto peculato, ne soffriranno l'aggravio i di lui mallevadori, che sono Pietro di Patrizio Venturi Guelfi, Niccolò Gori Pannilini e Tommaso di Francesco Maria Petrucci". Poi, sotto il titolo Sentenza
di morte, prosegue il 4 aprile 1732:"Fu pubblicata la sentenza di condanna alle forche nella persona di Niccolò d'Annibale Petrucci
per reità di peculato nel camarlengato del Monte de' Paschi" (Giornale Sanese cit., pp. 85 e 91). Sulle misure di grazia a favore del Petrucci
v. ean-Claude WaquetJ, De la corruption, Paris, Fayard, 1984, p. 200.
.
Anche stavolta la causa fu deferita al Capitano di giustizia, l'arcivescovo dette il permesso di perquisire le stanze del convento di San Martino dove il Petrucci si era rifugiato e fu decretato il sequestro dei suoi beni mobili e immobili, poi venduti all'asta pubblica. Mentre contro il Petrucci, come testimonia in un'altra lettera l'Auditore di governo di Siena, "esclama la città, in specie i non nobili", i fideiussori del camarlengo ladro
Niccolò Gori Pannilini,
Pietro Venturi Guelfi e
Tommaso Petrucci, ricorrevano al granduca, affermando che avrebbero rifuso i danni subiti dalla cassa del Monte, escludendo però la somma passata allo stesso Monte per l'amministrazione della gabella della carne, cioè cinquemila scudi tenuti in deposito a disposizione della Balìa.
Questa gabella era - a detta dello stesso procuratore
Bandinelli - "la più gravosa di tutte le altre, pagandola fino quelli, e sono i più, che non mangiano carne. Ciò addiviene perché niuno rivede i conti al Magistrato, il quale si compone di Otto Gentiluomini, per lo più parenti, e che tra loro non si fanno gran male". I fideiussori del
Tommaso Petrucci - denunciava il procuratore - "si vogliono ingegnare di inviluppare ed imbrogliare la causa in modo che duri anco più di quella del
Lorenzo Maria Rustici [...] Per lo che V.S. Ill.ma conoscerà meglio di me quanto sia bisogno di un motuproprio pieno di calore, perché questa povera cassa non resti aggravata di tante liti, e non ne stia in pericolo di fallire, lo che seguirebbe quando non fosse prestamente reintegrata mediante ordini particolari e premurosi di S.A. R."
88
ASF, Negozi della Consulta di Siena, cit.
.
Da Firenze si rispose rilevando che i crimini a danno del Monte "cominciavano ad essere un poco spessi"
89
Ivi, lettera del Segretario di Stato Antonio Tornaquinci all'auditore della Consulta di Siena, 11 sett. 1731.
e anche la Balìa convenne in seguito che troppe erano le "mangerie commesse da alcuni nella riscossione di quella tassa" sulla carne
90
ASS, Mss. 27: Giovanni Antonio Pecci, Compendio delle materie più importanti dei libri detti Deliberazioni di Balìa (ad vocem "Gabella della carne").
, assai contestata, fra l'altro, da macellai, osti e pizzicagnoli, che chiedevano di pagarla non più a "testatico", cioè per capi, ma a peso. La richiesta non fu accolta e non sappiamo neppure come si concluse il processo contro il camarlingo Petrucci non essendo stati conservati i relativi atti; sappiamo solo che la moglie di lui,
Cecilia Perfetti, gli aveva portato in dote 3000 scudi; che dei tre figli, uno era gesuita e un altro sacerdote e che al suo nome, sempre preceduto nei documenti relativi al reato imputatogli dalle onorevoli qualifiche di
nobile o
signore, non è aggiunta mai una nota di biasimo.
Particolare riguardo era riservato anche a istituzioni come il Collegio Tolomei, amministrato dalla Compagnia di Gesù e che, non ostante la sua precaria base finanziaria, ottenne dal Monte dei Paschi un prestito di 500 scudi nel 1730 per restaurare il teatro nel palazzo Piccolomini, dando in garanzia i beni di Santa Colomba, e due anni più tardi si procurò un altro prestito di 1000 scudi con l'obbligo di restituirlo entro quindici anni. Cento scudi dal Monte li ebbe anche il pittore
Apollonio Nasini, che aveva ornato la chiesa di San Giuseppe. Mentre queste particolari domande di prestito venivano esaudite, lo Spedale di Santa Maria della Scala era costretto dal governo a restituire 1000 scudi al Magistrato dei Conservatori proprio nel momento in cui era "pieno di soldati spagnoli ammalati" - come si legge nelle carte della Balìa
91
ASS, Balìa 235 (10 mag. 1735).
- e "non aveva più luogo per gli poveri che si fossero ammalati in città, ed avessero voluto andare a curarsi in esso; e ciò in un'epoca prossima alla stagione in cui ve ne suoleva andare una maggior quantità".
Anche il Monte Pio si lamentava di non poter aiutare com'era uso i poveri che si rivolgevano a lui e chiedeva al granduca di poter "esigere i molti crediti, che, per causa dei peculati sofferti, scapiti nelle vendite dei pegni ed altro, aveva esso Monte Pio con più persone e mediante i quali era andato e andava ogni anno a scapito di buona somma [...]; perciò chiedeva che fossero concesse al Monte Pio tutte quelle prerogative e privilegi che, sì nel contrarre che nell'agire ed esigere, competevano al Fisco, col solo peso di una semplice intimazione alli debitori, come soleva praticarsi da tutte le Casse e Tribunali che avevano il braccio fiscale". La richiesta fu accolta, avendo sempre presente l'obbiettivo di scoraggiare il piccolo prestito ebraico, che alimentava tensioni antisemite, costantemente contenute anche da apposite leggi del XVI secolo, rinnovate nel 1735. Il 22 giugno di quell'anno, infatti, un bando granducale vietava di maltrattare gli ebrei "con fatti o con parole e di cantare, vendere e dispensare canzoni in loro derisione o disprezzo; e di usar loro violenza di qualunque sorte, e di torre loro i figlioli, e tolti raccettarli
etiam sotto pretesto di volerli ridurre alla Santa Fede Cristiana; sotto pena della fune, denari, confino, stinche e galera secondo il retto giudizio et arbitrio di chi doveva giudicare"
92
Legislazione toscana cit., XXIII, Firenze 1806, p. 283.
.
