1. Il peccato dell'"abominevole usura"
Con 196 voti a favore e solo 14 contrari, il Consiglio della Campana di Siena approvò, il 4 marzo 1472, l'istituzione di un Monte di Pietà."Considerato quanto onore et laude - esordisce la delibera - si attribuisca a ogni republica ad provedere che le povere o miserabili o bisognose persone ne' loro bisogni et necessità siano adiutate et subvenute, et quanto questo sia accepto a Dio, desiderando sopra questo fare qualche utile provisione, providero et ordinaro che per lo advenire ne la città di Siena sia di continuo il Monte de la pietà"
1
ASS, Consiglio generale 234, c. 93.
.
La parola Monte, pur assumendo vari significati, aveva sempre nel medioevo un'implicita idea di unione e di accumulazione. A Siena le consorterie ereditarie che costituivano la fonte per l'esercizio del potere erano chiamate Monti: dei Gentiluomini, dei Nove, dei Riformatori e del Popolo. Monti erano anche le raccolte di denaro per l'esecuzione di un traffico, oppure gli organismi che erogavano denaro offerto o depositato, come i Monti frumentari, i Monti delle Doti o i Monti di Pietà.
Già alla fine del XII secolo una casa di prestito su pegno era nata in Baviera e centocinquant'anni più tardi altre sorsero nella Franca Contea e a Londra, tutte col fine di combattere l'usura, offrendo prestiti a un saggio moderato. Non ostante ciò, ovunque - e anche a Siena - i prestiti di denaro erano spesso causa di estorsioni e abusi. Non solo: per i cristiani l'usura era condannata in base alla massima "mutuum date nihil inde sperantes" del Vangelo di Luca (6,35) e l'unica maniera di sfuggire alle sanzioni religiose e alle preoccupazioni d'ordine morale per l'usuraio era quella di offrire in elemosina alla Chiesa e ai poveri le cosiddette "male tolte", cioè il denaro guadagnato speculando sugli interessi dei prestiti. Di queste offerte sono pieni i testamenti di nobili e mercanti medievali, a riprova del fatto che il prestito più remunerativo con l'investimento capitalistico dei depositi era esercitato soprattutto da loro, rappresentanti di quell'abile e spregiudicata aristocrazia del denaro, capace di sostituire a poco a poco, nelle città dell'Italia centro-settentrionale, l'antica aristocrazia del sangue.
Mezzo scudo d'oro senese, 1548-55.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Anche
Dante, nella
Commedia, conferma questo fatto: i grandi usurai per lui sono i
Gianfigliazzi, gli
Scrovegni, i
Del Dente: tutti nobili e tutti cristiani. Non c'è mai condanna per un ebreo; anzi, l'ebreo giusto può sperare in un premio nell'aldilà. A riprova di questa posizione del sommo poeta favorevole agli ebrei c'è l'inserimento di molti passi della
Commedia nel
Talmud, "cosa - ha osservato
PetrarcaGiorgio Petrocchi2
Giorgio Petrocchi, Gli ebrei, Dante e Boccaccio, in Aspetti e problemi della presenza ebraica nell'Italia centro-settentrionale (secoli XIV e XV), Roma, Quaderni dell'Istituto di scienze storiche dell'Universitá di Roma, 1983, p. 354.
- che non si era mai verificata per alcun testo cristiano". La stessa osservazione si può fare per
Boccaccio, nelle cui novelle i "giudei" sono sempre figure positive, come Abraam o Melchisedec. Perché allora - si è chiesto Petrocchi - da questa benevola comprensione nei confronti degli ebrei si passa, nella metà del Trecento, a una rappresentazione sempre negativa (per esempio nel
Pecorone o nelle
Novelle del
Sercambi), base di una tradizione che porterà poi all'
Ebreo di Malta di
Marlowe e al
Mercante di Venezia di
Shakespeare? La risposta gioca tutta sulle conseguenze della grande peste nera del 1348: anche gli ebrei subirono grandi perdite umane nelle loro comunità e divennero sempre più facili vittime di persecuzioni; per sopravvivere molti di loro furono costretti a praticare con maggiore rapacità di prima la piccola usura, cosa che accentuò l'atteggiamento antisemitico negli strati più bassi della popolazione. Poi, tassi d'interesse sempre più alti, accumulo del denaro liquido e rapide fortune provocarono violente reazioni di rigetto verso gli ebrei da parte della comunità cristiana che li circondava, fino a giungere alla condanna pronunciata da fra Bernardino Albizzeschi nel 1425 sul Campo di Siena: "A tenere il giudeo a casa vostra, due cose ne seguita: primo, elli è guastamento de la vostra città; e secondo c'è la scomunicazione del papa, che non ti puoi salvare con essa"
3
San Bernardino da Sienaa, Le prediche volgari, III, Firenze, Rinaldi, 1958, p. 149.
.
Uno degli obiettivi contro i quali fra Bernardino lottava con maggiore determinazione era "il maledetto peccato de l'abominevole usura" e il suo pensiero influenzò certo gli uomini di governo del suo tempo. Anche a Siena, pochi giorni dopo una sua predica "ad usuram voraginem extirpandam", il Consiglio generale ribadì un'aspra condanna degli usurai, che però avevano già subìto tante limitazioni e minacce fin dalla metà del Trecento, in una singolare alternanza di proibizioni e di concessioni, secondo l'andamento più o meno favorevole delle finanze comunali. I prestatori, e soprattutto i prestatori ebrei, furono a Siena "elemento funzionale al mantenimento o all'affermazione di nuovi assetti socio-economici e politici"
4
Sofia Boesch Gajano, Presentazione, in Aspetti e problemi cit., p. 11.
e spesso fu loro riconosciuta, da parte delle autorità cittadine, una funzione pubblica, sia per il sostegno dato in particolari frangenti finanze comunali, sia per l'aiuto ai ceti meno abbienti, ai quali il Comune cercò poi di venire incontro organizzando autonomamente il Monte Pio.
Nell'arco dei secoli XIV e XV - secondo
Sofia Boesch Gajano
5
Eadem, Il Comune di Siena e il prestito ebraico nei secoli XIV e XV, in Aspetti
e problemi cit., pp. 177-225.
- si possono individuare almeno tre fasi, in cui il ruolo del prestito fu variamente considerato. Fino alla metà del Trecento le troppo scarse testimonianze sulla presenza degli ebrei in Siena non consentono di formulare giudizi articolati sulla loro attività, ma dal 1355, che è l'anno della caduta del governo mercantesco dei Nove, si apre una prima fase con il riconoscimento pubblico di un'attività di prestito ebraico. La politica finanziaria attuata dal nuovo governo dei Dodici, che inasprirono le gabelle e intensificarono i prestiti volontari e forzosi, favorì evidentemente la concessione all'ebreo
Vitale di Daniele, che ne aveva fatto richiesta nel dicembre 1355, di prestare denaro in Siena, in deroga ad alcune precedenti deliberazioni comunali. La conferma di questo favorevole atteggiamento del Comune si ha tre anni più tardi, con un'altra autorizzazione al prestito fatta a
Consiglio di Dattaro, ribadita nel 1375 e nel 1387.
Questi ultimi decenni del XIV secolo furono assai critici per l'economia della repubblica senese, che dovette affrontare lunghe lotte con Perugia e con Firenze e che venne continuamente sottoposta a duri salassi dalle Compagnie di ventura che infestavano il suo territorio. Ma negli ultimi anni del Trecento si accentuano anche i toni di condanna verso l'usura ebraica, che, secondo una delibera del Consiglio generale del 21 dicembre 1393, ha "consumato la città"; si prendono, perciò, alcuni provvedimenti, come quello di allontanare gli ebrei dalle strade del centro e si cerca di stabilire il tasso d'interesse intorno al 30% annuo. Consiglio di Dattaro, tuttavia, essendo uno dei prestatori su cui può contare lo stesso Comune, mantenne la sua ricca abitazione vicino alla chiesa di San Pellegrino, a due passi dal Campo.
L'antica porta della Rocca Salimbeni.
Sotto la signoria di
Giangaleazzo Visconti, accettata dai senesi con la speranza che il duca milanese riuscisse a sottomettere l'odiata Firenze, un altro grande prestatore ebreo,
Gaio di Angelo, rinnova i patti col Comune, al quale egli versa bimestralmente una somma e rende anche altri servizi come canale privilegiato del regime visconteo. La morte di Giangaleazzo il 3 settembre 1402 e la riconquista della libertà da parte dei senesi sembrano, però, arrestare questo processo di istituzionalizzazione dei rapporti fra prestatori e Comune, mentre sempre più forti si levano le voci di condanna contro "el presto el quale se tiene per li giuderi". Esso - si dice in Consiglio generale nella seduta del 7 giugno 1420 - "disfaci la città e el contado di Siena [...] e a poveri huomini sono mangiate l'ossa con la grande usura et sono male tractati. E però sia da provedere utilmente a la ditta materia et aiuto buono e sano consiglio che e patti e contracti facti coi giuderi non vagliano e non tengano di ragione, però che sono facti contra buoni costumi e contra la legge di Dio [...] È conosciuto che sia pure necessario che per lo Comune di Siena si proveggha che povari huomini possano avere qualche ricorso et rifugio ne' loro bisogni, ma questo non si debbi fare con animo d'utilità, la quale d'usura possa adivenire, ma per conservare le povare persone [...] E facendo a questo modo e povari huomini avranno il loro bisogno e non saranno disfatti come sono al presente per le mani de' giuderi. E denari e le buone robbe rimarranno nella città e non anderanno di fuore e continuamente per questo si manterrà divitia e abundantia nella città e contado di Siena e sarà accepto a messer Domene Deo a fare così che ingrassare e dicti giuderi del sangue de le povere persone, le quali lo' vengono a le mani. E di questo s'è avuto sano e buono consiglio da valenti maestri in teologia"
6
ASS,Consiglio generale 209, cc. 44v-45v.
.
Siamo già nella seconda fase dei rapporti fra Comune e prestatori ebrei, nella quale si assiste a un "tentativo di organizzazione del prestito su pegno da parte del Comune stesso"
7
Sofia Boesch Gajano, Il Comune cit., p.196.
: tre onesti cittadini dovevano essere eletti per un anno col permesso di prestare a un interesse del 19% annuo e tutta l'attività doveva essere controllata dai Regolatori, magistrati paragonabili a quelli della nostra Corte dei conti. Non sappiamo se questa specie di Monte Pio
ante litteram fu realizzato oppure no; è certo, tuttavia, che dopo una quindicina d'anni le impellenti necessità finanziarie costrinsero il Comune a rivolgersi nuovamente a un ebreo,
Isaac di Consiglio, per avere un prestito di 500 fiorini, a garanzia del quale fu offerta la gabella del mosto.
Da questo periodo (1437-1440) si può, dunque, far cominciare una terza e ultima fase, nella quale progressivamente si riafferma il ruolo dei prestatori ebrei nell'economia senese, ruolo che non sarà più messo in crisi neppure dopo l'istituzione del Monte Pio.
