FILODIRETTO7 - n. 19 del 1/12/2006
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Banca Toscana, mecenati e collezionisti in Palazzo Vecchio
PALAZZO VECCHIO: MERIDIANA DI TOSCANA
Antonio Paolucci

Quando ancora non c'era il Palazzo Vecchio di Arnolfo, i rettori del libero comune si riunivano per deliberare in San Pier Scheraggio, la chiesa che Giorgio Vasari in parte demolì e in parte assorbì nella struttura della fabbrica degli Uffizi. A ben guardare la storia gloriosa di Firenze è stata concepita e in certo senso programmata per i secoli a venire in San Pier Scheraggio. In quel luogo il destino della città ha avuto il suo imprinting iniziale.
Nella prima metà del Duecento, quando la Firenze della "cerchia antica" era un piccolo dado di pietra e di mattoni irto di torri collocato sulla riva destra dell'Arno fra pianure paludose e montagne nere di boschi, una piccola mano di uomini geniali fece le scelte giuste. Nella politica, nell'economia, nella finanza. Fra lotte di fazione e affrontamenti feroci di famiglie e di clan, quegli uomini scelsero il papa e il partito guelfo contro l'imperatore e contro la nobiltà feudale; investirono tutte le loro risorse nell'industria tessile, nel commercio internazionale, nella banca; coniarono, nel 1253, il fiorino d'oro, la "lega suggellata dal Battista", destinato a diventare moneta di riferimento sulle piazze d'Europa e del Mediterraneo, da Londra a Damasco, da Milano a Costantinopoli.
Quelle scelte avvenute in San Pier Scheraggio otto secoli fa determinarono il destino della città. Senza quelle scelte non ci sarebbero stati, nei secoli successivi, la tumultuosa crescita demografica ed economica, la vasta ricchezza della oligarchia borghese, il mecenatismo dei Medici. Non ci sarebbero stati, quindi, gli affreschi di Masaccio al Carmine, le statue di Donatello in Orsanmichele, la cupola del Brunelleschi "magnifica e gonfiante […] a cuoprire di sua ombra tutti i popoli toscani" (Alberti).
Senza San Pier Scheraggio, senza le geniali scelte strategiche operate dai fiorentini del Duecento che in quella chiesa si riunivano per deliberare, non ci sarebbe il Palazzo Vecchio che conosciamo e che è l'argomento di questo libro. Palazzo Vecchio: immenso dado di fulva pietra forte, grandiosamente fuori scala, con quella torre imponente, elegante e minacciosa, che volle imporsi, fin da subito, come meridiana di Toscana e vessillo di regionale potestà.


Palazzo Vecchio

Con Palazzo Vecchio (praticamente concluso nelle forme che conosciamo intorno al 1320) Firenze acquista il visibile dominio. Grazie a Palazzo Vecchio, la città del Fiore - dai borghi dell'Appennino romagnolo fino ai castelli della Maremma - viene percepita dai popoli toscani come la Dominante.
Voluto e finanziato dal progetto politico geniale inventato, sperimentato e collaudato dai fiorentini che deliberavano in San Pier Scheraggio, Palazzo Vecchio è anche il monumento più importante in Italia, e probabilmente in Europa, della rivoluzione che un giorno gli storici chiameranno "borghese". Quando i figli dei conciapelle e dei fabbri ferrai, dei cambiavalute e degli avvocati assunsero il potere, si fecero classe dirigente, emarginarono la nobiltà della spada e del sangue, affermarono il primato del lavoro, del rischio d'impresa, del denaro. È la rivoluzione di cui tutti siamo figli, l'unica veramente importante e carica di futuro nella storia del mondo. Tutte le volte che entro nell'ombra proiettata da Palazzo Vecchio sulla piazza della Signoria e alzo gli occhi verso la torre immensa, incombente, penso che la civiltà del denaro e del lavoro non poteva darsi un monumento più glorioso. Solo i grattacieli di Manhattan mi hanno sollecitato impressioni simili.
Molte altre cose ha significato e significa Palazzo Vecchio. È stato il palazzo del principe. Io non sono mai entrato nel salone dei Cinquecento voluto così grande da Girolamo Savonarola perché ospitasse l'assemblea dei Giusti, il consesso dei "cittadini netti di specchio", senza pensare che quello spazio, poco più di mezzo secolo dopo, Cosimo de' Medici lo avrebbe utilizzato per la più spietata e laica celebrazione del potere assoluto mai fino ad allora messa in figura nell'Europa cristiana. Con gli affreschi che parlano di città conquistate, di popoli sconfitti e umiliati, il principe al centro del soffitto a dominare le Arti e le Magistrature e tutto intorno le statue di Vincenzo De' Rossi che celebrano, nelle similitudini erculee e sotto il segno del capricorno, la gloria del serenissimo autocrate. Meraviglioso esempio di eterogenesi dei fini, o di ironia di Dio, come io preferisco dire.
Palazzo Vecchio è stato anche sede del Parlamento nazionale negli anni di Firenze capitale. Mentre "più alto sulle rovine dei ponti" apparve, nel 1944, ai fiorentini restituiti alla democrazia; come sta scritto nella bellissima lapide che Piero Calamandrei fece collocare sul lato sinistro del palazzo. Infine, al termine di settecento anni di storia, c'è il Palazzo Vecchio di oggi, gremito di capolavori, attraversato da file incessanti di visitatori. Anche se conserva ancora la sua funzione antica (guai se dovesse perderla!) di luogo della sovranità (o signoria) popolare, con l'ufficio del sindaco, con l'assemblea degli eletti.

Nel libro che le mie righe introducono un gruppo di amici e colleghi (Ferruccio Canali, Laura Carsillo, Carlo Cinelli, Valerio Cantafio Casamaggi, Valentina Conticelli, Carlo Francini, Giulio M. Manetti, Gabriele Morolli, Maria Camilla Pagnini, Cristina Poggi, Francesco Vossilla) ha analizzato il venerabile edificio "intus et in cute", minuziosamente accompagnandolo lungo la sua storia sette volte secolare, disarticolandolo in tutte le sue parti, scrutinando e selezionando masse imponenti di materiali iconografici, bibliografici, documentari. Il risultato è un volume, curato da Carlo Francini, che rimarrà negli studi come il punto di arrivo più aggiornato e più qualificato a coronare un lungo percorso di riflessioni e di ricerche sul Palazzo del Popolo più bello d'Italia.
Ho detto che la torre di Palazzo Vecchio è la meridiana di Toscana, il visibile emblema dell'intera regione. Mi sembra dunque giusto e bene augurante che l'istituto bancario di Aldighiero Fini, che porta in epigrafe il nome della Toscana, abbia voluto finanziare una così degna impresa.