Non sempre però certe antiche norme venivano rispettate: poco prima di morire, per esempio,
Gian Gastone nominò per nove anni
Rinaldo Buoninsegni camarlengo del Monte dei Paschi, non curandosi del parere della Balìa, cui spettava - secondo i Capitoli dell'istituto senese - di conferire quell'incarico. Le proteste senesi fecero rientrare la delibera granducale, ma quando Gian Gastone morì il cordoglio dei senesi fu comunque assai blando e basterà ricordare le parole di
Giovanni Antonio Pecci, che nel suo Giornale Sanese, scrisse sotto il 10 luglio 1737, queste parole circa l'ultimo Medici: "Costui, che sarà sempre memorabile non per azioni eroiche e generose, quali si dovrebbero a un principe per ben governare i sudditi, benché avesse talento notevole, fu sempre indolente, lasciò amministrare gli stati a capriccio de' ministri, rare volte ascoltò i ricorsi, perché tutto dedito a piaceri sensuali, niuni più che giovinastri sfrenati accarezzò e salariò, donne di cattivo nome accogliè e benché impotente, si pigliò piacere di vederle co' giovani licenziosamente scherzare, della Religione le ripruove non ammettono che bene sentisse, onde, come un porco morì, come si è detto"
93
Giornale Sanese cit., p. 115.
.
Qualche tempo dopo il Pecci ritornò sull'argomento, annotando: "Pessima veramente fu ed é la condizione dei Sanesi che, dopo la libertà, indoverosamente loro usurpata, ed essere stati per lo spazio di anni ottanta sotto il duro giogo dei Gran Duchi della Casa Medici e dei Fiorentini loro antichissimi nemici, l'esser ridotti poverissimi, e le città e campagne vuote di popolazione, possino presentemente sperare sollievo da un governo Lorenese. Se n'avvedranno coloro che verranno, che non vorrei esser profeta, perché non migliorare, ma peggiorare sensibilmente conosceranno lo Stato e le cose loro, che Iddio non voglia"
94
.
Il pessimismo del Pecci appare subito giustificato:
Francesco III di Lorena e la moglie
Maria Teresa d'Austria giunsero a Firenze il 19 gennaio 1739. Visitarono Siena nei primi giorni d'aprile e lasciarono la Toscana carichi di prede il 27 di quel mese. Il governo fu affidato a
Marc de Beauveau, principe di Craon, al quale l'Auditore generale di Siena
Neri Venturi presentò i risultati di un'indagine sulle condizioni degli uffici cittadini. A tal fine ricevette a sua volta dal provveditore del Monte dei Paschi un lungo rapporto, da cui si rileva quanto segue: "Che il Monte, come era stato aperto, così si era conservato coi denari dei particolari, appartenendo i Luoghi di Monte nella più parte a monasteri di monache e di religiosi, preti e luoghi pij, essendo nella minor parte di secolari; che il Monte era solito di risolvere la vendita dei Luoghi, a richiesta delle parti, e di restituirne il prezzo ai creditori, anziché autorizzarne la cessione per atto fra i vivi, e questo ad effetto di tenerne viva la negoziazione, ed animare chi avesse denaro, a depositarlo al Monte; che tutte le spese per la sua gestione annuale non trascendevano la somma di scudi 1500 o 1600 al più; e certamente nessuna di esse si reputava non necessaria o superflua, anzi piuttosto mite e discreta; e dall'anno 1700 in poi non vi era stato agumento, toltone uno di lire dieci al mese per un aiuto al provveditore autorizzato fino al 1707; che sul capo degli avanzi ascendente a scudi 14.096 non si poteva far verun fondamento, non tanto perché si ritrovavano in mano dei debitori, quanto per essere stati additti per rilevare il Monte da ogni danno e accidente; ed inoltre non erano punto considerabili, tanto più che, convenendo al Monte di corrispondere ai creditori degli interessi puntualmente, ed ogni sei mesi la rata senza verun indugio, e non potendoli esigere colla stessa puntualità dai suoi debitori, guaj al Monte se non avesse il refugio di tali avanzi, che, come acquistati coi denari dei particolari (cioè dei creditori per Luoghi di Monte) così in favor di loro stava benissimo che fossero con tutta giustizia riserbati; che, in fine, le cose del Monte erano state così bene ordinate, ed il benefizio che la sua fondazione aveva sempre arrecato alla città e Stato di Siena, era stato così grande che i Principi dell'estinta dinastia, non solo lo avevan decorato e distinto di specialissimi privilegi e prerogative, ma eziandio si erano sempre degnati di riguardarlo con occhio molto parziale e diverso da quello con cui solevano riguardare le altre pubbliche casse"
95
ACS,Pre-unitario 23, n. 112.
.
La Potesteria di Grosseto.ASS, Pianta topografica Morozzi, n. 83 ex 17.
Alla fine d'agosto 1737 i creditori per Luoghi di Monte erano solo 290 per circa 247.000 scudi e i debitori di prestanze erano 1798 per circa 250.000 scudi. Il rapporto terminava con queste parole: "Essendo grande la gelosia colla quale deve riguardarsi lo stato di questo Monte, il predetto Collegio tiene a parte una Deputazione d'otto Gentiluomini, i quali sempre che il bisogno lo richieda, possono con partecipazione di V.A.R. dichiarare, riformare ed accrescere il disposto sin qui e che in futuro fosse ordinato, in quanto riputassero esser necessario e di benefizio del Monte e dei privati. Si radunano nella sala del Concistoro una volta il mese, dove intervengono il provveditore, il bilanciere e cancelliere del Monte e quivi si legge dal notaro di detta Deputazione il bilancino dell'entrata e uscita mensuale del medesimo Monte, dopo essersene fatta preventivamente la lettura nel Maestrato. Ricevono d'onorario scudi sei l'anno per ciascuno e così fra tutti, compresovi il loro notaro, scudi cinquantaquattro"
96
.