Nuovi accordi stipulati con gli ebrei nel 1441 e 1447 costrinsero i governanti senesi a chiedere speciali assoluzioni al papa, giustificando il loro agire con le enormi spese belliche sostenute "per multos annos". Nel testo degli accordi si leggono, tuttavia, anche altre cause, come le gravi conseguenze che improvvise cessazioni del prestito pubblico avevano prodotto sugli scolari dello Studio e sui poveri, i quali avevano già fatto sentire "varias murmurationes"
8
ASS, Balìa 4, c. 29, delib. del 25 maggio 1457 (vedi S. Boesch Gajano, Il Comune cit., p. 209, nt. 89).
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Gli accordi stipulati nel 1457 permettono a
Jacob di Consiglio e ai suoi soci di aprire a Siena uno o più banchi di prestito, con un capitale di 15.000 fiorini, somma assai rilevante, se si mette a confronto con quella stabilita come capitale iniziale del Monte Pio nel 1472. I prestatori erano tenuti "ad accettare in pegno qualsiasi oggetto mobile, ad eccezione di legname, aratri, armature", che potevano rifiutare, mentre era loro proibito "prendere in pegno oggetti sacri o appartenenti al Comune e provvisti dello stemma". Avevano inoltre libertà "di praticare forme di prestito diverse da quelle su pegno [...] e ad accettare in garanzia proprietà immobiliari, purché non costituenti bene dotale". Il tasso d'interesse non doveva essere superiore ai quattro denari per lira al mese (20% annuo) e "quanto alle modalità di vendita, il pegno non ritirato entro quindici mesi poteva essere venduto all'asta con pubblico bando fatto dai Regolatori su richiesta dei prestatori, all'inizio del loro mandato (a gennaio o a luglio) e ripetuto per tre giorni consecutivi dinanzi alla sede dell'ufficio di Biccherna. Le aste si tenevano in piazza del Campo [...] Gli oggetti di provenienza illecita dovevano essere restituiti, se reclamati, al legittimo proprietario o a chi avesse su di essi
ypoteca tacita o
espressa, dietro autorizzazione dei Regolatori e dopo rimborso della somma prestata e degli interessi maturati. Veniva inoltre garantita la segretezza del pegno: nessun ufficiale del Comune era autorizzato a richiedere il nome dell'impegnante, ma poteva solo prendere visione dei libri contabili, a cui doveva essere data
piena e indubitata fede"
9
.
Naturalmente
Jacob di Consiglio e i suoi soci, che avevano quasi il monopolio del prestito, erano a Siena dei privilegiati: non portavano il segno distintivo, erano esenti da imposte e tasse, potevano vendere generi alimentari ai loro correligionari "che stessero o albergassero nella casa del presto" e non potevano essere sottoposti a giudizio senza l'autorizzazione del Concistoro.
Non sempre, però, tali patti vennero rispettati; a volte, infatti, il latente spirito antisemita prese il sopravvento sulla regolare applicazione della normativa giuridica elaborata nei confronti degli ebrei prestatori. A Lucignano Val di Chiana, per esempio, l'ebreo
Angelo, che aveva ottenuto licenza di prestare e i relativi privilegi, fu imprigionato e poi ucciso a furor di popolo nel maggio 1466 per aver organizzato una parodia della passione di Cristo con una donna cristiana messa in croce e fustigata. Per questo "abominevole et execrabile excesso"
10
Cfr. Narciso Mengozzi, Il pontefice Paolo II e i Senesi, Siena, Stabilimento Arti Grafiche Lazzeri, 1918, pp. 234-238.
, il podestà di Lucignano, dopo averlo messo in carcere, propose di torturare l'ebreo con la fune, cioè di tirare in alto il condannato con le mani legate a tergo, in modo che le braccia si slogassero. Mentre il podestà aspettava la risposta sul da farsi dal Concistoro, il vicario dell'arcivescovo di Siena,
Domenico di Montepeloso, chiese di processare lui stesso l'ebreo, considerata la natura del reato. Nel frattempo, però, un gruppo di lucignanesi, forse col tacito consenso del podestà, prelevarono Angelo dal carcere e lo uccisero. Il vicario iniziò allora un procedimento contro lo stesso podestà, che fu scomunicato, mentre tredici cittadini di Lucignano, ritenuti colpevoli dell'assassinio dell'ebreo, furono multati ed esiliati.
A Perugia intanto già funzionava un Monte di Pietà dal 1462, sollecitato dalla predicazione dei francescani, e anche a Siena era da tempo iniziata una discussione sul problema del compenso per il mutuo in seno al Consiglio del popolo; lo testimonia
Giovan Battista Caccialupi in una sua
Repetitio, stampata nel 1488
11
Cfr. Mario Ascheri, Giovan Battista Caccialupi (1420 ca. - 1496) fautore dei Monti di pietà, in Grundlagen des Rechts- Festschrift für Peter Landau zum 65. Geburtstag, a cura di Richard H. Helmholtz, Paul Mikat, Jörg Müller, Michael Stolleis, Schoningh, Paderborn 2009, pp. 643-653.
, dove il grande giurista, docente nello Studio senese, riferisce di una predicazione quaresimale del frate perugino
Fortunato Coppoli a Siena nel 1472 e di una "magna controversia inter doctores tam theologos quam iuristas" sul peccato commesso da qualsiasi governo, individuale o collegiale, se avesse consentito l'usura. Avviando la discussione dalle parole del
Coppoli - definito non solo "doctissimus in iure", ma addirittura "buccinator", ovvero divulgatore, "Jesu Christi" - Caccialupi osserva che, se per assicurare il soddisfacimento di un interesse pubblico l'esercizio del mutuo era consentito agli ebrei, eliminando la "spes lucri", prestando cioè denaro senza interesse del mutuante, era possibile, osservando precise regole procedurali, accettare senz'altro l'istituzione dei Monti di Pietà.
Giovan Battista Caccialupi difende quindi i Monti, rafforzando "anche con argomentazioni proprie la posizione francescana e di tanti colleghi giuristi"
12
.
2. Le risorse del Monte Pio
Goro Lolli,
Sante di Bartolomeo,
Giovan Battista di Marco,
Francesco Andrea Marretta,
Francesco Luti e
Leonardo Benvoglienti furono i cinque cittadini incaricati dal Concistoro di stilare le "provvisioni" del Monte di Pietà, che cominciò a funzionare nel mese di maggio del 1472, guidato da tre Conservatori e un Depositario. Costoro dovevano essere scelti dal Concistoro in una lista composta da rappresentanti dei tre Monti allora al governo e cioè le consorterie dei Noveschi, dei Riformatori e del Popolo; dovevano stare in carica per un anno, dispensati dall'assumere altre cariche pubbliche in città o fuori di essa ed esonerati dallo stesso ufficio per i successivi cinque anni.
Obbligati a presentare "buone et sufficienti ricolte", ovvero sicure garanzie, dovevano giurare di esercitare l'incarico ricevuto "con fedeltà, diligentia et amore, et conservare decto Monte e sue ragioni come si richiede a buone, fedeli et diligenti persone"
13
ASS, Consiglio generale 234, c. 93.
. Non osservando tale condotta o rifiutando l'incarico ricevuto, i Conservatori e il Depositario sarebbero incorsi in gravi pene pecuniarie, mentre avrebbero ottenuto un compenso di 50 fiorini dopo il controllo da parte di tre Riveditori, effettuato sulla loro gestione. Questa consisteva per i Conservatori nel ricevere, valutare, custodire e restituire i pegni e per il Depositario fungere da cassiere.
Non potevano essere prestati più di otto fiorini all'anno e chi voleva "accattare dal decto Monte" doveva giurare che non lo faceva "per giocare o per fare mercantia, cioè comprare o rivendare, o altra superflua o dannosa spesa". Non rispettare tale giuramento comportava la perdita del pegno.
Il prestito poteva esser fatto solo a cittadini senesi o a "doctori o studenti o soldati del Comune di Siena" e doveva essere inferiore di almeno un terzo del valore del pegno; nel caso di scapito alla vendita del pegno, i Conservatori dovevano rifondere il danno al Monte. Dopo un anno e quindici giorni i pegni non riscattati, come fino ad allora si era fatto con i "pegni del giudeio", dovevano essere venduti all'asta sulla pubblica piazza e con la "buona diligentia" dei Conservatori, "acciò che el denajo ritornasse al servitio de' poveri huomini".
3. Nel castellare dei Salimbeni
Padroni fin dal XIII secolo di un vasto castellare posto nel Terzo di Camollia, in un tratto cittadino della Via Francigena e all'interno di un'area dominante l'antica "valle Rozi", che da via Montanini scende alla Porta d'Ovile, i
Salimbeni furono, secondo
Girolamo Gigli, "fra le nostre famiglie de' Grandi [...] la più possente e la più ricca"
23
Girolamo Gigli, Diario senese, I, Lucca, Venturini, 1723, p.310.
. L'affermazione non sembra esagerata alla luce di quanto avvenne nell'agosto 1260, prima del decisivo scontro di Montaperti fra senesi e fiorentini, come racconta un vecchio cronista: "E veduto che 'l Comuno non aveva denari, misser Salimbene Salimbeni proferse cento miglia di fiorini al Comuno e alla difesa della città, e che si mandasse per essi. E subito andaro a chasa Salimbeni, e misono questi ciento miglia di fiorini su uno charro coperto di scharlatto e co' molti ulivi in mano. Quegli e quali ghuidavano el charro e venero su la piazza Talomei, e tutti questi denari misero nel mezzo della chiesa di sancto Cristofano. E misser Salimbene si levò suso e disse a suo compagni Vintiquattro, che si soldasse giente, e che non si mirasse a' denari, che quando quegli saranno logri ne prestarebbe altretanti"
24
Cronaca senese di anonimo, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti, Rerum Italicarum Scriptores, XV, parteVI, Bologna 1931-1939, pp. 57-58.
.
La ricchezza di Salimbene era dovuta alla sua attività mercantile-finanziaria, sviluppatasi poi con una società dei membri della famiglia, che acquistarono terre e castelli in Val d'Orcia, formando una vera e propria aristocrazia signorile, capace di arginare almeno in parte l'espansione di consorterie feudali come quella degli
Aldobrandeschi, che continuamente minacciavano Siena. Anche i Salimbeni, però, si troveranno nelle condizioni di contendere al Comune senese - passato dal governo dei Ventiquattro a quello dei Trentasei e infine a quello dei Nove - prestigio e potere, tanto da scatenare violenti scontri con altre potenti casate cittadine e in particolare con i
Tolomei. Ambedue le consorterie facevano prestiti al Comune con interessi fino al 30%, investivano sulla terra e ricoprivano con loro rappresentanti importanti cariche pubbliche, ma non ostante i continui tentativi d'accordo, la storia della loro rivalità, intessuta anche di episodi leggendari, copre buona parte dei secoli XIII e XIV.
Dopo la morte di
Giovanni d'Agnolino Bottone Salimbeni, caduto da cavallo mentre si recava alla Rocca d'Orcia il 2 agosto 1368, tutto l'ordinamento costituzionale senese venne rimesso in discussione. Uomo di fiducia di
Carlo IV di Lussemburgo, Giovanni nel marzo 1355 aveva ospitato in casa sua l'imperatore, giunto a Siena "con seco circa mille tra baroni e cavalieri"
25
Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi cit., p. 577.
