FILODIRETTO7 - n. 5 del 25/8/2006
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PUNTARE SULLA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA
Dal Corriere della Sera del 18.08.2006

Sarà perchè il banchiere di Siena, che vuol dire la banca più antica del mondo, si chiamava Provveditore, ma Giuseppe Mussari, presidente del Monte dei Paschi, non sembra aver nulla del finanziere tutto stock option e rendimenti. La premessa la fa lui:
«Di manovra economica parliamo dopo. Vorrei iniziare dal Libano. L’ultima prova, se ce n’era bisogno, che la situazione internazionale, senza uno sviluppo ordinato ed equo, è destinata a vedere sempre nuovi focolai di tensione...».


Preoccupazioni un po’ inconsuete per un banchiere. Parla quasi come un no global?
«L’equità non è solo una questione etica, ma economica. Sul fronte dello sviluppo di quelle aree l’Italia può fare uno sforzo ancora maggiore. Anche per la sua posizione nel Mediterraneo. A distanza di un mese dalla conferenza di Roma una cosa è certa: dobbiamo smetterla di vedere questo Paese come l’armata Brancaleone...».

Il Presidente Giuseppe Mussari

Ma l’Italia non ci sta facendo una gran figura. Già si fa attanagliare dai dilemmi sulle regole d’ingaggio per il Libano?
«Mi pare che partire sotto l’egida dell’Onu sia un passaggio molto chiaro. Ma ripeto, e non è solo deformazione professionale: la questione centrale resta lo sviluppo di quelle aree. La sicurezza internazionale si costruisce anche così».

E il governo Prodi adesso cosa potrebbe fare sul fronte dell’aiuto allo sviluppo?
«Per esempio potrebbe riprendere il percorso iniziato con la cancellazione dei debiti del Terzo mondo».

Che si è fermato...
«Appunto, ma il debito è solo un effetto. Rimuoverlo non basta a eliminare le cause che lo alimentano. Né più né meno di quello che accade all’Italia con la sua montagna di debito pubblico. Fino a quando l’Occidente resterà un miraggio da conquistare, con gli sbarchi dei clandestini, o da distruggere, con gli attentati, non ne usciremo. Penso che serva una politica estera come quella che ispirò Andreotti».

Che fa, rivaluta la prima Repubblica?
«No, ma dico che l’Italia, e lo sta facendo, deve riprendere un suo ruolo nelle politiche del Mediterraneo».

Detto da chi guida una banca da sempre considerata «rossa», non è male. Non è che per caso anche lei ha nostalgia, in economia, dei vecchi boiardi di Stato?
«Nessuna nostalgia delle Partecipazioni Statali, ma dobbiamo anche finirla con l’ideologismo del pubblico e del privato. Serve una logica di mercato, ma corretta dall’interesse pubblico».

Un po’ Blair e un po’ Rifondazione per la sinistra.
«Non credo ai modelli in politica. Blair o Zapatero non c’entrano. Bisogna affrontare le singole questioni. Senza perdere di vista una visione più generale...».

Per esempio le liberalizzazioni alla Bersani.
«Quelle sono state un momento decisivo. Ma il vero cambiamento che c’è da attendersi da questo governo è la consapevolezza che la somma degli egoismi non porta da nessuna parte. Frena la crescita. E per dirla con la Borsa non crea valore per la collettività».

Tradotto, avanti con la lotta alle rendite di posizione, dai tassisti ai farmacisti?
«Mettiamola così. Le lobby, prese singolarmente sono sempre minoranza. Ci sono più persone che prendono il taxi dei tassisti».

Se è per questo anche più clienti che banche.
«Infatti la svolta tocca da vicino anche noi e tutti dobbiamo collaborare con approcci e modalità sempre trasparenti. Premesso questo, è evidente che il complesso delle regole del sistema bancario, assicurativo e previdenziale va condotto verso forme più semplificate e liberali.».

Ma molte delle questioni con le lobby, pensiamo all’energia, sono rinviate. Non sarebbe meglio, come suggerisce Monti una grande coalizione per batterle?
«Io non credo che serva un progetto per battere le lobby. Uno per il sindacato. Uno per le imprese. Serve un progetto per il Paese. A quel punto si è disposti a rinunciare ad una parte delle proprie cose per riaverle con gli altri... E con gli interessi».

Sicuro che viviamo nello stesso Paese...
«Guardi che questo modo di ragionare è molto più pragmatico di quanto sembri. Prenda i monopoli naturali. C’è un interesse pubblico ad avere un servizio elevato ad un prezzo più basso. Occorre una riflessione strategica che garantisca investimenti ma, nel contempo, anche la competizione tra chi fornisce servizi. Tutto a vantaggio del consumatore».