Paolo Agazzini,
Campanella in bronzo, 1759.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Anche dal Monte Pio giunse un rapporto, dove non si poté fare a meno di accennare ai furti subìti dall'istituto: "Se per nostra disgrazia l'infedeltà di alcuni ministri non avesse più e più volte, con gravi vari peculati, pregiudicato a questo povero luogo pio, contandosi i vuoti di cassa fino dal primo camarlingo
Aldieri Della Casa, che si trova debitore di circa scudi 15.097; oggi sarebbero le cose del Monte in un sistema così felice che nulla più; si troverebbe sgravato affatto di debiti e potrebbe sovvenire ancora una gran parte dei poveri senza esigere da loro interesse alcuno. Ma, per l'avvenute purtroppo frequenti disavventure, è convenuto crescere il numero dei creditori e riformare in diverse occasioni le spese; ed in ultimo il 1698 bisognò torre affatto alcune ricognizioni e ridurre quasi a tutti i ministri li salari a metà [...] Noi, per vero dire, nel vedere che il Monte continua di giorno in giorno a mancar di forze, abbiamo tentato di esaminare e far ricerca di tutti quei provvedimenti che in tali pressanti angustie fossero paruti opportuni, e non credendo per anco proprio crescere agl'impegnanti il frutto delli quattro, che adesso ne soffrono alli 4 e mezzo o 5 per cento riservandoci ricorrere a questo unico miserabil rimedio nei casi estremi, non ci seppe in ultimo sovvenire miglior consiglio, se non che sgravarlo in qualche parte di debito, e già si sono restituiti in quest'anno alli creditori scudi 1785 di sorti che avevamo in cassa indisposti; ci siamo astenuti di conferire due impieghi che restano vacanti per far risparmio di parte di quel salario; abbiamo deputato un esattore per procedere contro certi debitori, già che quivi non vi è chi abbia tal peso; e credendo anco opportuno di devenire a nuovo taglio di spese, ed a qualche altra riforma per restringere a questa cassa l'uscita, fin dagli ultimi di agosto passato ne avanzammo alla S.V. una nostra supplichevol partecipazione, che per anco ne rimane irresoluta"
97
AMPio 189, n. 44 (28 apr. 1738).
.
I tentativi di rimediare a una situazione così difficile per la stessa sopravvivenza del Monte Pio fallirono miseramente, tanto che lo scapito annuale dell'istituto dal 1737 al 1745 raggiunse la somma di circa 3500 scudi e solo le speciali sovvenzioni del Monte dei Paschi riuscirono, anche in seguito, a salvarne la precaria esistenza.
Nel Consiglio di Reggenza era entrato intanto il conte
Emanuele de Richecourt e col suo autorevole appoggio la Balìa senese riuscì a ottenere il libero commercio dei grani della Maremma almeno per dodici anni, "da non doversi sospendere per qualunque carestia o altro impensato incidente, derogando per tale effetto a qualsiasi legge ed ordine disponente in contrario"
98
Legislazione toscana cit., XXIV, p. 150.
. La speranza di un "pronto sollievo" nelle Maremme, da cui dipendeva - secondo la Balìa - "il risorgimento totale dello Stato Senese"
99
ASS, Balìa 486, c. 121 (6 ott. 1738).
, andò almeno in parte delusa, come si può capire dal testo di un motuproprio del 25 agosto 1747 che ordinava: "Per provvedere alla scarsezza della raccolta seguita in quest'anno nella Maremma di Siena e riparare ai bisogni degli abitanti delle città, terre e castelli di quello Stato, sia permesso a quelle Comunità, colle solite approvazioni, prendere ad interesse dal Monte dei Paschi le somme che dal Magistrato dei Conservatori, di concerto con i Deputati dell'Abbondanza, saranno credute necessarie per il sovvenimento di ciascheduna Comunità, con tutte le cautele e sicurezze solite praticarsi in favore di detto Monte dei Paschi, al quale perciò si dà facoltà di aumentare la vendita dei Luoghi di Monte sino alla somma di scudi 25.000"
100
.
Neppure un mese dopo il conte di
Richecourt insisteva scrivendo al Monte dei Paschi: "Premendo sommamente che nelle presenti indigenze venghino fatte dall'Abbondanza di Siena le necessarie provvisioni per sollievo di prendere ad interesse dal Monte dei Paschi la somma di scudi 8 mila, con che, oltre all'obbligare gli effetti suoi propri, per cautela e sicurezza di detta somma, vi intervenga anche l'obbligazione del pubblico della città sopraddetta"
101
Ivi, 1503, n. 8 (12 sett. 1747).
.
Così il Monte, derogando alla norma statutaria che vietava i prestiti superiori a cinquecento scudi per volta, prestò all'Abbondanza nell'arco di due mesi la somma di 8000 scudi, accordandone altri 3600 alle comunità maremmane di Grosseto, Batignano, Giuncarico e Monteano.
Dall'ottobre 1738 il Monte dei Paschi era diventato depositario dei proventi di una tassa di pedaggio, che aveva subìto un aumento secondo i vari tipi di bestie e di veicoli da trasporto. Tale aumento si era reso necessario per far fronte ai debiti contratti a causa dei soggiorni in Toscana delle truppe tedesche, ma preoccupava anche il reperimento di 30.000 scudi da donare al nuovo sovrano lorenese.
Sulla quota di questo donativo assegnata ai senesi e al contributo che, in debita proporzione, dovevano offrire gli ecclesiastici, nacquero vivaci contrasti con Firenze, che proseguirono quando fu vietata l'esportazione delle lane gregge. I lanaioli senesi, ormai da anni ridotti di numero, protestarono affermando che il loro "piccolo commercio" sarebbe stato danneggiato e fu chiesto alla Balìa di poter "esaminare i modi più propri da promuovere le arti e togliere alla povera gente la necessità o la birba di mendicare". Anche l'arte della seta, "che - a detta della Balìa - allora si vedeva poco meno che affatto rovinata"
102
ASS, Balìa 237, c. 178v (23 mar. 1740).
, chiedeva di essere rimessa "nell'antica forza e nel primiero splendore"
103
Ivi,c.175 (15 mar. 1740).
.
La pianura di Grosseto e il paduledi Castiglion della Pescaia.ASS, Quattro Conservatori, pianta 3053 n. 159.
I provvedimenti invocati per far rifiorire queste manifatture non ebbero un pratico sbocco e la Balìa tornò a preoccuparsi dell'aumento dei mendicanti, di cui "non pochi erano vagabondi forestieri, che talora provveduti di molti vizi e però non tollerati nel paese nativo, e sempre almeno sospetti, venivano in città a mangiare l'altrui pane colla sola tenuissima fatica del chiederlo. Altri - continuava la Balìa - erano gente del contado venuta in città a farvi nido, non di rado coll'intera famiglia, che viveva di pure elemosine, alimento di sua pigrizia, e provatane la dolcezza e comparatola cogli antichi faticosi esercizi, ai quali più non ritornava, era anco di grandissimo danno ed evidente alle spopolate campagne. Eguale se non maggiore disordine si vedeva introdotto da molti abitatori della città, i quali non avendo giusto titolo di mendicare, all'infingardaggine propria ed alla loro stessa malizia, facevano sicuro fondo e rendita certa dell'universale misericordia, togliendo il necessario sussidio a veri poverelli. Da queste cattive sorgenti e da gente di simil sorte procedevano le cadute e gli inciampi delle fanciulle, i giuochi viziosi, lo spudorato amore del vino, gli spessi furti nei fondachi e nelle case, l'andare al più copioso vicino foraggio di viveri nelle pubbliche piazze, nonché nelle vigne, o pure nei campi. In mezzo a tanta licenza e corruttela, viepiù crescevano coll'aborrimento della fatica, i pregiudizi delle arti e di ciascuna manifattura e del governo politico tutto"
104
.