: fu l'occasione per cacciare i Nove con una rivolta popolare e per assumere una sorta di signoria di fatto col nuovo governo dei Dodici. Abbandonato il suo regno terreno, basato soprattutto sul grano della Maremma e sulla sua singolare abilità, sia nel commercio sia in politica, Giovanni d'Agnolino lasciò Siena, secondo la testimonianza di
Donato di Neri, "in grande male stato e divisione e bassezza"
26
. Altri Salimbeni cercarono di sfruttare questa debolezza senese, insistendo nel loro tentativo di signoreggiare sulla città, fino alla sconfitta definitiva subìta da
Niccolò di Cione, detto Cocco, costretto nel febbraio 1418 a cedere al Comune tutti i beni della famiglia; fra questi, anche i palazzi in città, ormai "molto guasti" e dove "e' sanesi vi fecero la munitione di grano e di sale"
27
Paolo di Tommaso Montauri, Cronaca senese, in Cronache senesi cit., p. 791.
.
Rocca Salimbeni in piazza dell'Abbadia prima del restauro.
Quattro anni dopo
Marietta, moglie di
Cocco Salimbeni, scrive addirittura alla Signoria perché le dia "modo e facoltà di poter collocare" due figlie in età da marito e più tardi un'altra
marietta, vedova di
Sozzo Salimbeni, si raccomanda alla "pietà e clemenza" del governo senese perché aiuti la figlia Margherita, "da lei in grandissima povertà e fatica nutrita e allevata fuori della patria"
28
Cfr. Arturo Pannilunghi, Lettere di gentildonne senesi del secolo XV, Siena, Tip. Lit. Sordo-Muti di L. Lazzeri 1897, pp. 8 e 10.
.
Nel 1472 la casa dei Salimbeni fu, come si è detto, data "in prestanzia" al Monte di Pietà, "potendola aconciare - secondo la delibera consiliare del 4 marzo di quell'anno - come sarà di bisogno per habitarla, et per la sicurtà di decto Monte; le quali spese, cioè d'acconcimi, si debbino fare alle spese del Comune di Siena, non passando la somma di fiorini cento".
L'edificio già ospitava dal 1422 la Dogana del Sale e dal 1425 l'Ufficio della gabella; vent'anni dopo ebbe bisogno di restauri, specie nella parte verso la chiesa di San Donato, dove - come scrissero gli "offitiali dell'amonitione del grano" al Concistoro - il palazzo stava "in grandissimo dubio di ruinare"
29
ASS, Concistoro 470, c. 22.
.
Anche dall'altro lato il palazzo dei Salimbeni era ormai in rovina; così, per uno dei più fortunati banchieri senesi -
Ambrogio Spannocchi - fu facile acquistarne una porzione nel 1471 insieme con l'adiacente casa dei
Rossi. In quell'area sorse, su disegno di
Giuliano da Maiano, il palazzo rivestito di pietra tufacea, al quale gli
Spannocchi unirono un giardino pensile su parte delle rovine della dimora dei Salimbeni.
Non ostante le felici soluzioni architettoniche, un anonimo cronista senese osservò: "Il capomastro si chiamò Giuliano del Maiano da Firenze, e tutti li altri maestri e manuali erano fiorentini, in modo che molti Populari ne bollivano"
30
Ls [Alessandro Lisini], L'architetto del Palazzo Spannocchi, in "Miscellanea storica senese", III (1895), p.60.
.
La precaria situazione finanziaria in cui si trovava il Monte Pio non impedì ai suoi Magistrati di celebrare il decennale della sua istituzione con un dipinto, commissionato a
Benvenuto di Giovanni, un pittore senese che si ispirava ai modi del
Mantegna, già espressi in Siena da
Girolamo da Cremona e da
Liberale da Verona nei corali miniati della cattedrale. Il dipinto presenta al centro la Madonna, che accoglie sotto il suo manto tante persone in ginocchio e in attesa di aiuto. È evidente l'ispirazione che il pittore trasse dall'affresco del
Vecchietta al pian terreno del palazzo comunale risalente al 1461, con la Madonna, il Figlio, gli angeli e i devoti. L'opera di Benvenuto fu in seguito completata da altri artisti, con i santi
Caterina e
Bernardino sulla destra, con
Sant'Antonio da Padova e Santa Maria Maddalena a sinistra e con i tradizionali stemmi di Siena: la lupa con
Romolo e
Remo e il leone rampante, simbolo del Popolo
31
Pietro Rossi, Le antiche pitture della Pietà nel Palazzo del Monte dei Paschi, in "Rassegna d'arte senese", XVIII (1925), pp. 6-7. Cfr. anche La sede storica del Monte dei Paschi di Siena. Vicende costruttive e opere d'arte, a cura di F. Gurrieri, L. Bellosi, G. Briganti e P. Torriti, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1988, p. 316 e La sede storica della Banca Monte dei Paschi di Siena. L'architettura e la collezione delle opere d'arte, a cura di L. Bellosi, testi di P.Agnorelli, F. Ceccherini, M. Merlini, foto di A. Lensini e F. Lensini, Siena, Monte dei Paschi diSiena, 2002, p. 228.
.
La speranza di poter proseguire nella caritatevole funzione per cui era nato il Monte Pio, chiaramente espressa nell'affresco voluto dai suoi amministratori, fu presto delusa. L'aumento di capitale approvato nel 1473 e un'apposita "presta" nel 1477 non furono, infatti, in grado di salvare la benefica istituzione in una città martoriata dalla peste e dalla "grandissima carestia, alla quale il Senato - racconta
Giugurta Tommasi - si oppose facendo di Sicilia e d'Alessandria d'Egitto condurre molto grano, il quale si vendé tutto l'anno dalli quaranta soldi lo staio, che fu in quella età povara di moneta reputato gravissimo prezzo"
32
Giugurta Tommasi, Dell'Historie di Siena. Deca seconda, vol. II, libri IV-VII (1446-1496), a cura di M. De Gregorio, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2004, p. 245.
.
In queste condizioni era difficile non ricorrere ai prestatori ebrei e Siena continuò ad avere con alcuni di essi un rapporto impostato sul rispetto della loro libertà e sulla concessione di particolari privilegi, cosa assai singolare se paragonata a ciò che succedeva altrove. A Firenze, per esempio, la propaganda di fra
Bernardino da Feltre per l'istituzione del Monte di Pietà si accompagnò a violente accuse contro gli ebrei usurai, cui vennero inflitte tasse speciali, eluse solo da un ebreo ricchissimo che, a quanto riferisce una cronaca di fine Quattrocento, corruppe i governanti fiorentini, impedendo l'istituzione del Monte Pio e favorendo così la propria attività di prestatore.
Anche a Venezia non si aprì un Monte di pietà fino al 1730; la gestione del prestito su pegno fu, infatti, affidata - almeno fino alla fine del XIV secolo - ai Bastionieri, venditori di vino "autorizzati a prestare ad un saggio trimestrale equivalente al 20 per cento all'anno, con l'obbligo di dare al richiedente due terzi della somma in denaro e l'altro terzo in vino di buona qualità. Come e quanto fosse rispettata quest'ultima condizione basta a dimostrarlo il fatto che passò e durò lungamente nel popolo veneziano l'indicazione proverbiale di 'vino da pegni' per designare quello della specie più detestabile"
33
N. Mengozzi, Il Monte cit., I, p. 194, nt. 1.
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In seguito l'onere del prestito pubblico contro pegno fu sostenuto da usurai ebrei, cui vennero rinnovate continuamente le "condotte", sottoposte però spesso a durissime condizioni.
Con
Guglielmo Dattaro, ebreo di Montalcino, il Concistoro senese rinnovò nel 1477 i patti per il prestito a condizioni non dissimili da quelle poste vent'anni prima a
Jacob di Consiglio e che confermano l'ormai raggiunta buona capacità contrattuale dei prestatori ebrei, ai quali si riconosceva una condizione giuridica pari a quella dei cittadini senesi: "Item e decti giuderi in ciaschuna cosa civile et criminale sieno auti, tenuti, tractati, reputati come veri et originarii cittadini de la città di Siena et possino godere tucti e privilegi et franchigie civili et criminali de' cittadini"
34
ASS, Balìa 4, cc. 138-146 (25 mag. 1457).
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Benvenuto di Giovanni,
Madonna della Misericordia, 1481.
Siena, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena.
Dopo gli accordi presi con l'ebreo Dattaro, un'altra decisione governativa del febbraio 1484 rivela la critica situazione in cui versava la repubblica: si approvò, infatti, una sanatoria per tutti i debitori che si trovavano in prigione e ci si preoccupò della diminuzione delle entrate del Monte Comune, definito in una scrittura concistoriale "quella precipua cosa che conserva la città, sì nella pace et unione de' cittadini, sì etiamdio nella sustentatione de li exerciti, buttigari e popolo; perché el denaio del Monte è quello che corre per la città manifestamente, e dà fomento al bisogno del popolo et uso di chi traffica, et mancando quello a uno tracto, mancha ogni bene della città"
35
.
Creato per l'esazione dei prestiti allo Stato, ai quali i cittadini erano spesso costretti, e per assicurare il pagamento dell'annuo frutto e la restituzione graduale del capitale prestato, il Monte Comune aveva assorbito a poco a poco anche l'esazione dei redditi del monopolio del sale e quello degli affitti dei pascoli della Maremma, gestiti dal Monte del Sale e Paschi.
Con il debito pubblico in evidente difficoltà e la rottura del sistema "trinario" dei Monti, che nel giugno 1480 aveva dato vita a un nuovo governo composto solo da Popolari e Noveschi, Siena fu sottoposta per alcuni anni a una continua tensione, causata dalla creazione di un nuovo Monte, detto "degli Aggregati" - dove confluirono Noveschi dissidenti, Gentiluomini, Dodicini e Riformatori - e dalla cooptazione al potere di molti "spalagrembi", cittadini cioè del popolo minuto, che non avevano mai avuto "riseduti" nella propria famiglia.
Tra i sanguinosi tumulti scoppiati in città, specie dopo la partenza di
Alfonso duca di Calabria - l'ambiguo protettore dei senesi, figlio del re
Ferdinando d'Aragona - il più grave fu quello organizzato da
Luzio Bellanti. Con un gruppo di fuorusciti Noveschi, Bellanti occupò, nel gennaio 1481, il castello di Monteriggioni, roccaforte senese al confine di Firenze. I Popolari affrontarono allora con le armi i Noveschi presenti in città. Per sfuggire alla loro furia, molti di questi si rifugiarono nel palazzo comunale, dove rimasero finché il cardinale
Giovan Battista Cybo, inviato dal papa
Sisto IV per pacificare la città, non riuscì a convincere i senesi a unirsi in un unico Monte del Popolo, che avrebbe dovuto diventare il nucleo pacificatore fra gli altri Monti. Il primo aprile 1483, però, alcuni Noveschi furono gettati dalle finestre del palazzo del podestà, dove si trovavano sotto la custodia del cardinale. Questi allora, in preda all'ira, abbandonò Siena, che rimase ancora a lungo in balìa delle fazioni, finché nel mese di luglio del 1487 i Noveschi fecero rientrare in città i loro compagni fuorusciti, guidati da
Pandolfo Petrucci, e insieme con gli altri Monti cacciarono "lo mal governo d'alcuni Popolari di mala vita", causa - scrisse l'Allegretti, cronista Dodicino - "di molte ingiustizie, come robberie, omicidi, sodomie, bestemmie di Dio e della Vergine Maria"
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Allegretto Allegretto, Diarj delle cose sanesi del suo tempo, in Rerum Italicarum Scriptores, t. XXIII, p. 852. Per questo e altri testi di seguito citati vedi Giuliano Catoni, L'alchimia dei Monti, in Repubblica di Siena (1400-1557), Milano, F.M.R., 2002, pp. 13-39.