Non dica che vuole rinazionalizzare le autostrade.
«No. Ma le infrastrutture monopolistiche rivestono un interesse pubblico. E non è detto che la gestione pubblica sia inefficiente per definizione mentre l’interesse generale non è una priorità dei privati. Una distinzione da vedere in molto molto laico».

E lo Stato cosa offrirebbe di più...
«Non ho detto lo Stato, ma per gli interventi sulle nuove infrastrutture si potrebbe pensare ad un maggior ruolo pubblico. Inutile nascondersi dietro l’ideologismo pubblico-privato. Il mercato non è così virtuoso, o non lo è per tutto. E’ qui che la politica invece deve giocare il suo ruolo».

Una specie di Gosplan in versione riformista?
«Macchè. A ciascuno il suo. Ma i "privatisti" ad ogni costo non li condivido».

Promuove più Padoa-Schioppa o Visco l’acchiappa-tasse?
«Non credo ai Ronaldinho nel governo. Abbiamo bisogno di un lavoro di mediani, di gruppo».

Come Oriali nella canzone di Ligabue.
«Certamente servono anche le azioni singole, da fuoriclasse, ma l’obiettivo di distruggere le rendite di posizione, che non determinano una crescita reale, deve essere comune, di tutta la squadra».

Qualcuno, come Rifondazione, ogni tanto non si presenta agli allenamenti. E a settembre c’è la Finanziaria.
«Ecco il punto: il governo dovrà tenere insieme due cose: eliminare le rendite di posizione e incentivare i ceti produttivi. Sarà questa la prossima sfida di Prodi».

Anche lei nel partito lacrime e sangue?
«Il rigore è un problema serio, ma la manovra si misurerà su due fronti: risparmiare e investire. O l’esecutivo fa tutte e due le cose insieme o il Paese non si rimette in moto».

Ma nell’agenda d’autunno cosa metterebbe al primo posto?
«Innanzi tutto cogliere e incentivare i primi segnali di ripresa, ma con una prospettiva più ampia. Un recente rapporto curato dall’Accademia delle Scienze americana ha ribadito che andiamo sempre di più verso la società della conoscenza. E gli Usa, che già detengono il primato in questo campo, si stanno ponendo il problema di come assicurarselo in futuro. Bene. L’Italia deve fare la stessa cosa».

Ma noi abbiamo il minor numero di iscritti nella facoltà scientifiche?
«Bisogna incentivare i giovani a iscriversi alle facoltà scientifiche. Servono ingegneri, chimici, fisici, biologi, matematici. Come è accaduto per l’Euro: abbiamo bisogno di un grande progetto condiviso che metta l’Italia in carreggiata. E anche qui è inutile nasconderlo: negli Stati Uniti il più grande committente nella ricerca è lo Stato»

Statalista anche nelle biotecnologie...
«No. Bisogna creare le condizioni perchè i ricercatori vengano nel nostro Paese. Che ne attrae già molti. A Siena, con la Fondazione Mps, abbiamo l’esperienza di un centro di biotecnologie dove lavorano 120 ricercatori. Lingua ufficiale l’inglese. E vengono da ogni parte del mondo. Penso a una sorta di piano Beffa per individuare i terreni sui quali sviluppare l’innovazione. In Francia è stato affidato questo compito ad una commissione composta da manager privati. Si potrebbe percorrere questa strada anche in Italia».

Il ministro Mussi sarà il primo a doversi rimboccare le maniche?
«Mi pare che lo stia già facendo. Il compito è delicato. Il nostro Paese ha un tasso di rigidità sociale che è tra i più alti al mondo anche per i ritardi nell’alta formazione. Non possiamo più permetterci che soltanto i figli seguano le orme dei padri notai, professori, banchieri. E’ un fatto economico, non morale. La società della conoscenza può servire ad avere una realtà più mobile e più giusta».

Non è che vuole candidarsi in politica?
«No. Ma guardi che agire secondo questi principi ha un forte contenuto economico, non è una filosofia per anime buone. E’ un problema di visione più generale...»

Perchè, il governo non ce l’ha?
«Al contrario, mi pare che l’esecutivo l’abbia già indicata. Il punto è che non deve distrarsi. Anche con le difficoltà di costruire volta per volta il consenso. Decisivo sui mercati è il sentiment, la percezione. Se è positiva il mercato ha fiducia e compra, altrimenti vende. Questo vale in banca ma anche per la politica».

Un equilibrio più stabile ci sarebbe magari allargando la maggioranza, le larghe intese alla Merkel...
«Non credo agli inciuci e ai pasticci del consenso allargato ma per ammodernare l’Italia penso che un progetto possa essere condiviso».

Anche dall’opposizione...
«Ricerca, innovazione, competitività. Sono cose che diceva anche il vecchio governo. Lavorare per far giocare una partita in prima fila all’Italia delle nuove tecnologie è un credito, per dirla da banchiere, anche per le prossime elezioni».