Libro del camarlengo, frontespizio con gli stemmi degli
Asburgo-Lorena, del Monte dei Paschi e dei
Cervini, famiglia del camarlengo in carica. AMPaschi,
Mostra.
I rimedi proposti consistevano nel richiamare in vigore i bandi espulsivi dei vagabondi, quelli per l'abolizione della questua e il potenziamento dell'Ospizio della pietà. In questo desolante quadro il Monte dei Paschi copriva fortunatamente un ruolo positivo, riuscendo a concedere prestiti per bonifiche sul territorio e per urgenti esigenze del Collegio Tolomei, dell'Accademia dei Rozzi e dell'arte dei cuoiai, i cui laboratori in Fontebranda erano stati sommersi da una frana, caduta dalla soprastante balza di San Domenico.
Il Monte riuscì anche a mantenere l'esazione della gabella della carne, non ostante la decisione del nuovo governo lorenese di affidare la raccolta di molte rendite del Granducato a un unico appaltatore, il conte milanese
Carlo Bernasconi. In tal modo il governo si garantiva una somma certa, mentre l'appaltatore, ovviamente, ricavava il suo guadagno sfruttando quanto era possibile contribuenti e addetti agli uffici. "Lo che - commentò
Giovanni Antonio Pecci - produsse gran timore nei sudditi, attesoché gli appalti sempre riescono pregiudiciali e dannosi a' popoli e alle città, in pubblico e in privato"
105
Giornale Sanese cit., p. 128. Nello stesso Giornale, alla data 26 luglio 1736, si legge: "Avea continuato fino a quel tempo il Maestrato de' Paschi a risedere in alcune stanze a pian terreno sotto il palazzo degli Spannocchi alla Dogana, tenute a pigione, ma riconoscendo che erano per l'umidità difettose e che le scritture e libri soffrivano sensibil nocumento, furono pertanto dal detto Maestrato pigliate tre botteghe nella strada di Banchi, in faccia alla chiesa parrocchiale di S. Pietro e, unitale tutte in una, in questo mese si va proseguendo detta costruzione" (ivi, p. 112).
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Con gli appalti delle Dogane, delle Gabelle, delle Poste, della Magona, della Zecca e perfino degli acquedotti e delle fontane si aggravò la disoccupazione e di conseguenza la miseria. La colpa di ciò fu attribuita al
Richecourt, odiato anche dalla nobiltà e dal clero. Quest'ultimo levò a Siena "gran strepito e clamore", come scrive il Pecci, quando il governo decise di sovvenzionare il locale Ateneo, ridotto in pessime condizioni, col contributo dei Luoghi pii. Anche il Monte dei Paschi fu invitato ad agevolare il sequestro dei frutti sui Luoghi di Monte posseduti da monasteri, cappellanie e confraternite che ritardavano il saldo di quanto era stato loro imposto. Il Monte protestò e anche la Balìa dichiarò di "non aver trovato in alcuna maniera tassabili la maggior parte dei Luoghi pii della città, non essendo fra essi che pochissimi, gli quali potessero contribuire una benché piccola somma senza derogare alle antiche pie consuetudini, e tralasciare la sodisfazione degli obblighi". A queste lagnanze si unirono quelle della Corte di Roma, che valsero a frenare la riscossione del contributo dei Luoghi pii senesi al mantenimento dell'Università.
La Balìa ammise che i senesi dovevano accontentarsi di "uno Studio proporzionato alla scolaresca, non potendosene sperare della forestiera, ma solo quella che si allevava nella città o le trasmetteva il povero suo territorio"
106
ASF, Archivio della Reggenza 661, ins.14, all. 3.
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Scheda Tematica
Un'impresa editoriale di Girolamo Gigli
Con l'aiuto prestato al suo autore Girolamo Gigli (1660-1722) - erudito, letterato, accademico degli Intronati e Arcade - andava in porto quella che forse è la maggiore impresa editoriale tra quelle sostenute dal Monte: quattro tomi con tutti gli scritti di santa Caterina da Siena.
Alle prese con una situazione economica prossima alla completa rovina, Girolamo Gigli per tirare avanti l'annunciata collezione in quattro tomi L'Opere della serafica Santa Caterina da Siena chiese al Monte dei Paschi un prestito di cinquecento scudi. Era talmente mal messo che a garanzia della lambiccata operazione furono chiamati tre suoi figli. Cento scudi sarebbero stati pagati all'appalto dalla carta. Lo stampatore
Fantini si obbligava a consegnare al Monte cinquecento esemplari della biografia che stava per apparire. Successivamente duecento scudi sarebbero stati corrisposti ad altri tipografi per i due tomi dell'epistolario, da consegnare in due partite di cinquecento l'una alla banca."Per maggior sicurezza - precisava il complicato testo, datato 14 giugno 1706 - darà presentemente in pegno, a tutto suo pericolo, tomi cinquecento di Dialoghi di detta Santa, con li suoi frontespitij; e perché questi siano tra i primi venduti consegnerà li cartoni delle persone obligate a detta compra, ascendenti a centocinquanta in circa, et il rimanente si consegnerà, vinti o vinticinque tomi per volta, a più librari con obligo di portare e pagare il retratto in mano del Sig. Camarlingo, et alla dettapartita,eprimaincontodifruttiepoidisorte". Insomma il pegno più solido offerto per stipulare il contratto di mutuo era il libro qui detto dei Dialoghi della Santa, che uscirà di lì a poco, nel 1707. Inscritta poi in bibliografia con due titoli, Dialogo della divina provvidenza e Libro della divina dottrina, l'opera non era di facile diffusione. Da qui la definizione di clausole stringenti.