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"Vedi i sanesi - aveva scritto
Vespasiano da Bisticci nel suo
Lamento d'Italia, pubblicato nel 1480 - per le loro isceleratezze e per li loro infiniti errori si sono condotti a cacciare l'uno l'altro. Hanno avuto la guerra, la pistolenzia, tutto, acciò che s'emendassino; e per la loro impertinentia e ostinazione sono capitati male"
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Vespasiano da Bisticci, Lamento d'Italia per la presa d'Otranto fatta dai Turchi nel 1480, in Vite di uomini illustri del secolo XV, III, Bologna, Romagnoli- Dall'Acqua, 1893, p.323.
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Morto
Guglielmo Dattaro, aveva assunto la condotta del prestito con le stesse condizioni un gruppo di ebrei guidati da
Lazzaro Manuelli da Volterra e anche per il Monte di Pietà furono presi provvedimenti per cercare di renderlo più efficiente. Fu ridotto il frutto sui prestiti dal 7 e mezzo al 5 per cento annuo; si elevò il limite del prestito da 32 a 48 lire; si impose ai suoi amministratori di giurare ogni due mesi sull'osservanza degli statuti della benefica istituzione e si ordinò al Camarlengo di registrare il ricavato della vendita dei pegni "a conto vinitiano", cioè col riscontro fra dare e avere.
Intanto a
Pandolfo Petrucci - figlio di quel Bartolomeo che aveva raccolto l'eredità politica di
Antonio di Checco Rosso, condannato a morte in contumacia nel 1457 con l'accusa di aver tentato un colpo di Stato - "fu data - come ricorda Niccolò
N. Machiavelli - la guardia del palazzo con governo, come cosa meccanica e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati con il tempo gli dieron tanta riputazione che in poco tempo ne diventò principe"
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Niccoló Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Tutte le opere storiche e letterarie di Niccoló Machiavelli, a cura di G. Mazzoni e M. Casella, Firenze, Barbéra, 1929, p. 210.
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Sbarazzatosi dei suoi avversari, non esitando a far assassinare il suocero
Niccolò Borghesi, che era la loro guida, Pandolfo attuò una sua politica interna, favorendo ampiamente il ceto dei ricchi, che poterono acquistare le terre di una sessantina di comunità soggette grazie a un'apposita legge agraria emanata nel 1501.
Anche in politica estera la spregiudicatezza e l'abilità diplomatica del suo "ministro"
Antonio da Venafro - esempio del perfetto consigliere secondo Machiavelli
39
N. Machiavelli, Il Principe e opere politiche minori, Firenze, Le Monnier, 1924, p.69.
- riuscirono a evitare scontri aperti e relative spese belliche, rendendo floridi gli affari dei banchi con l'appalto delle pubbliche entrate. Non altrettanto florida era, invece, la condizione del Monte Pio, ben riassunta dal cronista contemporaneo
Allegretto Allegretti, che, con evidente riferimento a quella Madonna della Misericordia dipinta su una parete della Rocca Salimbeni, nel 1480 afferma: "A questo modo la Vergine Maria è pelata".
Ecco allora che "per supplire ai bisogni del presto", un nuovo capitolato con gli ebrei venne firmato il 14 gennaio 1496
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ASS, Balía 1069, c. 118.V. anche Lodovico Zdekauer, I Capitula Hebraeorum di Siena (1477-1526) con documenti inediti, in "Archivio giuridico Filippo Serafini", LXIV (1900), pp. 3-14.
; essi chiesero esplicitamente la tutela del Priore dei Nove di guardia, che era lo stesso Pandolfo Petrucci, impegnandosi a "rinfrescare il banco" con 3000 ducati e a prestarne 200 alla Casa della Sapienza con un saggio di favore.
Nello stesso anno 1496 cominciò a funzionare anche a Firenze un Monte di Pietà, soprattutto per merito di fra
Girolamo Savonarola. Alcune delle principali regole del prestito richiamavano quelle del Monte senese, ma ciò che differiva molto erano sia le misure vessatorie contro gli ebrei, pretese dal priore della chiesa di San Miniato
Marco Strozzi, sia la natura del capitale di fondazione, costituito dal ricavato della vendita dei beni confiscati ai pisani.
L'aiuto in armi e denari fornito a questi ultimi dai senesi in funzione antifiorentina contribuì a logorare ancor più le già scarse finanze della repubblica, che di nuovo nel 1501 si trovò costretta a preoccuparsi della sopravvivenza del Monte Pio. La sua "reparatione" fu auspicata da una commissione, che aveva esaminato "li disordini et mancamenti" dell'istituzione e aveva suggerito alcuni rimedi
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ASS, Consiglio generale 241, c. 96v (26 dic. 1501).
. Questi furono approvati dal Consiglio generale, ma non furono messi in atto. Troppi, infatti, erano i problemi che, in quel torno di tempo, doveva affrontare la repubblica: il pagamento di un tributo di 4000 ducati alla monarchia francese per ottenere la sua protezione; l'aiuto agli aretini ribellatisi a Firenze; la difesa contro il duca
Valentino, che imperversava con i suoi armati nel territorio senese e che pretese anche l'esilio per Pandolfo Petrucci.
Questi, tuttavia, rientrò presto in città, acquistando con altri soci le pubbliche rendite dei Paschi.
Tali rendite, provenienti dalle entrate della Dogana dei pascoli maremmani, erano fin dalla metà del XIV secolo il maggiore sostegno della finanza cittadina. A parte le "bandite" - limitati territori di proprietà statale o privata o di comunità locali, il cui usufrutto veniva ogni anno venduto al miglior offerente - la maggior parte dei pascoli era data a pagamento ai pastori transumanti, che insieme formavano una "vergheria" e che pagavano una tassa chiamata "fida", secondo il numero e il tipo di bestie da loro condotte. Quando in autunno i pastori scendevano in Maremma con le greggi per passarvi l'inverno, dovevano attraversare le "calle", dove gli animali venivano contati ed essi s'impegnavano a pagare la "fida" quando avrebbero lasciato i pascoli in primavera.
Il mancato pagamento poteva costare la perdita del bestiame e pene anche più severe venivano comminate ai sudditi senesi, obbligati a usare solo pascoli maremmani.
Il rispetto di tutte queste norme, dettate da uno statuto del 1419, era garantito dagli ufficiali della Dogana dei Paschi, rappresentati da settembre ad aprile da un Capovergaro, di regola residente a Grosseto
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V. Il primo statuto della Dogana dei Paschi maremmani (1419), a cura di Ildebrando Imberciadori, in Idem, Per la storia della società rurale.Amiata e Maremma tra il IX e il XX secolo, Parma, La Nazionale, 1971, pp. 107-140 e Carla Zarrilli, Dogana dei Paschi, in Leggi, magistrature, archivi. Repertorio di fonti normative ed archivistiche per la storia della giustizia criminale a Siena nel Settecento, a cura di S.Adorni Fineschi
e C. Zarrilli, Milano, Giuffré, 1990, pp. 109-128.
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L'acquisto delle rendite della Dogana dei Paschi permise a Pandolfo Petrucci di potersi fregiare dell'attributo di "Magnifico" e - pur volendo sempre rimanere "primus inter pares", a capo di una Balìa di quarantacinque membri composta dagli "uomini forti" di tutti i Monti - di assumere di fatto la signoria di Siena.
Il difficile equilibrio raggiunto nel governo della città favorì un certo sviluppo industriale, commerciale e culturale, accompagnato nel 1505 dal rinnovo per altri vent'anni di una condotta al prestatore ebreo
Moisè Angeli da Rieti. Questi "rinfrescò il Banco" con altri tremila ducati, non pretese la restituzione di un prestito concesso alla Casa della Sapienza, ma ebbe la facoltà di elevare il frutto dei prestiti su pegno fino al 30 per cento all'anno.
Oltre la vendita delle rendite dei Paschi, invalse l'uso di vendere anche le potesterie e altri uffici dello Stato, causa questa di corruzione e malversazioni. Anche le cariche del Monte Pio erano state vendute, tanto che la commissione già ricordata, nominata nel 1501 per la "reparatione" del benefico istituto, aveva osservato: "Per essersi detto officio venduto et etiam per continuare più tempo li medesimi offitiali, sono nati infiniti disordini"
43
ASS, Consiglio generale 241, c. 96t.
. Tali disordini condussero in pochi anni il Monte della Pietà alla fine del suo primo ciclo: da una media di cinquanta operazioni giornaliere, nel 1511 si era scesi ad appena ottantaquattro in un anno, condannando così quasi all'estinzione quell'istituto, osteggiato non solo dagli ebrei prestatori e dagli usurai che operavano attraverso di essi, ma anche dai frati domenicani, in polemica con i confratelli francescani.
Questi ultimi ribadivano che la percezione di un frutto onesto sul denaro prestato era ammessa sul piano etico, come affermò finalmente il Concilio Lateranense, chiuso da
Leone X nel 1517. A condizione che non si esigesse un interesse superiore al compenso delle spese indispensabili alla loro gestione, i Monti di Pietà potevano senz'altro essere istituiti. A Siena, però, a quella data il Monte Pio era in piena crisi. Il 19 agosto 1519 il Concistoro decise di offrire in uso gratuito alcune stanze del palazzo Salimbeni, sede del Monte, al setaiolo
Niccolò Sensi, che già da venticinque anni vi abitava con la famiglia e che era da tempo un custode di quell'istituto
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ASS, Concistoro 917, c. 16 (19 agosto 1519) e Monte di pietà 7,c.1.
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Pochi documenti consentono di dimostrare una limitatissima operatività del Monte fino alla vigilia della fine della repubblica senese nell'aprile 1555. Alcune deliberazioni della Balìa - citate da
Federigo Melis - "denunciano la preoccupazione della salvaguardia dei pegni e, perciò, degli interessi patrimoniali dei loro proprietari, mentre la repubblica era in pericolo"
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Federigo Melis,
Motivi di storia bancaria senese: dai banchieri privati alla banca pubblica, in "Note economiche",
1972, p. 61.