A battersi per dar seguito a una difficoltosissima impresa editoriale - i due tomi dell'epistolario sarebbero usciti, il terzo, nel 1713 dalla stamperia di
Francesco Quinza e l'ultimo, cioè il secondo, sarebbe stato completato nel 1721, a Lucca, presso
Leonardo Venturini - era Girolamo Gigli, un letterato strambo e scialacquatore, non ignoto agli amministratori del Monte. Vissuto a cavallo di Seicento e Settecento, Gigli è stato definito un illuminista in anticipo: ingegno poliedrico, scrittore fecondo, erudito vorace, poeta satirico, applaudito autore teatrale, protagonista autorevole delle dispute linguistiche antifiorentine, accademico degli Intronati col beffardo nome "L'Economico" e membro di tante altre accademie, infine Arcade. Il gusto smodato per gli onori sembrerebbe contrastare col suo spirito bizzarro e ribelle, ma si dovrà tener conto che Girolamo fu uomo dalle molte esistenze. A ventiquattr'anni si piccò di farsi iscrivere nel Libro d'oro della nobiltà tanto per ottenere i privilegi dello status. Scriteriato nella gestione di una cospicua eredità, cinico fino all'insolenza nei riguardi della moglie
Laurenzia, attore in prima persona nell'autobiografico La sorellina di don Pilone, inviso ai compatrioti per la malevola linguaccia e per la rappresentazione esplicita di vizi e vanità, Gigli, anni dopo aver indirizzato al Magistrato del Monte la citata richiesta di soccorso, si trasferì a Roma, dove fu precettore presso i principi
Ruspoli ed entrò in contatto con gli intellettuali più richiesti. Ma, pur lontano da Siena, non cambiò abitudini. La sua verve di impenitente polemista - contro i gesuiti in primo luogo - era più forte di lui e gli procurò non pochi guai. Ruppe con tutti e si rifugiò infine a Viterbo, rassegnandosi a una tardiva ritrattazione di offese e accuse lanciate in quantità sulle questioni più varie.
Girolamo Gigli ebbe per la santa di Fontebranda un duplice culto: alla devozione religiosa unì un'ammirazione linguistica che lo convinse a compilare, giovandosi di molti apporti, un Vocabolario cateriniano, rimasto a metà, testo fondamentale nella sua battaglia contro gli odiati Cruscanti. Il programma editoriale sottoposto alla banca, anch'esso all'insegna di Caterina, era di tutto riguardo. Ma chi esaminò la richiesta avanzata dal Gigli non tenne conto della passione che lo animava. Gli accigliati componenti del Magistrato degli Otto preposti a vigilare sulla regolarità delle operazioni da effettuare bloccarono tutto. Come consentire che a garanzia della stampa di libri fossero dati in pegno altri libri? Avrebbero avuto l'auspicata attenzione? Libri per produrre libri?
Gigli aveva una cattiva fama, nonostante avesse avuto un notevole ascolto come docente di"toscana favella" all'Ateneo e nel Collegio dei Nobili. Inoltre per il suo audace programma editoriale aveva disinvoltamente cambiato le carte in tavola. In un primo momento aveva prospettato una sottoscrizione di quattro paoli per tutta l'opera, e poi ne aveva abbassato il prezzo fino a due scudi, cioè alla miseria di mezzo scudo al volume. E molti dei sottoscrittori si erano impegnati all'acquisto accettando questo secondo tipo di offerta. Ce l'avrebbe fatta a riprendere la cifra necessaria al rimborso del presto? Nonostante i dubbi che indussero a rallentare il progetto, il Magistrato del Monte non se la sentì di negare un adeguato sostegno a un'idea così generosa. Probabilmente una buona parola la spese uno dei componenti più colti e seguiti dell'organo di governo della banca, un collaboratore di vecchia data del Gigli:
Umberto Benvoglienti, forse l'unico intellettuale che gli era rimasto amico nonostante le clamorose disavventure e l'astio reciproco. Le condizioni dettate dal Magistrato per la positiva conclusione della pratica furono imperative e curiose.
Spannocchi si prese l'incarico di piazzare sessanta tomi dei Dialoghi,
Giovan Battista Nuti centoquaranta e così via. Il massaro
Petrucci fu il più bravo perché smaltì con tale rapidità i cento volumi affidatigli in carico da doverne richiedere altri cento qualche mese dopo. E i librai senesi si dettero molto da fare, ottenendo un successo all'inizio insperato.
Emerge da questo episodio il profilo di un ceto parsimonioso, dapprima restio ad appoggiare il valore di un'iniziativa un po' avventata nei calcoli, ma alla fine convinto della proposta e pronto a cooperare se non altro per ragioni di prestigio politico. Neppure in questa occasione Gigli archiviò le fastidiose diatribe iniziali. La riconoscenza non era mai stata il suo forte. In una lettera, non spedita, preparata anni dopo - nel 1720 - per la Balìa ritornò a brontolare del"dispettoso decreto in Collegio emanato dagli Otto che si chiamano sopra il Monte" con il quale si tentò di annullare il prestito e inserì nella missiva una frecciata micidiale contro i governanti che avevano avuto, a suo dire, il torto di considerare la sua iniziativa "glorioso pensiero", pur avendolo "poco favorito e per non dire perseguitato". Solo grazie all'intervento del cardinale Francesco Maria, figlio di
Ferdinando II, il boicottaggio era stato respinto, come di certo ricordava l'allora provveditore della banca,
Pandolfo Spannocchi. Per di più Gigli non si trattenne dal mettere alla berlina le modalità di elezione di quegli amministratori del Monte che l'avevano offeso con dispetti e soprusi. Nella sequela di stanze del Seminario degli affetti, pamphlet in versi contro l'imperversante Ipocrisia, dedicò un'ottava proprio ai criteri di nomina osservati dalla Balìa nello scegliere gli amministratori "quando dee rinnuovar gli uffizî il Monte", del tutto lontani da valutazioni di merito.
Umberto Benvoglienti, l'amico geloso ma indulgente, comunicò la notizia della morte del Gigli - intervenuta il 4 gennaio 1722 - con una frase che fondeva fraterno affetto e critica freddezza: "alla fine dopo lungo stento è morto a Roma il nostro matto". E non esprimeva di sicuro un'opinione soltanto personale.
Il Monte si era trovato a sostenere, grazie a quel geniale matto, un progetto fuori dalla norma e aveva assunto di fatto compiti da editore avveduto e lungimirante. L'edizione che vide la luce non sarebbe stata possibile se non fosse stato concesso un mutuo estraneo a una logica ferreamente economica. I quattro tomi che videro a fatica la luce sono da annoverare tra i titoli più alti dall'affollata bibliografia sulla Patrona d'Italia e d'Europa. Le note all'epistolario del gesuita
Federigo Burlamacchi sono di una non raggiunta perspicuità ed era paradossale che arricchissero un'impresa voluta a ogni costo dal più aspro censore dell'educazione gesuitica. Non fu quella l'unica contraddizione di cui si fregiò Gigli, che ebbe"sempre bisogno - scrisse
Luciano Banchi con sottile simpatia - di menare la sferza senza pietà né misericordia".
Dal punto di vista strettamente linguistico - forse quello che premeva di più al promotore - l'edizione Gigli-Burlamacchi risulta, secondo
Eugenio Dupré Theseider, "un po' più rispettosa della lingua che non quella del Tommaseo", almeno per aspetti non secondari della parlata senese.
Introducendo le Epistole Gigli non fece mistero dei suoi interessi linguistici e mise la Santa accanto a Villani,
Petrarca e
Boccaccio: "Ella [...], che nel più sincero secolo del toscano parlar tante prose lasciò scritte, non troppo lontana dagli anni di
Giovanni Villnani, e nell'età medesima del Boccaccio, e del Petrarca, e di molti de' più puliti prosatori, e poeti; e che diede con quegli alla toscana bambina eloquenza il primo sostanzioso latte, nondimeno per lo sanese idiotismo nostro particolare, in certe minute cose dal fiorentino differente, e dagli altri della provincia (siccome gli altri tutti fra di loro in qualche modo, per piccole formule di dire, non s'accordano) fece insieme con tali scrittori di Siena suoi coetanei cert'uso particolare di voci e concetti". Una tale rivendicazione di primazia nella formazione stessa del volgare non era frutto di ardori municipalistici. Di recente Jane Tylus ha reclamato per la giovane ribelle di Fontebranda un posto d'onore insieme alle tre canoniche corone all'inizio della letteratura italiana:
Dante,
Petrarca,
Boccaccio e Caterina. E spiega che scrivere era per Caterina fissare il pensiero in parole precise e chiare, al di là del necessario lavoro di cancelleria.
Se c'è un sugo da trarre dalle peripezie dei quattro tomi voluti da Girolamo Gigli, si potrebbe con buoni argomenti affermare che la collezione cateriniana è stata l'impresa editoriale più importante di quelle andate a buon fine grazie al Monte dei Paschi: ed è fuori catalogo, come càpita.
Gran parte di questo povero territorio era costituito dalla Maremma, 5165 chilometri quadrati tra il mare toscano e l'altipiano senese, che l'arcidiacono
Sallustio Bandini così descrive in un suo
Discorso, avviato nel 1737: "Certamente che chiunque passeggiando la Maremma vedesse quei fertilissimi campi ridotti di tal maniera selvaggi, che neppure gli armenti vi pascolano; quelle vigne abbandonate, quelli ulivi inselvatichiti, per non trovare chi il loro frutto raccolga; tante abitazioni ed intiere castella diroccate, non saprebbe persuadersi come non fossero effetti questi o di qualche nemica incursione o di qualche pestilenza straordinaria. E pure, se è vero quello che molti affermano, cioè che v'abbiano cagionata desolazione maggiore gli ultimi quattro lustri, che non aveano fatta quasi due secoli antecedenti; non v'hanno colpa né le guerre, né gl'influssi maligni del cielo, non l'esecuzioni militari, ma piuttosto le civili e le criminali; non i disordini, ma i troppi ordini; più la troppa giustizia, che le ingiustizie; l'esser troppi a regolarla, e niuno a procurar di conoscerla, non che di proteggerla. Di qui è che invece di promuovervi il traffico, par che siasi pensato il possibile per distruggerlo, obbligando que' venditori a rimettersi sempre alla discrezione de' compratori; volendo che si osservino in Maremma quelle leggi che tendono ad avvilire le vettovaglie, perché questo torna conto ed è ben fatto in altri luoghi, dove bisogna comprarne; e si scusano poi col rifondere nella pigrizia e dappocaggine di quei miseri abitatori tutta l'origine e la cagione del loro annichilamento.
Io negar non posso che l'aria della Maremma, infettando i corpi e riducendoli incapaci di molte fatiche, non possa addormentar qualche poco anche lo spirito; ma dico che dove una mercanzia o non si vende o si vende meno di quello che costa, può giovare l'industria per diminuirvi lo scapito, ma non per trovarvi giammai un onesto guadagno"
107
Discorso sopra la Maremma di Siena scritto dall'arcidiacono Sallustio Bandini patrizio senese, Siena, Lazzeri, 1877, pp. 10-11.
.
Il manoscritto del
Discorso sopra la Maremma, per il quale Bandini verrà riconosciuto come precursore del liberoscambismo e dei Fisiocratici, fu donato nel 1739 al nuovo granduca lorenese e al suo ministro
Pompeo Neri. Nel 1740 fu messo in atto un tentativo di ripopolare quel territorio con alcune famiglie austro-lorenesi, fornendole di appezzamenti di terra e di altri aiuti per assicurare loro una stabile permanenza. Purtroppo però, le febbri malariche e altre oggettive difficoltà non permisero alla maggior parte di quelle famiglie di resistere a lungo. Così il governo, nel preambolo di un editto promulgato pochi anni dopo dovette ammettere che "le Maremme erano quasi abbandonate e deserte [e] che tutte le premure fino allora ad esse dedicate non avevano prodotto quelli effetti che dovevano giustamente sperarsene"
108
Legislazione toscana cit., XXV, p. 331 (editto del 1° dic. 1746).
.
Si ordinò allora che tutti i proprietari delle terre maremmane incolte entro sei settimane dovessero dichiarare se avevano intenzione di rimetterle in cultura entro un anno. Se tali termini non fossero stati rispettati, quelle terre sarebbero state devolute al Fisco e ognuno avrebbe potuto occuparle e lavorarle, divenendone legittimo proprietario e potendole trasmettere ai propri discendenti. Se poi il nuovo padrone avesse trascurato di coltivarle per due anni consecutivi, di nuovo il Fisco le avrebbe riprese.
La legge fu criticata come "opposta alla giustizia, perché pretendeva che i proprietari dei terreni li coltivassero in un tempo in cui si teneva inceppato in mille stranissimi vincoli il commercio dei prodotti campestri, al solo oggetto di tener basso il loro prezzo; e perché nessuna utilità potevano i possessori lusingarsi di ricavare dalle gravissime spese che dovevano sopportare per un'opera tanto dispendiosa. Cosicché la legge, piuttosto che sovvenire il pubblico bene, tendeva ad impoverire i possessori di quei feudi"
109
.