; un pericolo che cominciò a farsi sempre più incombente fin dal giorno della morte del Petrucci, avvenuta il 21 maggio 1512. Infatti, non ostante il consenso acquisito nei ceti dirigenti cittadini - specialmente con l'attuazione di una "legge agraria", che permise l'alienazione delle terre di molte comunità soggette, acquistate da sostenitori del regime o da famiglie facoltose del posto - Pandolfo non era riuscito a garantire l'impianto di una vera e propria signoria della "gens Petrucia". Né il figlio
Borghese, che successe al padre, né il nipote
Raffaele o l'altro figlio Fabio ebbero le capacità politiche del "Magnifico" e il sistema da lui creato crollò definitivamente quando
Fabio Petrucci sposò
Caterina, figlia di
Galeotto de' Medici.
I Noveschi, ancora diffidenti verso la Firenze medicea, formarono allora un governo oligarchico guidato da
Alessandro Bichi, ma la sconfitta di Pavia subìta dal re di Francia
Francesco I da parte di
Carlo V il 24 febbraio 1525 provocò a Siena la rivolta dei cosiddetti "Libertini". Il Bichi venne ucciso e si ristabilì un governo popolare, con l'espulsione dalla città dei Noveschi più importanti. Questi fuorusciti riuscirono ben presto a ottenere il favore imperiale col concorso dei fiorentini e l'appoggio del papa, che all'inizio del 1526 inviò le sue truppe nello Stato senese.
Unitesi alle soldatesche fiorentine, queste assediarono Siena, accampandosi di fronte alla porta Camollìa. La reazione dei senesi, che attaccarono di sorpresa il campo nemico il 25 luglio, giorno consacrato ai santi
Giacomo e Cristoforo, fu talmente violenta che l'esercito degli assedianti fu tosto messo in fuga con gravissime perdite.
Per ricordare quella vittoria fu costruita una chiesa, dedicata alla Concezione di Maria e a San Giacomo nella Contrada della Torre e nel 1529, per ribadire la fede antitirannica del governo furono commissionati a
Domenico Beccafumi gli affreschi che, nella Sala del Catino del Palazzo Pubblico, illustrano modelli di virtù civica tratti dagli scritti di
Valerio Massimo.
Quei modelli, tuttavia, furono raramente seguiti e i disordini causati dalle poco virtuose fazioni in lotta provocarono l'entrata in Siena dei soldati di
Carlo V, inviati dall'imperatore per pacificare gli animi.
Nuovi sanguinosi scontri fra Noveschi e Popolari coinvolsero la guardia spagnola, che fu costretta a lasciare temporaneamente la città. Carlo V decise allora di far costruire una grande fortezza a Siena per dotarla di un presidio militare, atto a mantenere l'ordine in un luogo dimostratosi strategicamente utile agli interessi dell'impero. Nel 1537, intanto, era stato confermato l'uso gratuito di varie stanze del palazzo Salimbeni ai figli di Niccolò Sensi, uno dei quali fu poi chiamato "Bartolomeo della Pietà". Quattro anni dopo, dai locali di San Vigilio, furono trasferiti nello stesso palazzo i tre giudici del Tribunale della Ruota, a conferma dell'ormai scarse necessità logistiche del Monte Pio, sostituito dai prestatori ebrei, rimasti a Siena i soli sovventori usurarii. Nel 1545 l'ebreo
Laudadio ebbe la condotta per vent'anni, prorogata nel 1552 per altri sette, mentre speciali capitoli per "tener banco" erano già stati firmati nel 1532 con gli ebrei
Emanuello a Montefollonico e
Raffaello a Montalcino
46
ASS, Balìa 105 (9 febbr. 1532).
.
Negli stessi anni assai diverso era il trattamento degli ebrei in altre città. A Venezia, per esempio, la comunità ebraica fu segregata nel "ghetto", dal nome dell'isola dove esisteva una fonderia recinta da mura, e in un ghetto furono reclusi gli ebrei di Bologna, costretti a non possedere immobili, a portare un segno distintivo giallo e ad assistere ai falò dei libri della loro religione.
Il 27 luglio 1552, al grido di "Francia, Francia! Libertà, libertà!", i senesi assalirono la fortezza, dove si erano rifugiati i soldati dell'imperatore con il loro odiato comandante Don
Diego de Mendoza e li cacciarono dalla città. L'accordo ormai esplicito fra
Carlo V e Cosimo de' Medici per sottomettere la rissosa repubblica aveva convinto il governo senese a chiedere aiuto al re di Francia Enrico II, che inviò a Siena come suoi rappresentanti prima il cardinale di Ferrara
Ippolito d'Este e poi il capitano
Pietro Strozzi. Questi era un fuoruscito fiorentino, che proprio con l'appoggio di
Caterina de' Medici - moglie di
Enrico II e nemica giurata del cugino Cosimo, signore di Firenze - fu nominato luogotenente del sovrano francese in Toscana. Anche il papa
Giulio III era stato sollecitato a intervenire per aiutare la città e
Giovan Battista Nini, del Monte dei Gentiluomini, aveva inviato al pontefice alcuni suoi versi rivolti ai concittadini, sempre in guerra fra loro: "O lupi pien di sete e pien di fame, / d'empi governi scellerati e bui, / ecco vostre orditure e vostre trame, / tessute sempre in devorar l'altrui. / Vostre voglie divise e vostre brame, / senza rispetto mai di chi né cui, / privan l'afflitta e misera cittade / d'onor, di nome e d'ogni sua beltade [...] Se d'un medesmo ceppo sete usciti / e d'un medesimo sangue generati / e d'un medesimo latte poi nutriti, / nella medesima patria imparentati, / dalle medesme mura circuiti, / dalle medesme leggi conservati, perché, per varietà di nomi e Monti / siete a distrugger voi sì presti e pronti?".
Già altri, e da tempo, avevano lamentato le conseguenze delle discordie interne:
Lelio Tolomei, per esempio, in un'adunanza del Consiglio generale nell'ottobre 1551 si era scagliato contro "l'intendere le cose della città a Monti e a fazioni", riducendo così Siena e il suo dominio "in una povertà e debilità incredibili". "Son questi medesimi Monti e fazioni - concludeva - stati causa di una cecità pubblica infinita, che non ci ha lasciato veder mai o stimare il precipizio che avevamo innanzi a' piedi".
La lenta ma inarrestabile discesa in questo precipizio ha avuto due singolari testimoni, che ci hanno lasciato un suggestivo racconto degli ultimi anni della repubblica: il primo è
Alessandro Sozzini, membro della famiglia senese che aveva dato i natali al giurista
Mariano e agli "eretici"
Lelio e
Fausto. Autodefinitosi "homo gioviale et allegro" e scrittore più portato alla commedia che al dramma, ebbe invece la ventura di narrare, in un suo Diario, le sequenze conclusive di una storia amara, punteggiata da episodi crudeli e sanguinosi.
Anonimo, Solenne ingresso di Cosimo I in Siena, 1560. ASS, Tavolette di Biccherna 64.
Il secondo è
Blaise de Monluc, il coraggioso capitano guascone nominato governatore di Siena dal sovrano francese nel luglio 1554 e preso poi a modello da
Alessandro Dumas per il personaggio di D'Artagnan. Dei sette libri che compongono i suoi
Commentaires - definiti da
Enrico IV di Francia "la Bibbia del soldato" - il terzo e il quarto sono dedicati all'assedio subíto dai senesi, alla loro resa e alla breve esperienza della repubblica ritirata in Montalcino. Cosciente di aver a che fare con dei "cervelli bizzarri", Monluc tentò con energico rigore la difesa della città, badando al proprio onore militare, ma non riuscendo a evitare una sconfitta, dovuta soprattutto all'inadeguata struttura politica di uno Stato come quello senese nella lacerante congiuntura internazionale della metà del XVI secolo
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Le citazioni sono tratte da Alessandro Sozzini, Diario delle cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555, in "Archivio storico italiano", II (1842), pp. 1-624 e Blaise de Monluc all'assedio di Siena e in Montalcino 1554-1557, a cura di M. Filippone, Siena, Cantagalli, 1992.
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Appena un mese prima dell'arrivo a Siena di Monluc, il Concistoro non era riuscito, in varie sedute e non ostante diverse proposte messe in votazione, a nominare la Commissione degli Otto di guerra, un organismo indispensabile in quel frangente. "Nacque dissensione e discordia grandissima e furono resi molti e varii consigli e nessuno se ne ottenne; e molti - scrisse il Sozzini - dubitorno che questo non fusse l'ultima ruina della città di Siena".
Un altro colpo inferto alla periclitante repubblica fu la sconfitta subita dall'eterogeneo esercito guidato da
Pietro Strozzi presso Marciano in Val di Chiana il 2 agosto 1554. "Fatta rassegna - racconta sempre il Sozzini - mancorno al campo francese fra morti e mandati prigione a Fiorenza circa dodicimila uomini". L'ipotesi di un tradimento da parte dell'alfiere generale francese, che fuggendo avrebbe condotto con sé quasi tutta la cavalleria, non è presa in considerazione dal Monluc, che non era presente alla battaglia perché gravemente malato; il Sozzini, invece, afferma che quell'alfiere aveva ricevuto il giorno prima dal marchese di
Marignano, comandante dell'esercito imperiale, "dodici fiaschi di stagno pieni di scudi d'oro, sotto nome di trebbiano; e glieli portò un villano, chiamato
Matteo Lodola, accompagnato da più soldati: il quale Matteo dopo la guerra mi confessò il tutto, perché non lo credevo".
Di fronte al Concistoro, che era stato integrato da dodici Consiglieri di Popolo, sempre tenendo conto degli equilibri di Monte,
Monluc pronunciò vari discorsi, cercando d'infondere fiducia ai senesi, con la speranza di ulteriori aiuti da parte del re di Francia. In una di queste occasioni, per non apparire troppo indebolito dalla malattia che lo aveva colpito, il capitano guascone racconta di essersi lavato il viso col vino regalatogli dal
cardinale d'Armagnac "finché non si colorò un po' di rosso", e commenta: "mi guardai allo specchio. Vi giuro che non mi riconoscevo [...] Non potei trattenermi dal ridere, perché mi sembrava che improvvisamente Dio mi avesse data un'altra faccia". Presa la decisione di resistere a ogni costo, i senesi ubbidirono agli ordini del Monluc abbattendo più di cento case per rinforzare le mura urbane. L'entusiasmo con cui si posero all'opera colpì il capitano francese, soprattutto impressionato dalla collaborazione offerta da "un gran numero di gentildonne". Divise in tre squadre, guidate rispettivamente da
Laudomia Forteguerri,
Vittoria Piccolomini e
Livia Fausti, erano circa tremila donne - narra il Monluc - "sia nobili che borghesi; le loro armi erano dei picconi, delle pale, delle ceste e delle fascine [...] Avevano composto una canzone in onore della Francia, che cantavano mentre andavano al loro forte; io darei il mio miglior cavallo per averla e per trascriverla qui".
Molte altre donne però, insieme con vecchi e bambini, dovettero negli stessi giorni lasciare la città perché "bocche inutili". L'assedio, infatti, aveva ridotto al minimo le riserve di cibo; "avevano mangiato - ricorda ancora
Monluc - tutti i cavalli, gli asini, i muli, i gatti e i topi che erano in città. I gatti si vendevano a tre o quattro scudi e un topo a uno scudo". Allora egli decide di espellere da Siena chi non è atto alle armi: "bisogna essere crudeli - dice ai governanti senesi, che devono preparare le liste dei prescelti - se si vuole avere la meglio sul nemico [...] Non abbiate timore di disfarvi delle bocche inutili; tappatevi le orecchie alle grida".