Un diverso rimedio aveva suggerito il Bandini, che avrebbe voluto costringere i grandi proprietari non residenti in Maremma a cedere i loro terreni nella forma retributiva dell'enfiteusi e del livello, "contentandosi di riceverne un discreto compenso"
110
Discorso sopra la
Maremma cit., p. 94.
, aggiungendo poi quest'altra considerazione: "In oggi il corpo languido della Maremma non può sopportare gabelle tali che richiedano legature, restrizioni, che più le pesino, più l'inquietino che la gabella medesima. Quando essa avea tutto il suo natural vigore, appena s'accorgeva di aver indosso molti pesi che le sono in oggi insoffribili, molte vesti che in oggi le fanno piaga"
111
.
Ma soprattutto
Sallustio Bandini tornava a insistere che "quel perseguitare come insidiatori del pubblico bene e persecutori de' poveri coloro che comprano i grani per guadagnarvi, quando son necessarj ad alimentare il paese, quando pretendono di affamarlo per fare il prezzo a modo loro, io l'intendo, fanno un traffico maledetto da Dio medesimo. Ma se in Maremma non vì è altra mercanzia che questa di sopravanzo, se non vengono compratori forestieri a ricercarla, quando la necessità di vendere incalza, e che quei miserabili co' granai pieni non hanno da sodisfare i loro creditori, da reggere la spesa del loro lavoro, lo crederei un traffico onesto, utile e lodevole, e da promuoversi piuttosto che proibirsi"
112
.
L'applicazione dell'editto fu, per quanto era possibile, osteggiata dalla Balìa senese, che presentò al governo altri progetti in merito e che decise di incaricare un abate -
Filippo Collani - di seguire a Firenze i negozi relativi a Siena, molti "arretrati e taluni ancora, se era permesso di dirlo con tutto il rispetto, soverchiamente trascurati"
113
ASS, Balìa 242, c. 22v (30 genn. 1748).
. Per questa sorta di sorveglianza speciale all'abate fu assegnato un onorario di venti scudi all'anno.
La Balìa - "la più longeva e agguerrita roccaforte aristocratica tra le istituzioni senesi"
114
Antonio Ruiu,
L'aristocrazia senese: classe di reggimento del sistema cittadino dal medioevo all'età moderna (secoli XII-XIX). Contributo metodologico e prospettive di ricerca
per la storia comparata dei ceti dirigenti e delle istituzioni politiche e parlamentari, Pisa, Ed. ETS, 2010, p. 124. Cfr. anche Giulio Prunai, Sandro De Colli, La Balìa dagli inizi del XIII secolo fino all'invasione francese (1789), in "Bullettino senese
di storia patria", LXV (1958), pp. 33-96.
- oppose una strenua resistenza alle innovazioni introdotte dalla Reggenza lorenese, che soprattutto con la legge sulla nobiltà e cittadinanza promulgata il 31 luglio 1750, tentò di eliminare o ridurre i privilegi dei ceti dirigenti oligarchici, detentori del reale potere fin dal XII secolo.
Giovanni Antonio Pecci, che in forza di quella legge poté fregiarsi del titolo di
patrizio
115
Danilo Marrara,
Giovanni Antonio Pecci e la nobiltà senese nel quadro delle riforme settecentesche, in Giovanni Antonio Pecci. Un accademico senese nella società e nella cultura del XVIII secolo. Atti del Convegno (Siena, 2 aprile 2004), a cura di E. Pellegrini, Siena, Accademia Senese degli Intronati - Accademia dei Rozzi, 2004, p. 269.
e che già aveva suggerito la creazione di un ordine intermedio della cittadinanza fra nobiltà e plebe, senza incidere sul monopolio dei nobili nella gestione delle magistrature senesi
116
, dette nel suo diario alcuni giudizi sull'amministrazione lorenese sicuramente condivisi nei serrati ranghi della nobiltà senese. Del conte di
Richecourt egli scrive che sotto la sua reggenza Siena non ha provato "altro che stranezze, disprezzi e malissimi trattamenti"; dell'Auditore generale
Franchini che ha "stravolti i buoni ordini e le più rette consuetudini" e che "si è reso finto, bugiardo, soverchiatore e pieno di fasto", esaltando "chi non lo meritava" e contornandosi di "maliziosi, spie e ruffiani". Peggio ancora giudicherà nel 1766 l'Ufficio dei Fossi di Grosseto, "composto d'uomini idioti, rozzi e incolti"
117
Giornale Sanese cit., pp. 172, 178, 180 e 215.
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Altri lamenti riguardavano il ripristino in Siena del boia, al quale fu assegnata una casa in via degli Orbachi; poi il restauro delle mura, "cosa assai biasimevole" perché furono demoliti "quasi tutti i merli che gli rendevano ornamento" e abbattuti "alcuni baluardi e antiporti [...] onde non so discernere - insiste il Pecci - se si resarciscono o si distruggono, ma si deturpano certamente"
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Infine, le lagnanze più vive sono quelle relative alla soppressione di molti ospedali: questo ordine - scrive il
Giovanni Antonio Pecci - "violento e ingiusto, fu dai senesi con sommo dispiacere ricevuto [...], anco perché non si potevano dar pace che fondazioni seguite per mezzo delle disposizioni testamentarie degli antenati loro venissero ingiustamente tolte ed applicate ad usi cotanto diversi e dai quali non ne potevano ritrarre vantaggio alcuno"
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Il quadro desolato che appare dal diario pecciano viene in parte corretto da altre cronache senesi, che parlano anche di allegre feste popolari, della vivace attività di Accademie come quelle dei Fisiocritici, degli Intronati e dei Rozzi e dell'incremento della produzione editoriale. Nello stesso periodo è da ricordare il motuproprio del 26 dicembre 1754, che proibiva "a chiunque, dovunque e per qualunque causa di estrarre fuori dallo Stato [...] alcune sorte di antichi manoscritti, iscrizioni e medaglie, statue, urne e bassirilievi, dorsi, teste, frammenti, pili, piedistalli, quadri e pitture antiche e altre opere e cose rare senza la permissione espressa del Consiglio di Reggenza"
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Legislazione toscana cit., XXVII, Firenze 1807, p. 69.
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Il Monte dei Paschi aiutava con prestiti congrui i restauri di alcune chiese, la ricostruzione del teatro degli Intronati che era andato a fuoco, la nuova sede della Contrada del Nicchio e la bonifica del Pian del Padule, continuando sempre a sovvenzionare il Monte Pio con prestiti agevolati. Al Monte Pio fu anche concessa una deroga al bando che proibiva alle "manimorte" ecclesiastiche l'acquisto di crediti pubblici. Quel bando - scrissero i Magistrati del Monte Pio in una supplica al sovrano - "ha dato motivo agli ecclesiastici [...] di dubitare se essi possano fare simili imprestiti e con un tal dubbio recusano di impiegarci il loro denaro, e noi, per l'altra parte, fra le persone secolari, non trovando chi voglia o possa somministrarcelo, ci vediamo in grado o di intermettere la negoziazione o di andare oltremodo ritenuti nel fare i pegni, quantunque con danno infinito del Monte e della povera gente, alla quale il più delle volte in casi simili conviene ricorrere agli ebrei, coll'aggravio di eccedenti usure. Trovandoci adunque fra tali angustie, abbiamo creduto esser preciso obbligo nostro di mettere in vista alla S.C.M.V. i sopraccennati pregiudizi ed insieme implorare umilmente la clemenza sua, acciò voglia compiacersi di privilegiare questo Monte Pio con dichiarare e comandare che le persone ecclesiastiche ed i Luoghi che vengono sotto nome di mani-morte possano farvi liberamente simili imprestiti"
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AMPio 107, c. 12v (15 nov.1751).
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La Consulta - supremo organo di controllo del territorio senese, composto dal procuratore fiscale, dall'auditore e dal depositario - concesse la deroga richiesta, ma ciò non bastò a sanare la cassa del Monte Pio, che nel giugno 1755 ricevette l'ordine di reintegrare questa sua cassa "delle gravissime perdite sofferte in diversi tempi; non dirò - scrisse l'auditore generale - col disastrare i mallevadori e altri obbligati per le medesime, ma col determinare, liquidare e assicurare almeno nelle debite forme, il prodotto e le respettive somme di simili obbligazioni"
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L'auditore si riferiva in particolare al peculato di
Giuseppe Luti, che era stato stimatore dei pegni per quattro anni dal 1737 e si era reso responsabile di un ammanco di circa seimila scudi, salito ormai col cumulo dei frutti a quindicimila. Dopo ben vent'anni di condiscendenti indugi, finalmente nel 1757 fu pronunciata dal Capitano di giustizia la condanna contro Luti e contro i Magistrati che lo avevano eletto
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"Nel dì 25 settembre [1759] dagli auditori Gregorio Rinieri fiscale, Pietro Brogioni auditore di Ruota e Lino Salvetti Capitano di giustizia, giudici delegati per revisione di cassa, fu confermata la sentenza già pronunziata nel dì 7 luglio 1757 [...] e condannati i maestrati a rimborsare al Monte Pio tutti i danni causatigli dal peculato commesso da Giuseppe Luti, allorché fu stimatore del detto Monte" (Giornale Sanese cit., p. 187).
. Dieci anni prima un altro processo per peculato nell'Ufficio dell'Abbondanza di Firenze aveva fatto scoprire gli inquietanti risvolti di una pubblica amministrazione corrotta e perciò il Consiglio di Reggenza si era impegnato a migliorare il sistema della revisione dei rendiconti.
Ciò provocò a Siena la sospensione dello stipendio a "tutti i ministri principali e subalterni" della Biccherna, finché non avessero riordinato quell'amministrazione. Non ostante il rigore del provvedimento, il disordine di quell'ufficio si protrasse ancora per quasi quindici anni, fino alla sua radicale trasformazione con un motuproprio del 1764.
Il governo si preoccupò anche del fatto che - dopo la facoltà data al Monte dei Paschi, a seguito della "penuriosa annata" del 1747, di aumentare la vendita dei suoi Luoghi fino a 25.000 scudi e dopo il susseguente e ingente prestito all'Ufficio dell'Abbondanza - erano trascorsi sette anni senza che lo stesso Monte avesse rivisto il capitale prestato e l'interesse a suo tempo pattuito. Da Firenze si ritenne allora opportuno censurare l'eccessiva indulgenza dimostrata verso i debitori dai Magistrati del Monte, obbligandoli, con un motuproprio del 10 settembre 1755, ad applicare senza indugi le regole che l'articolo 33 dello statuto del 1625 dettava sui frutti non riscossi dei debitori morosi.
In realtà la consuetudine di non applicare la capitalizzazione degli interessi passivi a carico dei debitori morosi fu quasi sempre osservata, finché il granduca
Pietro Leopoldo nel 1775 non abolì definitivamente la prescrizione dell'articolo 33, tenendo conto della difficile situazione economica in cui Siena da anni si dibatteva.
Prima di quell'abolizione però, gli amministratori del Monte, desiderosi soprattutto di continuare a valersi della facoltà di aumentare la vendita dei Luoghi fino a 25.000 scudi, cercarono di dimostrare la loro diligenza nel perseguire i debitori penalizzando non solo i privati, ma anche le comunità, come successe nel 1758 a quella di Grosseto, che si vide sequestrare tutte le rendite necessarie per pagare gli stipendi ai suoi giudici, medici, cerusici ecc. perché debitrice morosa del Monte. I grossetani ricorsero allora al governo, che ordinò ai senesi di pretendere i pagamenti prima dai debitori privati e poi, se proprio non se ne poteva fare a meno, dalle comunità.
L'anno seguente il governo, con un rescritto del 25 luglio, concesse al Monte di continuare a valersi della facoltà di aumentare la vendita dei Luoghi, ma nello stesso tempo obbligò il provveditore dell'istituto senese a rimettere ogni anno alla Segreteria di Finanze la dimostrazione dello stato attivo e passivo dell'azienda. Con questo rescritto del 1759, mentre si incrementava la potenzialità del Monte, si assoggettava la sua amministrazione al sindacato governativo e si rinunciava, da parte del sovrano, alla garanzia sussidiaria che l'intera cittadinanza senese era impegnata a prestare qualora tutte le altre garanzie fossero risultate incapienti.
Il rescritto fu firmato dal marchese
Antoniotto Botta Adorno, che aveva sostituito come reggente il vecchio e paralitico Richecourt nel 1758. Da lui i toscani speravano di essere ascoltati con maggiore attenzione, ma così non fu: il nuovo reggente - che nel 1746 aveva comandato le truppe austriache inviate a reprimere la rivolta dei genovesi, avviata dal sasso di
Giovambattista Perasso detto Balilla - si dimostrò un degno continuatore del suo poco amato predecessore.