Eppure le "grandissime strida e lamenti" che
Alessandro Sozzini udì provenire da fuori la porta Fontebranda la mattina del 6 ottobre 1554 non potevano lasciare indifferenti. Il giorno prima erano stati espulsi "circa duecentocinquanta putti dello Spedale grande, dalli sei fino alli dieci anni", accompagnati "da molti uomini e donne della città, che avevano avuto precetto di partire". "Più di mezzi" - narra il
Sozzini - furono uccisi in un'imboscata mentre cercavano di allontanarsi dalla città. I superstiti tornarono allora "fuora la porta a Fontebranda (dove si fa l'anno il mercato de' porci), tutti a diacere per terra con grandissime strida e lamenti. Era la più grande compassione a veder quei putti svaligiati, feriti e percossi in terra a diacere, che avariano fatto piangere un
Nerone: ed io avrei pagati venticinque scudi a non gli aver visti, ché per tre giorni non possevo mangiare né bere che prò mi facesse".
Anche Monluc appare scosso quando informa che "il numero delle bocche inutili saliva a 4400 o più persone" e che "di tutti i fatti pietosi e desolanti" che ha visto, mai ha assistito "ad uno simile a questo [...] Il padrone, infatti, doveva abbandonare il domestico che lo aveva servito per tanto tempo, la padrona l'ancella, e un gran numero di povera gente che viveva solo del lavoro delle proprie braccia [...] C'erano molte ragazze e delle belle donne. Loro passavano; infatti la notte gli spagnoli se ne prendevano alcune come ricompensa. È la legge della guerra". Ma - conclude - "Dio deve essere molto misericordioso verso di noi che facciamo tanto male".
Anche i soldati tedeschi vennero fatti uscire perché - a detta del Monluc - erano "gente che amava troppo il proprio ventre". Questo quadro così fosco viene ravvivato dal racconto che il Sozzini fa di "un bellissimo gioco di pallone" organizzato il 13 gennaio 1555 da "molti giovani senesi nella piazza maggiore. Stavano tutti quelli signori franzesi a vedere, e stupivano delle nostre pazzie; che pure il giorno avanti avevano avuta la batteria, e oggi facessero al pallone". Non contenti, "finito il gioco del pallone" - al quale aveva partecipato anche un gentiluomo spagnolo fatto prigioniero e dimostratosi molto abile - "si fece un bellissimo affronto di gioco di pugna, per il quale - commenta il
Sozzini - monsignor Monluc venne in tanta allegrezza che quasi per tenerezza lacrimava, dicendo che mai aveva visto li più coraggiosi giovani di loro. Gli fu risposto da alcuni, dicendo: oh, pensate se noi meneremo le mani contro i nemici, quando ci diamo infra noi, e la sera poi stiamo tutti amici".
In realtà le divisioni dei Monti ancora pesavano assai nei rapporti fra i cittadini e su questi latenti contrasti cercò di agire il marchese di
Marignano, architettando "un sistema - scrive il Monluc - per seminar zizzania fra le fazioni". Ecco allora - continua il capitano guascone - che un certo messer
Pietro, "orbo di un occhio e appartenente all'ordine del Popolo, che, con quello dei Riformatori, era l'ordine del quale non ci fidavamo più", fu indotto al tradimento; fu convinto, infatti, a recapitare alcune lettere, firmate da fuorusciti senesi e molto compromettenti, ad alcuni Noveschi e Gentiluomini, due ordini "considerati sospetti" e perciò teoricamente capaci di ordire un complotto per far entrare in Siena gli assedianti. "Il marchese pensava - scrive ancora Monluc - che appena l'indiziato fosse stato arrestato, conoscendo il carattere dei senesi e il grande odio che c'era fra gli uni e gli altri, l'avrebbero condotto senz'altra formalità giudiziaria al patibolo, per cui i due ordini dei Nove e dei Gentiluomini avrebbero cominciato a discutere e a disperarsi e che poi, per salvare la loro vita, essi sarebbero stati costretti a prender le armi e a impadronirsi di un quartiere prospiciente le mura per tener di mano ai nemici, perché questi potessero entrare in città". Il traditore, però, venne smascherato e "poiché quel malvagio guercio - osserva
Blaise de Monluc - apparteneva all'ordine del Popolo, che era il più numeroso e aveva il più gran numero di armati, temetti che se lo avessero fatto morire i Nove e i Gentiluomini avrebbero suscitato in città dei pettegolezzi, dicendo che ormai si sapeva bene a qual partito appartenevano i traditori, e che questo avrebbe potuto spingerli a por mano alle armi. Tutto ciò mi indusse a chiedere al Senato di concedermi la sua vita e di bandirlo in perpetuo per tacitar tutto". "Ma il tempo passava - scrive il Sozzini - il pane si consumava, né per denari se ne trovava; a tale che ciascuno stava di malissima voglia, ed io sentii da più amici miei, domandandoli come stavano, rispondere: m'è venuto a noia il vivere". Così, "vedendo che non c'era più rimedio - annota Monluc - se non quello di mangiarci a vicenda", viene trattata la resa col marchese di
Marignano: i senesi rinunciano all'alleanza con la Francia, accettano il protettorato imperiale e s'impegnano a stipulare un nuovo patto d'amicizia con Firenze. Oltre mille di loro, però, guidati da alcune potenti famiglie del Monte del Popolo, preferirono abbandonare la città insieme con le truppe francesi, piuttosto che cedere all'esercito nemico. L'obbiettivo era quello di raggiungere
Pietro Strozzi nella cittadella fortificata di Montalcino, poche miglia a sud di Siena, e lì far sopravvivere la libera repubblica.
Il 21 aprile 1555 i fuggiaschi giunsero alla meta "ischeletriti - scrive Monluc - e simili a cadaveri". La disperata resistenza della piccola repubblica, circondata dalle truppe spagnole e fiorentine, si concluse nel 1559 dopo la firma del trattato di Cateau-Cambrésis, che sancì il nuovo assetto politico europeo.
L'antico Stato senese fu abbandonato dalle residue truppe francesi e fu dato in feudo a
Cosimo de' Medici dal re di Spagna
Filippo II. In osservanza del patto di capitolazione firmato da Carlo V nell'aprile 1555, fu rispettato l'impegno di mantenere a Siena le antiche magistrature repubblicane del Capitano del Popolo, della Balìa e del Concistoro e di attribuirne le cariche attraverso l'equa divisione fra i Monti, un sistema rimasto in vigore, con qualche ritocco, fino alla metà del XVIII secolo.
Anche gli otto cittadini che il 29 ottobre 1568 furono eletti dalla Balìa a formare il Magistrato del nuovo Monte Pio furono scelti due per Monte. La pressante richiesta dei senesi per la ripresa dell'attività del benefico istituto era stata, infatti, finalmente esaudita. Già sette anni prima, in un memoriale presentato a Cosimo de' Medici, oltre a chiedere di "riempire la città e Stato di Siena di monete nuove, dacché le senesi erano ne la zeccha di Firenze e non se ne battevano e se ne pativa", si raccomandava "l'ordinatione del Monte de la pietà per sovvenzione dei poveri"
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ASS, Balìa 171 (genn. 1561).
.
A questa seguirono altre suppliche dello stesso tenore, mentre continuava a funzionare un Banco di prestito pubblico gestito dagli ebrei, che - secondo accordi precedentemente presi - doveva durare fino al 1573.
5. Il secondo Monte
Il 14 ottobre 1568 il duca scriveva al governatore di Siena, allegando una "istruzione" per regolare il Monte di Pietà, che doveva avere capitoli "conformi a' capitoli del Monte della Pietà di Firenze", emanati il 15 aprile 1496. A Firenze era stato pertanto inviato il codicetto del primo statuto del Monte senese del 1472, finito poi nella Biblioteca Magliabechiana, da questa nell'Archivio fiorentino delle Riformazioni e infine - ma solo nel 1890 - riportato nell'Archivio di Stato di Siena per interessamento di
Gaetano Milanesi.
Se alla Balìa spettava nominare gli otto "Officiali" del Monte Pio, il duca si riservò la scelta del massaro, ossia del custode dei pegni, e del camarlengo, cioè del cassiere. A quest'ultimo dovevano essere trasmessi, per formare la base finanziaria dell'istituto, tutti "li denari [...] di avanzi di comunità, di opere et fraternità di fuori", da rimborsare alla pari alla fine del primo triennio, eccetto l'Opera Metropolitana e il Tribunale di Mercanzia, che dovevano avere un frutto annuo del 5%, come i privati che avessero fatto depositi
49
.
"Tutte le persone particolari che vi metteranno denari - specifica infatti il testo dell''istruzione' ducale, istituendo un sistema di conti correnti - hanno a esser fatti creditori, et haver d'utili cinque per cento a capo d'anno, et a ogni lor richiesta et volontà si possino liberamente valere di tutto o parte del loro credito e delli utili". Il documento si chiude con l'accenno alla sede del rinnovato Monte: "La casa dove deve risedere il massaro con tutti i pegni Sua Eccellenza Illustrissima se ne rapporterà alla deliberatione della Balìa, la quale la piglino dove giudicaranno più comoda a tale esercitio, partecipando questo nondimeno col governatore et con suo consenso, et bisognando murare et assettare stanze per decto Monte, si possa fare a spese del detto Monte"
50
.
La commissione nominata all'uopo dalla Balìa, formata da otto cittadini - sempre due per Monte - decise di mantenere l'istituto dove era nato, cioè nella "casa della Dogana", allora abitata, insieme con i figli, da
Monna Degna, vedova di
Salimbene Salimbeni, speziale e omonimo discendente del famoso mercante del XIII secolo, che aveva sovvenzionato la spedizione dei senesi a Montaperti.
Raggiunto l'accordo con Monna Degna perché lasciasse la casa entro breve tempo, furono effettuati alcuni lavori per adattare i locali alla loro nuova destinazione e finalmente, il primo agosto 1569, con un solenne cerimoniale, il secondo Monte di Pietà fu inaugurato alla presenza del governatore di Siena don
Federigo di Montauto. Dopo una messa in duomo e un'altra benedizione con relativo canto del
Te Deum da parte del parroco della vicina chiesa di San Donato nella stessa sede del Monte, fu accolto al banco il governatore, che per primo vi pose una collana come pegno, ricevendo in prestito 25 lire, subito distribuite ai musici presenti.
Tutti gli Ufficiali e Ministri giurarono poi nelle mani di un notaio di "bene e fedelmente amministrare"; deliberarono quindi un compenso per il sacerdote e per i trombetti e tamburini intervenuti alla cerimonia e fissarono per il giovedì mattina l'ordinaria riunione settimanale.
Nella prima di queste adunanze accettarono il versamento di 300 fiorini da parte di Olivieri, un profumiere che aveva già depositato tale somma nel banco dei
Ballati e che ora, usufruendo dell'utile consentito, volle trasferirla nel Monte Pio con vincolo dotale a favore di due sue figlie.
La seconda adunanza è da ricordare per la decisione presa di decorare la sede con l'immagine "della pietà e con altre devote figure". Il lavoro fu affidato a un discepolo del
Sodoma -
Lorenzo Rustici - che dipinse un Cristo nudo risorgente dal sepolcro. Allo stesso pittore, soprannominato nell'Accademia dei Rozzi "il Cirloso", cioè il buontempone, era stato commissionato subito dopo la caduta della repubblica senese uno stemma dei Medici, dove applicò le sei palle che ornano l'interno con altrettanti ganci; chiestogli il perché di una tale soluzione, rispose che così potevano essere facilmente staccate e messe in terra se fosse cambiata la situazione. Per questo scherzo fu punito con alcuni giorni di prigione, ma non perse tuttavia - come narrano le cronache - il gusto di organizzare burle.
Poco da scherzare c'era, invece, per gli Ufficiali del Monte Pio, che di lì a qualche mese si trovarono a dover rifiutare richieste di prestito per mancanza di capitale disponibile. Decisero allora di inviare uno di loro a Firenze per presentare al duca un memoriale, dove si diceva che "era stato tanto grande il concorso de li pover'huomini, così per la strettezza dei tempi attuali, come per quella di quelli passati, che le prestanze fatte fino allora avevano esausta la maggior parte" delle risorse dell'istituto. "Così - continuava il memoriale - astretti dalla necessità, i bisognosi tornano hoggi più che mai a gettarsi nelle ingordissime fauci dell'hebreo con gravissimo pregiudizio loro". Si notava poi che era andata delusa la speranza dei depositi, che avrebbero dovuto dare "augumento e maggior polso al Monte", e ciò non solo "per la povertà della città", ma forse anche perché "ognuno vuol vedere come le cose s'indirizzano prima che s'induca a cometer sua sustantia in mano altrui"
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. C'era, insomma, un bisogno immediato di dieci o dodicimila scudi. Il duca rispose che si facesse riferimento agli "ordini del Monte di Firenze", cioè in pratica lasciò inevasa la richiesta, fidando nei due nobili fiorentini da lui stesso nominati: uno, il Depositario, responsabile delle pubbliche finanze a Siena; l'altro, il camarlengo del Monte Pio, della cassa dell'istituto. Questi,
Aldieri Della Casa, avrebbe dovuto presentare, prima di cominciare il suo ufficio, mallevadori per 4000 fiorini d'oro, secondo quanto stabiliva lo statuto, ma non ostante le sollecitazioni degli Ufficiali senesi, tardava a regolarizzare la sua posizione
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Lo stampatore Luca Bonetti dedicò nel 1571 "al molto magnifico et Signor mio osservandissimo Aldieri Della Casa" l'edizione di Alcune lettere amorose. Una dell'Arsiccio Intronato in proverbi, l'altre di M.Alessandro Marzi Cirloso Intronato con le risposte, e con alcuni sonetti. L'opera ebbe poi altre cinque edizioni fino al 1618 ed è nota per il seguito di 365 proverbi e modi di dire con cui il senese Antonio Vignali detto l'Arsiccio si rivolge alla patria, che lo aveva costretto all'esilio. Nella dedica si ricordano "le belle e rare qualità" del Della Casa,"che a tutta questa città lo fanno amabile" (Alcune lettere cit., a cura di M. D[e] G[regorio], Siena, Accademia Senese degli Intronati - Betti Ed., 2007).
. Cominciarono poi ad essere falsificate alcune "polizze", cioè le ricevute dei pegni: un certo
Sallustio, calzolaio, nel febbraio 1569 era tornato al Monte per riprendere un piccolo gioiello impegnato il mese precedente con una polizza corretta da 16 a 15 lire. Scoperto, dopo la confessione fu condannato, oltre alla restituzione della lira estorta, alla gogna nella piazza del Campo, con un cartello attaccato al collo, dove era scritto "Per havere fatta fraude al Monte di pietà". Assai peggio toccò, fra i tanti colpevoli delle piccole frodi perpetrate ai danni del Monte, a due donne, di cui una era addirittura bambina di dieci anni. Accusate di avere falsificato la cedola del pegno, anche se si poteva presumere che non sapessero leggere né scrivere, furono imprigionate e la più grande fu sottoposta alla tortura della fune perché confessasse. Caterina, come si chiamava la donna, respinse l'accusa; fu chiamato allora a rispondere della falsificazione della cedola il padre della bambina, un muratore fiorentino, che - una volta spogliato per essere attaccato alla fune - "fu visto essere stroppiato del braccio manco e giudicato inabile e impotente a ricevere tormento senza pericolo della vita sua"
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.
Bottega di
Sano di Pietro,
Breviario francescano, particolare. BCS,ms.X IV 2.
A un certo punto, per evitare le troppo facili falsificazioni e i conseguenti processi, si decise che, nella cedola da consegnare ai pignoranti, gli Ufficiali del Monte scrivessero la cifra "compitata et non in abaco", ovvero in lettere e non in numeri.
Cominciarono anche le vendite all'asta dei pegni non riscattati nel tempo dovuto e si svolsero nel Campo alla presenza di tutti i Ministri del Monte, che il 3 novembre 1570 proposero al Governatore di aumentare il tetto massimo della somma da prestare fino a 200 lire; essendo, infatti, aumentati i depositi da parte dell'Ospedale Santa Maria della Scala, dell'Opera del Duomo e di molti privati, la cassa del Monte Pio rischiava un sopravanzo infruttifero. La richiesta però non fu accolta, limitando così le funzioni del Monte, che ormai dimostrava chiaramente una sua vocazione come banca di sconto.
Le buone condizioni di bilancio non furono tuttavia sufficienti quando il Monte fu costretto ad affrontare un'ancor più vasta clientela dopo la decisione governativa di chiudere i banchi degli ebrei. Sul finire del 1571, infatti, come era successo a Firenze, anche a Siena fu revocata ogni concessione per la "setta ebrea" di prestare a usura e furono presi alcuni provvedimenti come preludio alla sua reclusione nel ghetto.
Il Magistrato del Monte chiese e ottenne allora 3000 scudi in prestito dal Monte Pio di Firenze per un anno e a un certo tasso d'interesse, mentre la Balìa propose di riservare agli ebrei "la strada del Fondaco di Sant'Antonio di Fonteblanda"
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ASS, Balía 178 (7 mar. 1571). Cfr. Patrizia Turrini, La comunità ebraica di Siena. I documenti dell'Archivio di Stato dal Medioevo alla Restaurazione, prefazione di M.Ascheri, Siena, Pascal Ed., 2008, pp. 23-32 e la ricca bibliografia ivi citata.
.
Fu scelto invece "il ristretto di San Martino", tra la via del Porrione e la via di Salicotto, dove gli ebrei dal 1573 furono obbligati a risiedere e a restare chiusi di notte; tutti dovevano portare un "segno giallo" e ogni maschio maggiore di quindici anni doveva pagare una tassa annuale di due scudi d'oro. I pochi privilegi concessi a qualche membro della comunità israelitica particolarmente ricco presto si limitarono alla possibilità di monopolizzare il commercio di alcune merci, come l'acquavite o il tabacco.
Fino al 1543 agli ebrei non era neppure permesso di frequentare lo Studio senese; in quell'anno papa
Paolo III concesse a uno di loro di laurearsi in medicina e da allora fino alla fine del XVII secolo, sempre con uno speciale provvedimento papale, furono solo undici gli ebrei laureati in medicina a Siena
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Israel Zoller, I medici ebrei laureati a Siena negli anni 1543-1695, in "La Rivista israelitica", X (1913-1915), pp. 60-70 e 100-110.
. Quando nel 1575 un visitatore apostolico - il vescovo di Perugia
Francesco Bossi - fu inviato a Siena per garantire che anche lì fossero applicati i decreti tridentini, il severo prelato osservò che il rispetto della regola secondo la quale il medico doveva, a volte, consigliare ai pazienti di chiamare il prete, non era garantito con un dottore ebreo. Per difendere il diritto di questo di esercitare la professione, il governatore
Montauto dovette - secondo quanto egli scrisse al granduca - fare "tanto rumore e bravata" col Bossi, che, da rigido interprete del dettato tridentino, non intendeva sentire ragioni, minacciando addirittura la scomunica per i rappresentanti di quegli enti cittadini che gli avessero negato la possibilità di controllare i loro libri contabili. Fra questi enti, oltre l'Ospedale Santa Maria della Scala e l'Opera Metropolitana, c'era anche il Monte di Pietà
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Cfr. Giuliano Catoni, Contrasti giurisdizionali e compromessi politici per una visita post-tridentina a Siena, in La nascita della Toscana. Dal Convegno di studi per il IV centenario della morte di Cosimo I de' Medici, Firenze, Olschki, 1980, pp. 217-221.
. Il
Montauto reagì, come al solito, con decisione: per l'appunto il granduca, all'annuncio delle visite apostoliche in Toscana, aveva ordinato non solo ai suoi rappresentanti, ma anche ai vescovi delle visitande diocesi, di cooperare col visitatore perché potesse svolgere il suo compito "nella sfera spirituale". Al governatore di Siena, in particolare, egli aveva specificato che si poteva lasciar visitare al Bossi i luoghi pii e controllare gli statuti delle confraternite laicali per rilevarvi errori di dottrina, ma che non si doveva permettergli di vedere i libri d'amministrazione di ospedali, confraternite e Monte di Pietà.
Gregorio XIII nelle sue istruzioni ai visitatori, emanate qualche tempo dopo, diceva esattamente il contrario, ma in un primo momento i Medici non ritennero opportuno affrontare apertamente la questione, fidando nella discrezione degli stessi visitatori e nell'assoluta fedeltà dell'alto clero locale, più attento di regola agli ordini fiorentini che a quelli romani. Sotto questo profilo Siena era una delle città più sicure, con un vescovo - Francesco
Bandini Piccolomini - che dimorava stabilmente a Roma e che era sostituito nel governo della diocesi da un coadiutore -
Alessandro Piccolomini - nominato a tale incarico per agnazione e preoccupato solo di non dispiacere al granduca. Appena saputo della visita, Alessandro, un letterato umanista del tutto avulso dalla realtà che assillava la Chiesa in quel momento, iniziò un carteggio col granduca per farsi consigliare sul comportamento da tenere col Bossi, cioè, in pratica, per farsi suggerire il modo migliore per boicottarlo.
Il
Bossi però era un osso duro e tentò di far stampare segretamente i decreti di riforma per la diocesi senese, dove - fra l'altro - si insisteva sul vincolo del controllo ecclesiastico per l'amministrazione dei luoghi pii. Montauto riuscì a sventare il tentativo del Bossi e cercò di dimostrare il "patronato regio" sui luoghi pii senesi, al fine di costringere il visitatore a chiedere, secondo quanto stabilivano i decreti tridentini in questo caso, il necessario consenso all'autorità laica per effettuare la visita. C'era infatti un'istituzione che stava molto a cuore al governo fiorentino, cioè quel Monte di Pietà che, rinnovato nel 1568, utilizzava a favore della comunità senese tutti quei capitali, che altri enti cittadini e in particolare i luoghi pii in questione gli affidavano in deposito fruttifero con lo scopo di fare prestiti su pegno dietro pagamento di un tenue interesse. Purtroppo mancavano però documenti che comprovassero la specifica dipendenza dei luoghi pii dall'antico Comune di Siena; né, d'altra parte, Bossi riuscì a dimostrare il contrario.
Il rappresentante dei Medici cercò allora rifugio nell'argomento della consuetudine, mentre da Roma il cardinal
Maffei, capo della Congregazione delle Visite, insisteva perché Bossi applicasse le pene previste contro i camarlenghi e gli altri ufficiali che non adempivano all'obbligo di presentare i conti al visitatore. L'impasse fu superata grazie all'abilità diplomatica del cardinal Ferdinando, fratello del granduca, che riuscì a ottenere l'allontanamento del Bossi da Siena e la sua sostituzione con
Giovanbattista Castelli, vescovo di Rimini, in quel momento visitatore apostolico a Pisa.
Il compromesso raggiunto a Roma consisteva nel permettere al nuovo visitatore di vedere i libri contabili dell'Opera Metropolitana e degli ospedali, senza che su di essi operasse un vero e proprio controllo. Castelli, venuto a Siena nel marzo 1576, vi rimase tre settimane e completò la visita iniziata dal
Bossi, senza tuttavia poter vedere i conti del Monte di Pietà. Tornato a Pisa, si mostrò ancor più intransigente del suo predecessore sui luoghi pii e sulla clausura nei monasteri. Nei decreti da lui emanati si ordina, infatti, che l'Operaio della Metropolitana non depositi i fondi residui nel Monte di Pietà, ma li distribuisca a beneficio della Metropolitana stessa e si condanna come usura il pagamento degli interessi sui depositi dell'Opera nel Monte.
Il pericolo che l'attuazione di questi decreti mettesse definitivamente in crisi l'esclusiva giurisdizione medicea sui luoghi pii della Toscana fu scongiurato con la promessa, da parte della Curia, che i decreti finali sarebbero stati redatti a Roma, tenendo presenti le volontà dei Medici. Il successo diplomatico del cardinal
Ferdinando fu completato poi con la nomina di
Achille Sergardi, un prelato fedelissimo al granduca, quale responsabile dell'applicazione dei decreti a Siena, dove peraltro mai furono pubblicati quelli del Castelli.
Al Monte Pio intanto il Magistrato si lamentava del disordine in cui il camarlengo
Aldieri Della Casa teneva i conti e anche del denaro che rimaneva infruttifero in cassa; a tal proposito gli Ufficiali del Monte suggerirono al governo di poter "prestare somme su cedole", cioè su generiche proposte di negozi. La richiesta fu respinta e fu invece ordinato di fare prestiti agli allevatori di bestiame della Maremma, soprattutto per l'incremento della razza suina.
Nelle "Ordinazioni sopra la Dogana et Bandite et altro della Maremma et Stato di Siena", emanate l'8 maggio 1574, fra gli altri provvedimenti si legge: "Li molto magnifici Signori Deputati da Sua Altezza Serenissima sopra il negozio del bestiame dello Stato di Firenze et di Siena: avendo conosciuto per l'esperienza di alcuni anni decorsi, et per li avvertimenti e doglianze hautone da più gentiluomini senesi et da alcuni mandati dalle città, terre e castella dello Stato, e da buon numero di capi-vergari di diversi luoghi del dominio fiorentino e senese, quanto sieno andate declinando e diminuendo da qualche anno in qua l'imprese de' bestiami d'ogni sorte e quanto maggiormente sarebbero per diminuire nell'avvenire se non vi si provvedesse con presti et convenienti rimedi", ordinano che "debbiasi per il Monte di pietà di Siena e suoi ministri prestare a ciascuno che fiderà in quella Dogana, et che vorrà accattare a ragione di scudi due di lire sette per scudo per ciascuna troja da tenersi per rendergli subbito finite le locationi et condotte, et con pigliare idonee sicurtà per li capitali et per li utili". I padroni e garzoni dediti a quell'industria dovevano inoltre essere esenti da tasse ed era proibito il taglio o la distruzione di piante ghiandifere
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ASS, Balìa 179 (8 mag. 1574).
.
L'incarico di fare prestiti per l'incremento della razza e dell'industria suina non fu particolarmente gradito agli ufficiali del Monte Pio, che dopo aver cercato di evitare tale responsabilità ricevettero dal granduca la seguente lettera: "Si come si è fatto intendere più volte al governatore, così ora rispondiamo a voi che la cura del approvare i mallevadori delle preste delle troje ha da essere vostra et non di altri, perché di voi soli vogliamo poterci lodare o dolere, secondo che conosceremo andarsi facendo da voi; si che pigliatevi questa cura senza altra replica, et quanto alle cose del Monte non occorre che vi pigliate pensiero di quello che vi si fece intendere, ma attendiate con ogni diligentia a fare osservare da ciascuno li ordini di esso. State sani"
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.
L'incentivo all'allevamento dei suini, se da una parte favorì lo sviluppo della pastorizia, dall'altra svantaggiò la coltura dei cereali, lasciando a pascolo buona parte del territorio maremmano, poco popolato e insalubre, anche per le acque stagnanti del Lago di Castiglione, concesse in affitto per la pesca.
Aldieri Della Casaa, come camarlengo del Monte Pio, funzionava anche come Soprintendente della Maremma, gestendo il suo ufficio con molta disinvoltura; d'altra parte anche i mutuatari per l'industria dei suini spesso non rispettavano l'impegno di pagare gl'interessi. Si giunse così nel 1576 alla necessità di un nuovo prestito di 4000 scudi fatto dal Monte Pio di Firenze a quello di Siena, che per iniziativa dei nuovi Ufficiali, insediati per il III Magistrato nel gennaio di quell'anno, commissionarono al pittore
Arcangelo Salimbeni una
Pietà nella loro sala di riunione. Questo secondo dipinto dopo quello del
Rustici, oltre a ornare l'ufficio, serviva forse a dimostrare una sincera fede e a rendere così meno pressante la vigilanza di gesuiti e conventuali investiti del potere inquisitoriale, ai quali il granduca era stato costretto a inviare un messaggio di questo tenore: "Nei nostri Stati non vogliamo altri padroni che noi, né che alcuno pretenda di legare i nostri vassalli senza noi, sicché nel medesimo modo che avete tenuto in creare cotesta compagnia, la farete dissolvere, non avendo noi bisogno di compagni per perseguitare i tristi"
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Riguccio Galluzzi, Storia del Granducato di Toscana, IV, Firenze, Marchini, p. 283.
.
In questa categoria di tristi da perseguitare finì anche il fiorentino Della Casa, camarlengo del Monte Pio nominato a suo tempo dallo stesso duca; sollecitato, infatti, a presentare i conti della sua gestione se ne partì da Siena senza alcuna spiegazione, proprio mentre negli stessi giorni
Carlo Pitti, camarlengo del Monte Pio di Firenze, si lamentava col governatore di Siena perché ancora non erano stati pagati gli interessi del prestito concesso al Monte senese.
Il Magistrato di questo chiese e ottenne di recuperare tutti i libri contabili che si trovavano nell'abitazione di Aldieri Della Casa prima che potessero essere trafugati e, dopo un sommario controllo, il 22 luglio 1576 scrisse al granduca una lettera, in cui annunciava la fuga di Aldieri e la grande "alteratione di scritture" nei libri dei conti, iniziata fin dal primo bilancio; si comunicava anche che
Pandolfo Accarigi , cassiere fiduciario del Della Casa, era stato arrestato per ordine del governatore.
Inviato a Siena
Tommaso de' MediciTommaso de' Medici per controllare l'incresciosa situazione, fu deciso di intimare ai mallevadori di Aldieri di pagare l'ingente debito da lui lasciato; così, nell'agosto 1578, il senese
Jacopo Federighi e i fiorentini
Quirino Della Casa,
Benedetto Rosini,
Bernardo e
Benedetto Macchiavelli furono condannati a pagare entro dieci giorni i debiti lasciati dal camarlengo, di cui erano stati fatti garanti. Tra l'altro, fra loro c'erano due membri della casata Macchiavelli, coinvolta, insieme con quelle dei
Ridolfi, dei
Pucci, degli
Alemanni e dei
Capponi, in una congiura ordita nel 1575 contro il granduca, che reagì condannando alla miseria e all'infamia anche i figli in tenera età dei congiurati.
Lo sconcerto provocato dal furto e dalla conseguente fuga del Della Casa suscitò una naturale diffidenza negli Ufficiali del IV Magistrato del Monte Pio, che dovevano stare in carica dall'agosto 1578 al luglio 1581; fatto l'inventario dei pegni, ci si accorse subito che un famiglio del Monte -
Pietro Buonvisi - ne aveva presi molti, impegnandoli di nuovo a suo nome. Vedendosi scoperto, anche lui era fuggito e c'era andato di mezzo il suo mallevadore.
Al posto del camarlengo infedele, il granduca nominò un senese,
Lorenzo Griffoli, e gli ordinò - fra l'altro - di non pagare "denari di troie né restituire depositi senza far scrivere tutte le partite da quelli alli quali pagherà o restituirà denari per dette cause, o da altri per loro non sapendo scrivere, [...] altrimenti tali partite non soscritte non provino, né se li presti fede alcuna"
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.
Nella corte del Capitano di giustizia si celebrava intanto il processo contro Aldieri Della Casa; risultava che "in diversi tempi aveva commesso nel administratione [...] molte e diverse tristizie, falsità, inganni e robberie [...], assentandosi furtivamente di Siena e portando via e convertendo in uso proprio notabile quantità di denari appartenenti al detto Monte Pio, alla detta Depositeria e Gran Camera et a particolari persone"
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ASS, Esecutore e Capitano di giustizia 645, c. 657.
.
Per questo fu condannato a morte in contumacia, alla confisca di tutti i suoi beni e al risarcimento di tutti i danni e interessi.
Anche a
Pandolfo Accarigi, cassiere fiduciario del Della Casa, già incarcerato, furono sequestrati i beni; gli fu concesso, però, dietro sua richiesta, di uscire dal carcere di giorno e di tornarvi ogni notte, almeno finché non fossero stati controllati tutti i suoi conti. Un'altra concessione particolare fu fatta nell'ottobre 1578 all'ultimo dei prestatori ebrei pubblicamente riconosciuto. Il ricchissimo
Simone di Laudadio aveva lasciato Siena con la sua numerosa famiglia non volendo chiudersi nel ghetto. La sua partenza aveva però creato un vuoto nel giro d'affari della città; così - fattane richiesta - gli fu permesso di abitare fuori dal ghetto, di "tenere una bottegha fuora del luogo deputato" e di "portare la berretta nera rispetto al travagliare con gli altri mercanti", a patto di non esagerare "con dare a usura"
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ASS, Balìa 181 (13 ott. 1578).
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Anche a un ebreo fattosi cristiano insieme con le due sue figlie e che da
Jsaac detto Grillo era divenuto Aurelio, fu dilazionato il pagamento di un debito contratto col Monte Pio dopo la relativa supplica presentata per lui dal frate agostiniano che l'aveva condotto "alla vera fede di Christo".